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Economia

La crisi del modello mercantilista europeo e il suo passaggio verso la rendita.

Una panoramica storica.

di Jacopo D’Alessio, socio ESC

A causa delle sanzioni contro la Russia e la conseguente perdita di energia a basso costo da parte dei paesi trasformatori, come Germania, Olanda, Austria, Francia e Italia, ormai, è sotto gli occhi di tutti: l’export europeo crolla inesorabilmente. Torniamo quindi un attimo indietro e tentiamo una sintesi di quello che è successo negli ultimi quindici anni.

1. LA PRECEDENTE CRISI BANCARIA DEI SUBPRIME

Nel 2008, la crisi fu finanziaria e venne innescata dai subprime americani: cioè, dai mutui concessi ad ampie fasce di controparti con inadeguata situazione reddituale. Per intenderci, si concedevano a quella fetta di settore privato i cui lavoratori erano sotto-occupati, o precarizzati, con redditi bassi e discontinui. Di conseguenza, si trattava di clienti che avevano una probabilità di insolvenza assai maggiore di quanto considerato sostenibile in una sana attività creditizia. Così, lo scoppio della bolla speculativa distrusse la liquidità degli istituti di credito, travolgendo quelli più esposti alle cartolarizzazioni dei prodotti finanziari sugli immobili, primo fra i quali la Lehman Brothers, che venne lasciata fallire. Tuttavia, il pericolo di contagio del sistema bancario era diventato ormai così grave che il governo statunitense fu costretto a varare un piano straordinario di fondi pubblici, superiore ai 700 miliardi di dollari, per evitare un domino di vaste proporzioni, tale da portare al collasso l’intera economia a stelle e strisce. Dunque, l’intervento riuscì ad evitare lo scenario peggiore ma non a scongiurare la diffusione della crisi su scala globale, tanto che il credito subì una contrazione severa, dapprima negli USA, e poi anche in tutta Europa.
A questo punto, gli investitori istituzionali (istituti di credito e fondi finanziari), che acquistavano TDS (titoli di Stato) sul mercato primario, a fronte di una emissione di tali obbligazioni da parte dei Ministeri del Tesoro dei vari paesi, si persuasero che gli stati membri dell’Unione, causa le politiche di austerità, non fossero in grado di intervenire tempestivamente con efficaci iniezioni di spesa a compensare la mancanza di credito privato, come avevano appena fatto invece gli USA. E pertanto arrivarono a temere addirittura un’insolvenza nel pagamento delle obbligazioni pubbliche. Se a questo si aggiunge che alla BCE (Banca Centrale Europea) è vietato per statuto di acquistare direttamente i TDS, gli investitori ebbero modo di rendersi conto del formidabile affare speculativo di cui potevano cogliere l’opportunità. Quindi, fecero impennare i prezzi delle obbligazioni pubbliche senza trovare effettivamente nessun ostacolo alle loro scommesse che andarono a vantaggio dei bond tedeschi mentre avversarono quelli degli altri stati. Il resto è storia. Qualora, infatti, la Commissione non avesse permesso a Mario Draghi di aggirare i trattati, che regolano l’operato della stessa banca di Francoforte, e questa non avesse agito temporaneamente come un compratore di ultima istanza dei TDS, fornendo appunto quel “tetto” ai rendimenti che impediva di frenare la speculazione degli investitori, sarebbe stato il default assicurato, sia per l’Italia, ma anche per buona parte dei paesi dell’eurozona.

2. LA CRISI CONTINGENTE DELL’EXPORT
Quattordici anni dopo, la nuova crisi è di ordine commerciale e non più finanziaria. A provocarla adesso è l’aumento dei prezzi delle materie prime, ma la questione tuttavia rimane esattamente la stessa. E cioè che oggi, proprio come ieri, le crisi si presentano ciclicamente e chiedono il conto all’Europa, alla quale mancano da sempre le leve fiscali per porre rimedio, ogni volta, a degli shock esogeni, di qualsiasi forma e grado essi siano. Ai tempi del 2008, a salvarsi era stata almeno la Germania, la quale, per l’occasione, aveva ottenuto, tra l’altro, la nomea di “locomotiva d’Europa”. E lo faceva soprattutto in virtù del suo export che, nella circostanza di allora, rendeva i TDS tedeschi il rifugio più sicuro per gli investitori, come abbiamo accennato sopra.
Difatti, la solidità economica attribuita alla Germania, anche grazie al suo mastodontico e ricorrente surplus commerciale, faceva sì che la distanza dello SPREAD tra i TDS tedeschi e quelli italiani arrivasse a misurare – nella fase più calda della speculazione finanziaria – fino a 500 punti base: pari ad un rendimento differenziale che superava il 5%. Ciò significava che, se per caso in quello stesso anno, l’euro fosse deflagrato davvero, e i Paesi europei fossero tornati ciascuno alla rispettiva valuta, i creditori, che in quel momento non avessero detenuto nel loro portafoglio obbligazioni tedesche, si sarebbero ritrovati in mano con un patrimonio pesantemente svalutato, composto dai titoli delle altre monete oramai disgregate. È proprio per questa ragione che, un attimo prima del default (o presunto tale), i capitali fuggivano in Germania, provocando, in modo simmetrico e speculare, un costo eccessivo delle obbligazioni pubbliche italiane.
Ma la notizia di queste ultime settimane, appunto, scioglie improvvisamente, come neve al sole, anche il mito dell’economia più importante del continente che, diversamente dal 2008, sembra ormai non funzionare più.
Quindi, che cosa è successo nel 2022?

3. PER QUALE MOTIVO IL MERCATO ESTERO È PIÙ REDDITIZIO MA ANCHE PIÙ DESTABILIZZANTE DI QUELLO INTERNO

Stavolta, si tratta di un’inflazione importata da fuori ed è scaturita, come si è detto, dall’aumento dei prezzi di gas e idrocarburi (e non, come continuano a ripeterci i media, in ragione dell’aumento della spesa pubblica), che sta comprimendo il surplus commerciale dell’intera eurozona. Difatti, la domanda di beni proveniente da paesi stranieri si fa sempre oggetto di oscillazioni imprevedibili, che sfuggono al controllo dei paesi esportatori, dal momento che non possiedono alcuna facoltà politica di influire sulle intenzioni di spesa altrui.
Tuttavia, la dipendenza cronica nei confronti del settore estero non era né naturale né obbligatoria. Si è voluta in questo modo perché, da circa 35 anni, la classe politica europea ha rinunciato scientemente al mercato domestico con lo scopo di promuovere un modello di sviluppo basato solo sugli scambi internazionali. Senz’altro, quest’ultimo appare più redditizio, nella misura in cui apre le aziende ad una maggiore concentrazione di capitali su scala globale. Inoltre, ad ogni compravendita, riesce a rendere la propria valuta più pregiata, effetto che, al contrario, non si otterrebbe commerciando limitatamente in patria.
D’altronde, in questa vicenda non è stata da meno neanche l’Italia, i cui gruppi dirigenti, nel ’92, pensarono bene di svendere l’industria di stato, proprio per eliminare quella concorrenza interna di capitali pubblici che tanto ostacolava i ceti mercantili nostrani nell’imporre un tipo di crescita basata principalmente sull’export. È chiaro che, alla luce del conflitto russo-ucraino, tale impostazione si è rivelata piuttosto infelice. Questo perché, se la domanda interna di beni fosse un’opzione ancora valida, e si trovasse in mano alla gestione diretta di paesi con la sovranità monetaria, rimarrebbe subordinata alla propria autonomia di spesa e non a quella proveniente dai paesi stranieri. Così che, nella mancanza di un approvvigionamento certo e costante di energia, riscontreremmo anche oggi, egualmente, diversi problemi per mandare avanti la produzione nazionale. D’altra parte, però, verrebbe meno la preoccupazione di piazzare le nostre merci sul mercato estero con il rischio poi che rimangano invendute, proprio come sta accadendo nella circostanza attuale.
Si dà il caso infatti che, nell’euro-zona, tale opzione sia svanita del tutto, visto che il deficit di bilancio dei singoli paesi venga tenuto sotto stretta sorveglianza dalla Commissione. Per cui, ogni anno se ne autorizza la crescita o meno, unicamente sulla base di una percentuale fissata al 3%, ottenuta dalla relazione che si instaura tra il PIL e il deficit pubblico. Ma ciò succede a prescindere da una qualsivoglia strategia di politica economica, discussa in sede democratica e parlamentare, pena le pesanti multe di Bruxelles contro gli stati membri. Detto in breve, nonostante la minaccia concreta di un pericolosissimo autunno ormai alle porte, a nessun Paese dell’Unione è dato di uscire dalla traiettoria mercantilista, se non si vuole incombere in un’altrettanto grave instabilità finanziaria.

4. OLTRE LE RESPONSABILITÀ DELL’EURO: GALLINO E L’IMPRESA IRRESPONSABILE
Eppure, le cose non sono così lisce, non vanno per tutti allo stesso modo e c’è sempre e comunque chi sta peggio degli altri. Tant’è che, durante la crisi dei subprime, il rifugio sicuro dalla speculazione erano i Bund tedeschi, non di certo quelli italiani o spagnoli. Così, potremmo domandarci perché l’Italia abbia sofferto più di altri paesi dopo il suo ingresso nella UE, nonostante il suo modello conclamato, altrettanto competitivo, di tipo mercantilista. Il nostro paese infatti sconta, molto più della Germania, anche un altro tipo di problema che l’ha reso più fragile rispetto al suo rivale, al di là della crisi contingente: ovvero, l’assenza strutturale di grandi capitali privati che avrebbero potuto sostituirsi alle risorse pubbliche, venute meno dopo lo smantellamento dell’IRI (Istituto di Ricostruzione Industriale) e l’esautorazione della CDP (Cassa dei Depositi e Prestiti), messi fuori gioco dalle rigide norme europee che, per evitare possibili distorsioni nelle dinamiche di mercato, vietano l’intervento di stato nell’economia.
Anzi, l’Italia (come è successo d’altronde in altri Paesi europei) ha visto incalzare un processo sempre più esteso di finanziarizzazione di settori industriali medi e grandi, che è scoppiato definitivamente all’inizio degli anni 2000, ma ha avuto origini molto più lontane. La conseguenza è stata la perdita di una parte rilevante del tessuto manifatturiero nazionale (es. Fallimento di Cirio e Parmalat nel 2003), incluso quello ad alta concentrazione di capitali (es. Indebitamento Telecom nel 2007), le cui responsabilità, in questo caso, non si possono attribuire all’introduzione dell’euro. Nonché, è venuto a sparire, insieme a quelle imprese, o al loro indebitamento cronico, un ingente risparmio privato, di cui un’illuminata classe di imprenditori, se mai ci fosse stata, avrebbe potuto far uso per rilanciare invece strategie industriali avanzate.

“Per le borse europee […] si stima che, nello stesso periodo (di quello USA), la distruzione di valore si sia aggirata sui 3000-3500 miliardi di euro. Per farsi un’idea concreta delle dimensioni raggiunte da tale distruzione di valore, si pensi che 8,4 trilioni di dollari corrispondevano a oltre l’85% del PIL statunitense del 2001, che era di 9,8 trilioni. Nella UE, 3 trilioni di euro o più equivalgono al PIL combinato di Francia e Italia, con alcune centinaia di milioni di avanzo. Detto altrimenti, la distruzione di valore azionario verificatasi tra il marzo 2000 e l’ottobre del 2002 (in Europa) è paragonabile a quella che si sarebbe osservata se Stati Uniti, Francia e Italia avessero avuto, per un intero anno, un PIL uguale a zero” (Gallino: 2005) [1]

Difatti, già a partire dagli anni ’80, l’impresa, che Luciano Gallino definisce “irresponsabile”, comincia a sottrarre, gradualmente, percentuali finanziarie sempre più significative alla produzione, nell’ossessiva ricerca della rendita. Non più valore aggiunto, quindi, da conseguire mediante il lavoro, la tecnologia, e la conoscenza, nell’ambito di una crescita lenta del fatturato, sia pure costante. Piuttosto, si ripiega su di un’accumulazione drastica e rapidissima dei dividendi, rivenduti in borsa e gonfiati da proiezioni tanto esagerate quanto fuorvianti. Il paradosso venutosi a creare difatti è che tale sistema favorisca in misura maggiore il valore del capitale detenuto dagli azionisti, che rimangono esterni all’impresa, rispetto a quello del patrimonio industriale dell’azienda medesima.
Questo anche perché, continua a spiegare Gallino, la mancata coincidenza tra l’amministrazione e la nuda proprietà, che al contrario aveva caratterizzato il fordismo, aveva reso la moderna figura del manager delegato un lavoratore dipendente al pari di tutti gli altri. Ma, così facendo, quest’ultimo veniva messo sul libro paga degli investitori per tutelare il loro interesse piuttosto che le ragioni societarie di lungo periodo. Pertanto, acquisizioni, fusioni, svendite di segmenti produttivi, pratiche manipolatorie di bilancio, e pesanti tagli della forza lavoro, avevano avuto il mero scopo di fare cassa per attirare l’acquisto immediato di nuove azioni a scapito però di strategie lungimiranti di sviluppo economico.

5. ARRIGHI E IL PASSAGGIO DAL MODELLO MERCANTILISTA A QUELLO DEI RENTIER
Ebbene, sembra che l’Italia stia già percorrendo una parabola discendente che potremmo descrivere prendendo a prestito lo schema di Giovanni Arrighi, estratto dal suo “Il lungo XX secolo” (1994) [2]. L’autore infatti sostiene che la propulsione allo sviluppo economico di una potenza mercantile si esaurisca a causa del suo passaggio di testimone ad un’altra (o ad una costellazione di altri paesi), che cominci ad investire sull’economia reale (il lavoro) al posto di quella precedente. Tutto questo nel momento in cui, va da sé, la prima ha smesso di farlo per soddisfare principalmente l’interesse speculativo di alcune classi particolari, all’interno del proprio alveo nazionale, che sono definiti rentier.
Ad esempio, spiega Arrighi, è ciò che accade nel ‘600, durante l’epoca d’oro delle Province Unite, quando la decadente classe mercantile olandese, pur di non rinunciare ad una parte dei suoi proventi, cede fette importanti di mercato delle Indie orientali all’Inghilterra, mentre si guarda bene dall’utilizzare il resto degli introiti per lo sviluppo di industrie sul territorio. Tanto che Amsterdam sarà destinata a rimanere un centro di smistamento merci che vanno verso, o provengono, dall’Asia, per conto di paesi terzi europei, servendosi però, in tutto questo, di appalti manifatturieri inglesi. Come sarà noto, infatti, la prima rivoluzione industriale nascerà subito dopo, nel ‘700, in seno alle fabbriche tessili di Londra, e non certo presso la borsa di Anversa.
Insomma, la condizione attuale italiana sembra corrispondere a quella fase marxiana che, continua Arrighi, si ripresenta periodicamente, e che sussiste nel passaggio dallo schema DMD1 (Denaro- Merce-Denaro+1) a quello accelerato DD1 (Denaro-Denaro+1). Quest’ultimo, a partire dagli anni ’80, permette così l’accumulazione immediata di capitale (tanto in Europa quanto in USA) a vantaggio più che altro, della rendita, mentre va a scapito, non solo dei mercanti, ma del lavoro in genere, sia delle piccole e medie imprese, sia di quello dipendente, nel loro insieme. Come si può vedere, anche nel commercio globale, la deflazione salariale e il lavoro precarizzato contro una politica di investimenti, non aumenta tanto la produttività, come invece vorrebbe Confindustria, ma comporta, più che altro, la perdita di valore aggiunto così come del risparmio. Di modo che, nello scenario migliore, si viene assorbiti dai colossi più grandi; oppure, in quello peggiore, si chiude definitivamente o si delocalizza.
Si tratta, continua Arrighi, di un epigono tormentato, che segna la fine, ogni volta, di un lungo ciclo produttivo per inaugurarne un altro successivo, con il disfacimento graduale del vecchio ordine egemonico, a questo punto, possiamo dire, anche di tipo militare (la NATO), nel momento in cui ci sta conducendo, con sempre maggiore evidenza, entro quello che lo stesso autore avrebbe definito un “caos sistemico”. In effetti, se sommiamo la guerra russo-ucraina a quella cino-taiwanese, viene fuori una crisi chiaramente mondiale, non solo economica, appunto, e dagli esiti ancora oggi imprevedibili, oltre che pericolosi.

6. L’EURO E IL COMPROMESSO MERCANTILISTICO TEDESCO TRA CAPITALE E LAVORO
Mi preme sottolineare tuttavia che l’attuale crisi del mercantilismo-industriale tedesco non è dettata, però, come in Italia, da una classe di speculatori che, come spiegava bene Gallino, hanno sostituito la rendita al profitto. Anzi, grazie ai lauti compensi degli operai altamente specializzati (al cui fianco coesistono certamente, e in numero immensamente maggiore, i famigerati mini-jobs), i capitani d’industria tedeschi hanno garantito finora alle loro classi medie un adeguato welfare. Oppure, per i meno abbienti, ne hanno fornito uno di carattere meramente sussidiario ed assistenziale, che nonostante la sua esiguità rimane però presente e capillare. Diversamente da quanto proponga la tesi di Albero Bagnai (2012) [3] , infatti, tale beneficio non proviene soltanto dall’infrazione delle regole europee di bilancio pubblico, che pure c’è stata sia in Germania che in Francia tra il 2004 e il 2005. Ma nasce anche e principalmente dalla restituzione ai lavoratori di una parte del plus-valore, ricavato dai massicci utili commerciali, procurati, in questi ultimi 22 anni, grazie alla svalutazione dell’euro rispetto al marco.
Si è riusciti, in questa maniera, a concertare un patto tra capitale e lavoro. Sicuramente a perdere per il secondo ma migliore di qualsiasi tipo di soluzione profilata finora dalla grande borghesia italiana, che ha solo raccomandato ai giovani altamente qualificati di emigrare oppure si è servita di un sempre più folto bacino sotto occupato, dal quale attingere indiscriminatamente manodopera a basso costo, del tutto ricattabile, in grazia della sua condizione precaria permanente. Tutto questo, inoltre, per lasciare un settore industriale in sofferenza e spesso inadeguato, o svenduto senza nessuna remora al migliore offerente straniero.
Al contrario, l’aggressivo capitalismo germanico, realizzato ai danni dei suoi partner commerciali europei che, in seguito alla condivisione della moneta unica, sono stati messi in grado di acquistare a buon mercato le costosissime merci tedesche, riusciva ancora, fino al 24 febbraio scorso, a redistribuire i suoi utili tra vaste fasce di lavoratori. È in virtù di questo spostamento dei ricavi verso il basso, per quanto marginale, che il sistema SPD-CDU è riuscito ad ottenere in cambio il consenso egemonico da parte di un larghissimo strato della popolazione: un risultato strepitoso, senza il quale non si riuscirebbe a comprendere la rielezione, con ben tre mandati di seguito, del cancelliere Angela Merkel.
Ma adesso, a quanto pare, questo gioco non potranno permetterselo più. Per gli USA, infatti, la questione militare precede quella economica a prescindere. E le sue colonie europee devono rinunciare alle tradizionali pretese economicistiche, tipiche del secondo ‘900, per difendere invece a tutti i costi anche loro, in prima persona, l’impero. Bisogna dire che, anche su questo versante, l’Italia non è stata da meno. Nel senso che il secondo governo Conte del 2019-2021 è stato sabotato dal presidente della Repubblica (anche, e non solo) per il suo tentativo di inserirsi nella “via della seta”, che ovviamente infastidiva i piani di Washington, proiettata all’idea di plasmare un’Europa che si rendesse sempre di più commercialmente isolata dall’Asia. Perciò, durante il governo tecnico immediatamente successivo (e, nello stesso modo di Scholz), anche Draghi ha coinvolto il nostro paese nel conflitto americano (condotto, come si dice, “su procura”), con la conseguente perdita di sicure provvigioni di energia, riforniteci dalla Russia. Di modo che, a causa della loro assenza, durante quest’inverno, verrà messa in ginocchio anche la piccola e media impresa italiana, già compromessa dal Covid: ovvero, quella “domestica”, orientata alla domanda interna e rimasta indipendente finora dalle esportazioni.

7. IL NEMICO ESTERNO DELLA UE E QUELLO INTERNO DELLA RENDITA
Giunti fin qui, mi chiedo allora se, anche sul piano politico, si possano trarre almeno alcune considerazioni di carattere generale. Credo di sì.
A) Tanto per cominciare, rifacendosi al modello di Arrighi, l’Italia, nonostante la macro-area mercantilista del lombardo-veneto, sembra collocarsi tendenzialmente nella traiettoria storica della vecchia Olanda. Questo non solo a causa della tradizionale predilezione (anche pre-Maastricht) della nostra classe imprenditoriale nei confronti della rendita che, a quanto pare, avrebbe impedito la formazione di grandi capitali. Ma anche perché la regione più produttiva del paese si trova in realtà in una posizione economica subalterna rispetto alla Baviera e alle sue catene del valore, che rifornisce di semi-lavorati a basso valore aggiunto (Caracciolo: 2017) [4]. Insomma, anche il nord Italia, in assenza di un’industria pesante come la FIAT e con una filiera votata ancora all’export, ma priva di un progetto industriale indipendente, credo che possa essere considerata, nel suo complesso, in pieno declino.
B) Va da sé che, nello stesso schema, la Germania occupi invece la posizione dell’Inghilterra. Con, tuttavia, la grande differenza che anche la classe mercantile del nord Europa si trova ora, suo malgrado, egualmente spacciata, in quanto parte del blocco di Paesi che sono al seguito della nazione egemone decadente: gli Stati Uniti.
1 – Dunque, se di fatto, nel breve periodo, sarà impossibile sottrarsi militarmente al controllo di una super potenza come quella americana, con un cambio di governo in chiave neo-socialista e molto meno filo atlantista, per noi sarebbe auspicabile, nel giro dei prossimi dieci anni, scegliere una politica economica nazionale che si sottragga a quella di impronta europea.
Al contempo (nell’auspicio che sparisca anch’essa il prima possibile), si potrebbe assumere comunque un ruolo più attivo nella NATO, affinché si riesca, quanto meno, a rinegoziare condizioni migliori per il nostro Paese nelle circostanze di conflitto come quelle attuali. In prima istanza, smettendo, ad esempio, di inviare le nostre armi all’Ucraina, e poi insistendo sulla necessità di cercare degli accordi diplomatici, che finora si sono voluti evitare di proposito, con la Russia.
In altri termini, la riconquista della sovranità popolare (e con essa, quella democratica) sarebbe un obiettivo che ci permetterebbe la recessione dai trattati UE, così come dal suo sistema monetario, per ripristinare una forma di politica autonoma, che sia in grado di ri-orientare la nostra economia fuori appunto dall’Unione. Ciò favorirebbe una crescita della domanda aggregata (investimenti pubblici + privati), svincolata dai parametri di Bruxelles, col fine di rilanciare l’industria pubblica, unico vero motore della produzione domestica, che smetterebbe di rimanere, in questo modo, un oggetto in balia delle fluttuazioni della domanda altrui: ieri sotto il giogo finanziario; oggi a causa di una guerra; domani per l’emergenza ambientale e poi chissà per cos’altro ancora.
Ebbene, questo ordine di scelte comporta parimenti, sul piano del conflitto sociale, anche una risoluzione dei conti, altrettanto urgente, con la classe mercantilista italiana. Quest’ultima, come nel caso cinese di Alibaba, dovrebbe infatti, almeno in parte, scendere a compromessi con un parlamento sovrano nell’accettare la consistente riduzione di una fetta dei proventi del mercato estero; in parte, se di export vogliamo continuare a parlare, dovrebbe però disinnescare progressivamente il suo legame con il continente e proiettarsi invece verso il Mediterraneo, il quale, da sempre, è stato il naturale asset strategico della penisola [5].
2 – In seconda battuta, si vuole mettere in evidenza come la Germania possa giovarsi, al momento, di un evidente vantaggio antropologico e culturale rispetto al nostro paese. In questa dichiarazione non vi è, da parte di chi scrive, alcuna sensibilità filo-estera. Si vuole soltanto constatare che, in assenza degli attuali squilibri geo-politici, la Germania sarebbe ancora in grado di godere di una prospettiva remunerativa, che invece mancherebbe sempre e comunque da noi. Nonostante i suoi contrasti interni, infatti, i tedeschi sono guidati da una classe alto borghese che è riuscita a mettere a frutto il potenziale dei suoi capitali, pur ancora all’interno di una visione organica nazionale del tutto diversa da quella servile e parcellizzata delle nostre classi dirigenti.

Mi spiego meglio. L’idea di sviluppo mercantilistico tedesco non sarebbe mai un orizzonte ideale da anelare in nessuna maniera, in quanto, diversamente dal modello socio-economico costituzionale italiano, si rivela aggressivo contro le altre nazioni e rapace nei confronti dei propri lavoratori meno abbienti. Inoltre, ne riscontriamo adesso tutta la vulnerabilità di fronte a degli shock esogeni come quello della guerra, a causa della sua dipendenza patologica dall’estero. Ma, quanto meno, ha avuto più senso finora della decadenza autoctona nostrana, di gran lunga la peggiore cui potevamo assistere fin dall’inizio della Repubblica.

8. CONCLUSIONE: EURO-EXIT E LOTTA DI CLASSE
Allora, qualsiasi movimento, o partito politico in Italia, che ambisca ad invertire, insieme alla rotta mercantilista, anche quella di un capitale speculativo, foriero di destabilizzazioni sistemiche, dovrà tenere a mente come, a prescindere dal vincolo esterno, di cui occorre liberarsi sicuramente il prima possibile, ce ne sia sempre uno però anche interno, legato ad una spinosa lotta culturale, e di classe, nell’ambito del paese medesimo di cui si fa parte. Questa, difatti, checché se ne dica, non è mai cessata. Ne consegue che l’obiettivo principe da realizzare consisterà sempre nello scongiurare, contemporaneamente, insieme all’ingerenza del capitale apolide e transnazionale della UE, anche la minaccia proveniente da quei ceti fanatici e improduttivi della rendita, che sono del tutto italiani ma non, per questo, meno pericolosi degli altri.


[1]Gallino L., L’impresa irresponsabile, i Torino: Einaudi 2005, cit. pg. 133-134.
[2] Arrighi G., Il lungo XX secolo, Milano: Il Saggiatore, 1994.
[3] Bagnai A., Il tramonto dell’euro, Imprimatur, Reggio Emilia, 2012.
[4] Caracciolo L., Perchè ci serve l’Italia, in Limes, n. 4/2017; http://www.limesonline.com/sommari-rivista/a-chi-serve-litalia.
[5] Id., L’Italia è il mare, in Limes, n. 10/2020.

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Filosofia politica

Le figure del tempo in ‘C’era una volta in America’

Analisi filosofico-politica a cura di Jacopo D’Alessio, socio ESC

(dedicato a Nada)

  1. L’inizio “ in medias res” dove si incontrano la linea del tempo ciclica e quella diacronica

La struttura temporale di Once upon a time in America (C’era una volta in America) si divide in due linee principali, l’una ciclica e l’altra diacronica. La prima, ciclica, comincia durante gli anni ’30 con l’effetto straniante di un flash-forward, introdotto da alcuni squilli di telefono che, se da una parte, servono a destare, dal torpore, il lungo sonno di uno dei suoi protagonisti, dall’altra, sembrano voler richiamare contemporaneamente l’attenzione
dello spettatore sullo snodo cruciale del film. Non a caso, l’intreccio si apre in medias res, con il decennio posto al centro degli altri due periodi narrati dalla vicenda, e rappresenta la parentesi della giovinezza; gli anni ’20, precedenti, raccontano invece l’infanzia e l’adolescenza dei personaggi; mentre gli anni ’60, posteriori, la loro maturità. Dunque, in questa scena iniziale, cogliamo un Noodle piuttosto malconcio, intento a fumare dell’oppio al teatro cinese per rinsavire dallo shoc subito a causa della morte degli amici più cari, ma che teme anche per la sua stessa vita.
Un attimo dopo, tuttavia, il giovane gangster sarà in grado di uscire di soppiatto dal locale, sfuggendo così dai sicari assoldati dal suo non più complice Maximilian (detto Max) che, verremo a sapere più tardi, vorrebbe ucciderlo e tagliarlo definitivamente fuori dal giro degli affari. Quindi, per mezzo di un flash-back, simmetrico all’operazione precedente, l’intreccio si conclude con la medesima scena, tornata al centro del film, accompagnata
però stavolta anche da quell’inaspettato sorriso che all’inizio invece mancava. L’espressione ilare e tranquilla, che spunta improvvisamente sul viso di Noodle, dà come la sensazione di essere decontestualizza rispetto alla circostanza particolarmente drammatica vissuta nel suo passato, segnando uno dei momenti più alti ma anche più misteriosi di Hollywood.
L’altra linea del tempo, invece, che ricaviamo dalla costruzione della fabula, segue il passaggio cronologico dagli anni’20 ai ’30, e infine ai ’60: cioè, i momenti essenziali che raccontano la biografia dei tre personaggi protagonisti nella loro successione temporale (Genette: 2006) (1). Così, se il percorso circolare della vicenda, che parte dal flash-forward, e si conclude con il flash-back, racconta, non solo l’inizio e la conclusione del film, ma anche il recinto invalicabile nel quale è circoscritta l’esistenza di Noodle (Robert De Niro); la progressione degli eventi descrive più che altro quella dei suoi compagni-antagonisti, Max Bercovics (James Wood) e Deborah Gelly (Elizabeth McGovern). E ora ci accingiamo a spiegarne il perché e a cosa ci serve saperlo.

2. I protagonisti e le due corrispettive figure del tempo

a – Il tempo mitico di Noodle

Il soprannome, Noodle, sembra alludere ad un tipo di spaghetti, una pasta
abbastanza povera e piuttosto comune tra le popolazioni del Medio Oriente, che rimanda al carattere semplice ma genuino di David Aaronson. Si tratta di un ragazzo scaltro che, mentre lotta per sopravvivere nella miseria e alla violenza sulle strade, riesce comunque a dimostrare una straordinaria lealtà nei confronti dei suoi soci, provenienti come lui dallo
stesso ghetto ebraico newyorkese. Se la vita di Max e Deborah scorre e muta di continuo, Noodle, al contrario, ne rimane al di fuori in ben due circostanze che separano le fasi storiche del racconto.

La prima volta, quando rimane isolato molti anni in carcere per aver vendicato la morte del giovanissimo Dominic, rimasto ucciso da una banda rivale, gelosa del lucroso bottino ottenuto dal contrabbando di alcolici. È questa la prima ellissi (Genette: 2006) (2) che separa gli anni ’20 dai ’30, ovvero il passaggio dall’infanzia alla giovinezza. La seconda volta, quando, dopo essere stato tradito, si nasconde per trent’anni nella città di Buffalo con il proposito di non lasciare alcuna traccia dietro di sé. È questa la seconda ellissi, decisamente più lunga, che segna il passaggio dalla giovinezza alla maturità. Negli anni ’60, quando David, ormai anziano, fa ritorno a New York, in occasione dell’invito al party del misterioso senatore Baily, passa la notte alla pensione di Moe Gelly, il fratello di
Deborah, che gli domanda interdetto:

Che cosa hai fatto durante tutti questi anni?

Moe, come vorrebbero saperlo gli spettatori del film, chiede al vecchio amico, riapparso all’improvviso, in che modo abbia trascorso la sua vita dopo essere sparito definitivamente dal ghetto.

Sono andato a letto presto”,

risponde Noodle, con una citazione di Proust (2017) (3), che vuol dire press’a poco: “Ho smesso di esistere”. Da quando la mia professione di gangster si è bruscamente interrotta, mi sono tramutato in una persona qualunque, seppellita come tutti gli altri dal banale ripetersi delle ore e da un tedio quotidiano estraneo a rapine, omicidi, e colpi di scena. Con buona probabilità, si tratta di un’allusione alla tecnica iterativa che, attraverso
l’uso frequente dell’imperfetto, scandisce la narrazione regolare e ciclica della Recherche (Alla ricerca del tempo perduto). D’altronde, anche nel romanzo proustiano emergono dei personaggi avvolti da un tempo monotono e indefinito che, come accade durante gli anni di anonimato di Noodle, nega anche a loro la possibilità di distinguere e ritrovare un episodio davvero significativo della propria esperienza. Infatti, a differenza degli altri coprotagonisti, noi non sappiamo davvero nulla di ciò che è accaduto a Noodle durante questo periodo. Come già detto, i fatti significativi della sua vita si fermano tra gli anni ’20 e i ’30, disegnando un tempo circolare, mitico, dal quale non sarà più in grado di uscire.


b – Il tempo progressivo di Max

Rispetto alle aspettative iniziali, Max mostra di essere un personaggio assai
ambizioso, con uno sguardo lungimirante, per nulla folle come vorrebbe far credere agli altri. Al contrario, egli è perfettamente lucido su come la fine del Proibizionismo porterà presto anche alla conclusione del contrabbando di alcolici che caratterizzava il mal affare della vecchia New York. Sulla base di tale premessa, sta escogitando da tempo il modo di
abbandonare i perdenti della storia, di cui è membro, per fare il suo ingresso trionfale nel crimine organizzato dell’alta società. Di contro, Noodle è un uomo romantico di autentica estrazione popolare, che respinge la chimera di soluzioni seducenti ma ciniche, e pertanto
preferisce rimanere umile, recalcitrante ad ogni tipo di mutamento del proprio codice d’onore. Anche lui intuisce senz’altro come il commercio della droga sia l’investimento del futuro, ciò che potrebbe procurargli un’immensa fortuna. Tuttavia sa anche che condurrà gli amici stessi a mettersi l’uno contro l’altro.

Perciò, mentre da lontano, la modernità sembra brillare di una luce ammaliante, di fatto rivela di portare con sé la dissoluzione della comunità in cui ha sempre riposto la propria fede. È da questo canto delle sirene che un giorno il giovane cercherà inutilmente di mettere in guardia Max, un attimo prima di saltare dal pontile con l’auto in mare. Per tale ragione, lo vedremo contrapporsi puntualmente ai suoi progetti temerari nello sforzo
nostalgico di fissare l’innocenza del passato in una condizione permanente. Come sappiamo però Max, viceversa, diviene una delle pedine principali dello spirito del tempo, che nel suo moto inesorabile e progressivo cercherà di spazzarlo via insieme all’intero mondo che ha dato i natali a entrambi.

3. ‘Crisi della presenza’ dei protagonisti tra tempo mitico e tempo progressivo

Dunque, mentre Noodle sprofonda sempre più nella figura del tempo presente, che va a scapito di quella futura, Max e Deborah si dissolvono nella figura del tempo futuro che si staglia a dispetto di quella presente. Eppure, potremmo spiegarci anche con altri termini (De Martino: 2021) (4). Se recuperiamo il modello concettuale di De Martino, Noodle
assume il comportamento di chi prova ad allontanare la minaccia di un trauma sistemico, proveniente dall’esterno, mediante un rituale mitico che, per salvaguardare l’esistenza, o esser-ci nel mondo con al centro i suoi valori, assorbe ogni cambiamento entro di sé, e rimuove per questo il divenire della storia, congelandola. In modo inverso, Max e Deborah scelgono di entrare come attori protagonisti nella storia ma, cancellando ogni volta la presenza di sé stessi con i loro valori, finiscono per esserne travolti senza sosta, adattandosi sempre e solo al suo superficiale involucro esterno. In entrambi i casi, si assiste al cocente paradosso esposto da De Martino, per cui il tentativo di confermare la propria identità conduce ad una crisi della presenza: ovvero, al suo opposto non-esser-ci, risolto, come vedremo, per mezzo di forme simili, arbitrarie ed individualiste.

Allora, è lecito chiedersi se possa esistere anche una terza figura del tempo in grado di fornirci una soluzione alternativa? Sembra di no. Nel senso che, di primo acchito, una prospettiva del genere, che sia ben articolata come le altre, pare non manifestarsi all’interno del film.

L’addio al Proibizionismo viene celebrato con una grande festa allestita nel locale di Moe, durante la quale Max mette in scena la propria morte, che avviene lo stesso giorno in cui terminerà anche il periodo della giovinezza con le sue illusioni. L’ex socio d’affari, infatti, ormai divenuto un traditore, ha fatto aggiungere una salma carbonizzata (che non era la sua) nell’auto trivellata dai proiettili di mitra, dove sono rimasti uccisi veramente gli
altri due complici. Verremo a sapere inoltre che, per continuare a mimetizzarsi agli occhi di tutti, cambierà la sua identità in quella di Bailey. Durante gli anni ’60, Max poi è riuscito a farsi eleggere senatore in virtù della grande ricchezza accumulata con i traffici illegali di droga, ma soprattutto grazie ad un investimento iniziale, proveniente dal milione di dollari che ha rubato trent’anni prima a Noodle e ai suoi vecchi compagni, dopo averli fatti eliminare. Il furto di quel denaro nel passato rappresenta, possiamo dire, il peccato originale che lo ha convertito per sempre in un assassino privo di scrupoli e in un uomo di potere. Da quel momento in poi non ha avuto più alcun interesse a creare relazioni umane che fossero a lui vicine e, anzi, si è posto completamente al di fuori anche dalla rete
solidale che gli garantiva la comunità ebraica delle origini.

Ora, giunto all’apice del successo, è però il senatore Bailey ad essere spacciato. Le indagini della polizia sui suoi illeciti rischiano infatti di portare allo scoperto molti altri personaggi illustri dell’abbiente società newyorkese, anch’essi coinvolti nel traffico di stupefacenti, così che, prima o poi, lo vorranno fare fuori per impedirgli di parlare. Perciò, non essendogli rimasto nessun alleato fedele al quale rivolgersi, Max ha invitato Noodle alla propria festa per chiedergli il favore, stavolta, di ucciderlo davvero. Nonostante però l’ex compare venga finalmente a conoscenza della verità sull’inganno che gli è stato teso trent’anni prima, rimarrà del tutto indifferente all’opportunità di vendicarsi, e se ne andrà via nella stessa maniera in cui è ritornato: quasi non fosse mai giunto lì, proprio perché
quell’epoca non gli appartiene. Come afferma De Martino, se il personaggio che ha rifiutato la storia ne è stato escluso del tutto, colui che l’ha seguita senza indugi ha annientato la presenza di sé medesimo esattamente allo stesso modo.

4. La scena dello stupro come allegoria dell’incompatibilità tra tempo interiore del personaggio e spirito del tempo di un’epoca

Per come è andata finora, potremmo anche sostenere che il regista simpatizzi di più per l’ideologia conservatrice di Noodle, ma vedremo che tale ipotesi può essere accolta solo in parte. A quanto pare, durante gli anni ’30, David avrebbe violentato Deborah, perché, in fin dei conti, rappresenta un tipico anti-eroe novecentesco che non è riuscito a
comprendere i desideri della donna, così come a trovare una valida alternativa alla propria impasse. Dal canto suo, Deborah, non solo non si è mai voluta legare sentimentalmente a Noodle, ma neppure a Max. Sebbene, invero, abbia avuto da quest’ultimo un figlio, è sfuggita senza remora da vincoli coniugali che le avrebbero impedito, a sua volta, di
scalare la carriera cinematografica. Lo stupro costituisce allora l’impresa disperata di Noodle di colmare, per mezzo della forza, la voragine che divide due forme di vita incommensurabili fra loro, ciò che dà luogo inevitabilmente ad un esito grottesco e di impossibile ricomposizione.

Alla stregua del romanzo moderno, l’episodio, a mio avviso, è un’allegoria che racconta la frattura radicale tra il tempo interiore, del protagonista, e lo spirito del tempo oggettivo, incarnato nel personaggio di Deborah, che anticipa l’epoca consumistica successiva. Ovvero, Noodle, che si trova incagliato ancora nei valori desueti degli anni ’30, manca difatti i suoi appuntamenti più importanti con la Storia: sia nel caso di Max, per il
suo disinteresse riguardo il crimine organizzato; sia, nel caso di Deborah, di cui rifiuta il ruolo femminile autonomo e di successo, al di fuori della famiglia tradizionale. Pertanto, sarà l’amico-rivale ad ottenere, al suo posto, gli affetti e il riconoscimento sociale, mentre l’inetto, incapace di comprendere entrambi, non farà altro che esacerbare il proprio senso
di impotenza, perdendo infine il controllo.

5. L’inconscio politico del film: due configurazioni storico-ideologiche speculari

Non appena, quindi, ci troviamo a trascendere le figure del tempo dei singoli personaggi, l’inconscio politico (Jameson: 1990) (5) del film si dipana, appunto, anche secondo due linee storico-ideologiche più vaste. Per un verso, la prospettiva moderna e progressista solca perfettamente la parabola della grande borghesia (Max-Deborah), come emerge dopo la Rivoluzione Francese, la quale farà propria una visione del mondo scandita dal movimento meccanicistico, slanciato continuamente in avanti e privo di limiti, ereditato dalla sinistra liberale; mentre, per un altro, racconta la prospettiva conservatrice, regressiva, della piccola borghesia (Noodle), che il tempo invece l’ha sempre voluto fermare, in quell’eterno presente, raccolto invece dalla destra storica. Nonostante che Max e Deborah siano stati a rincorrere per tutta la vita il tempo, alla fine tuttavia hanno fallito
perché era come se in realtà non si fossero mai spostati. D’altra parte, Noodle, che ne è sempre rimasto escluso, cerca in questo episodio di possederlo invano. Di conseguenza, tutti e tre i protagonisti, diversi ma uguali, restano sempre oggetti, piuttosto che diventare soggetti, di storia.

6. Il tempo imprevisto del sorriso epifanico e lo straniamento brechtiano

Ebbene, l’unica finestra che permette di scorgere un Altrove ideologico, ancora inesplorato, si apre con il momento epifanico di quel sorriso improvviso, comparso dal nulla, durante la famosa scena conclusiva quando, ancora stordito per via dei narcotici, Noodle si sdoppia, acquisendo la coscienza di essere in realtà un semplice personaggio di
carta. È come se i suoi occhi, bucando lo schermo, guardassero direttamente lo spettatore attraverso la telecamera e ci apparisse adesso un uomo diverso, con un’espressione che ormai dimostra di aver capito in cosa consista il suo ruolo nell’ambito di una storia ideata, appunto, per essere scritta.

Siamo tornati di nuovo agli anni ’30, cioè a quel lasso di tempo che, si è accennato più sopra, occupa la sezione centrale del film. Qui, come all’inizio, un effetto straniante di tipo brechtiano, introdotto stavolta dall’uso simmetrico del flash-back, allontana il punto di vista dello spettatore fuori la catena di causa-effetto degli eventi narrati. Se da una parte, infatti, quest’ultimo ci insinua un senso di profondo spaesamento (Perché Noodle sorride mentre stanno cercando di ucciderlo?); dall’altra, ci permette di osservare quei fatti con distacco, e perciò alla stregua di un gioco (Forse, Noodle ha capito di essere stato ingannato e pertanto sorride con ironia nei confronti della vita?). Le domande però non riescono a trovare risposte immediatamente certe mentre, al loro posto, si fa spazio sempre di più il dubbio lacerante, cui segue un’inevitabile ambiguità di senso che sospende il nostro giudizio.

D’altronde, è impossibile che la consapevolezza di essere diventato la vittima di una congiura, ordita dall’amico, sia stata già fatta propria dal giovane nella scena in cui si droga con l’oppio. Al contrario, Noodle è ancora convinto che Max sia morto bruciato nella sua vettura, insieme agli altri due complici, uccisi dai loro rivali. Lo dimostra il fatto ad esempio che il giorno dopo, un attimo prima di lasciare New York, si recherà alla stazione dei treni, persuaso di trovare inizialmente ancora la valigetta con il milione di dollari nell’armadietto, dove l’aveva nascosta per anni con gli altri componenti della banda.

Inoltre, durante gli anni ’60, non appena fa ritorno al ghetto ebraico per prendere parte alla festa del senatore Baley, si trova ospite nel locale di Moe il quale, essendo rimasto in apparenza l’unico sopravvissuto tra i suoi vecchi compagni, viene accusato ingiustamente da Noodle di essere stato proprio lui a tradirlo.

7. L’epilogo come raccordo tra tempo della storia e tempo del racconto

Allora, il sorriso tranquillo, sopraggiunto incoerente ed enigmatico, innanzi alla situazione tragica che sta attraversando il protagonista in quel momento, potrebbe alludere più probabilmente ad una presa di coscienza sulla precarietà dell’esistenza nel suo insieme, sulla mancanza di verità assolute, piuttosto che fare riferimento ad una circostanza particolare della vicenda. Ed è per questo motivo che, se poniamo di nuovo la nostra attenzione sull’intreccio, ci rendiamo conto come tale gesto debba comparire necessariamente al termine del film. Perché è come se, davvero, lo trovassimo solo in fondo, quando cioè guardiamo per la seconda volta questa scena. Mentre prima, all’inizio, non c’era stato.

In altre parole, la smorfia non appartiene al tempo cronologico di una biografia come è veramente accaduta, che emerge sulla base di una preziosa esperienza acquisita con l’ingresso del giovane nella maturità. Ma alla fase centrale della sua vita, dove infine vengono a sovrapporsi, in modo circolare, tempo della storia del personaggio, già trascorso (TS), e tempo narrante che si sta realizzando ancora nel presente, mediante l’epilogo (TR). Il sorriso scaturirebbe così dall’invenzione del racconto che, mentre torna indietro, finalmente si interrompe e modifica il passato narrato del protagonista, aprendosi al recupero di un evento nuovo e significativo, altrimenti perduto (6). Dunque, non quando è anziano, in coincidenza con la sezione finale della fabula, ma nello snodo cruciale dell’intreccio, che è simultaneamente principio e conclusione di se stesso, Noodle scopre di essere l’attore di una trama altrui e ne prende atto.

Se un personaggio comprende il proprio destino nel passato, e riesce perfino a sovvertire quest’ultimo, evadendolo, può venire meno in un istante anche tutto il resto della sua parvenza realistica, che si infrange a causa di una manipolazione esterna. Attraverso il flash-back degli anni ’30, l’autore difatti irrompe trasversalmente nelle due linee temporali, ciclica e diacronica, ormai tracciate dal film, e le mischia fra loro per smontare
l’illusione scenica con i suoi ingranaggi fittizi, mostrandosi mera pellicola, recitazione. A questo proposito, risulta evidente anche l’accostamento tra il ruolo di Deborah nei panni di un’attrice, la cui unica preoccupazione consiste nel perseguire la fama a scapito della propria umanità, con la forma cinematografica in quanto tale, genere di cartapesta per
eccellenza, conosciuta e utilizzata dallo stesso Leone.

8. Terza figura del tempo: il futuro anteriore

Insomma, il sorriso di Noodle, cosciente di rimanere al di sopra delle parti e complice di una commedia, è un’espressione del viso che non risponde più ad una logica interna, concepita dall’incalzare degli avvenimenti, ma viene calato dall’alto per mezzo di una chiara operazione registica (Szondi: 2015) (7). E tale effetto si è voluto trovare perché “la sospensione del giudizio” serve a noi per smascherare il soverchiante status quo che
circonda il protagonista, senza rinviare tuttavia a nessuna soluzione di sorta. Come si è visto, le prospettive politiche proposte dallo spirito dell’epoca si sono rivelate vuote e mendaci, nella misura in cui si sono avverate in modo fallimentare. Pertanto, quel gesto finale, pur comparendo nel passato, è allo stesso tempo un inizio che si pone al di fuori della ripetizione dell’identico, come auspicabile accesso ad un ignoto futuro, diversamente ideologico.

Giunti fin qui, siamo ora in grado di rispondere anche alla nostra domanda iniziale. Ovvero, si può sostenere che in C’era una volta in America si manifesti il segnale di una terza figura del tempo che corrisponde ad un futuro anteriore. Quest’ultimo emerge, sì, autonomo rispetto alle altre due linee temporali presenti nel film ma, al contrario delle precedenti, non è pervenuto ad una sua esistenza concreta e perciò appare sfuggente. Si
tratta, anzi, di una figura che non è stata mai filmata, né scritta ma, proprio per questa ragione, si affaccia ancora come alternativa a dispetto di una realtà già avvenuta e al contempo fallace. Il regista, semmai, attraverso l’ambivalenza di quel sorriso, che riempie la nostra mente di dubbi, affida al pubblico il compito di immaginare il suo possibile fine.

Note

(1) L’intreccio è la narrazione della vicenda come viene esposta nel romanzo, o nel film, di cui è testimone il lettore-spettatore. Pertanto, come avviene in questo caso, può presentarsi attraverso continui rimandi, sia
avanti (prolessi o flash-forward), che indietro (analessi o flash-back). A discrezione della regia, può presentarsi più lineare, oppure, perfino circolare e, quindi, partire e concludersi nello stesso punto. Comunque sia,
l’intreccio si realizza in forme molteplici e, soprattutto nel film d’avanguardia, appare spesso piuttosto disordinato. Viceversa, la fabula è la ricostruzione a-posteriori che può ricavare lo spettatore quando smonta
gli eventi, così come erano stati presentati dall’intreccio, per ricollocarli successivamente nel loro presunto ordine lineare e cronologico: cioè, come sarebbero apparsi se fossero stati narrati in un modo più rispondente alla realtà dei fatti, in Genette, G., Figure III – Discorso del racconto, Torino: 2006; Einaudi Editore.

(2) L’ellissi è un balzo temporale in avanti della narrazione che consiste nell’omissione di alcune informazioni durante il periodo di tempo sottaciuto. In altre parole, quando il tempo del racconto (TR) degli avvenimenti si interrompe, viceversa, il tempo storico (TS) delle ore, dei giorni, e degli anni, prosegue nel frattempo il suo corso naturale anche se non è stato fatto oggetto di alcuna narrazione, in Genette, G., Ibid. Nella fattispecie, durante il carcere e la permanenza a Buffalo, il tempo del racconto si è arrestato del tutto (TR = 0) perché non si parla di ciò che è successo a Noodle nei periodi omessi, mentre il tempo reale della storia è andato avanti di circa un decennio (TS = 10), nel primo caso, e di circa trent’anni nel secondo (TS = 30).

(3) “Per molto tempo, sono andato a letto presto la sera. A volte, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che nemmeno avevo il tempo di dire a me stesso: ‘M’addormento’. E mezz’ora più tardi, il pensiero che era tempo di cercar sonno mi ridestava”, corsivo mio, in Proust, M., Dalla parte di Swann, in Alla ricerca del tempo perduto, Torino: 2017; Einaudi Editore.

(4) De Martino, E., La fine del mondo – Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino: 2021; Einaudi Editore.

(5) L’espressione qui usata proviene dall’opera omonima di Frederich Jameson, L’inconscio politico. Si vuole intendere in questo modo che il film sia un prodotto culturale realizzato ovviamente dal regista, Sergio
Leone, il quale però, a sua volta, sarebbe calato nella cornice più grande della storia. Per cui quest’ultima, anche secondo chi scrive, sarebbe stata in grado di influenzarlo, indirettamente, sul piano inconscio appunto, nonostante la mediazione soggettiva e particolare dello scrittore. In breve, le intenzioni di Leone non sarebbero state, molto probabilmente, quelle di imprimere una precisa direzione politica (questa direzione politica) al suo film. Ciò emergerebbe, al contrario, da un’interpretazione a posteriori compiuta dal critico, quando prova a scovare il significato recondito depositato nel singolo manufatto artistico, che sfugge in una certa misura al controllo diretto e consapevole dello stesso regista, rispetto alle dominanti culturali e in conflitto di un’epoca, in Jameson, F., Storicizzare sempre!, tratto da L’inconscio politico, Milano: 1990; Garzanti.

(6) A mio avviso, anche nella conclusione troviamo una forte somiglianza con il racconto proustiano. Difatti, la Recherche si chiude con la sovrapposizione tra il punto di vista dell’Io narrato del personaggio-scrittore anziano, posto ormai alla fine della vicenda, che racconta la propria storia a ritroso, e quello dell’Io narrante, che appartiene invece al protagonista da giovane, quando si trova a testimoniare i fatti nel presente, proprio mentre accadono. Dunque, in C’era una volta in America si dà luogo ad un paradosso temporale piuttosto simile. Se mediante il flash-back, il tempo della storia (TS) è tornato indietro fino al periodo degli anni ’30, che coincide con l’inizio della trama, in un’apparente ripetizione senza fine, il tempo del racconto (TR), al contrario, dà un taglio a tale ciclicità, prima di tutto, interrompendo il film. Ma introduce inoltre un evento nuovo (il sorriso) nel futuro dell’intreccio (la scena finale) che si trova collocato tuttavia, in modo paradossale, nella storia già vissuta da Noodle (negli anni ’30). La tesi di questo lavoro, appunto, è che, come accade in Proust, il sorriso, precedentemente omesso, in quanto perduto nel passato, venga recuperato come un evento significativo dell’esperienza nel presente dell’intreccio, ovvero nell’epilogo. Oppure, che è la stessa cosa, viene suscitato soltanto in seguito, quale artificio irreale che termina il racconto (TR). In entrambi i casi, va da sé che sia possibile narrarlo esclusivamente alla fine.

(7) La tragedia classica, composta secondo il principio di immedesimazione, si va progressivamente deteriorando nel corso dello sviluppo del dramma moderno. Ad interrompere l’illusione scenica sarà compito del montaggio e del punto di vista autoriali che, muovendo dall’esterno, fanno breccia tra gli eventi interni della trama, per svelare così gli artifici stessi della narrazione. Di qui, si assisterà alle varie forme di
sdoppiamento dei personaggi che si scoprono attori delle storie di carta loro assegnate dai rispettivi scrittori. (Su questo argomento, vedi ad esempio, come opera più rappresentativa dell’avanguardia italiana primo
novecentesca, Sei personaggi in cerca d’autore, di Luigi Pirandello). La forma matura di tale estetica, cominciata dall’Espressionismo tedesco, durante gli anni ’20 del secolo scorso, diviene compiuta e si teorizza con l’avvento del teatro epico di Bertold Brecht, in Szondi, P., Teoria del dramma moderno, Torino: 2015; Einaudi Editore.

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Sociologia Politica

L’egemonia di Gramsci e i partiti senza popolo del tardo capitalismo

Saggio di Jacopo D’Alessio, socio ESC

La realtà oggettiva dell’essere sociale è la stessa nella sua immediatezza tanto per il proletariato quanto per la borghesia.

Gyorgy Luckàcs
Gyorgy Luckàcs

Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere). Dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente.

Antonio Gramsci
Antonio Gramsci

1. Introduzione. I Partiti popolari moderni fino alla Prima Repubblica e l’essere sociale

            Dopo la comparsa, negli anni ’30 del secolo XIX, di sparpagliate leghe operaie, il socialismo si diffonde attraverso movimenti sempre più radicati e, grazie anche ad una consistente letteratura, riesce a fissarsi inoltre a livello simbolico durante la Prima Internazionale del 1865. Da questo momento in poi, nei diversi paesi europei nacquero partiti fondati su principi di organizzazione collettiva, l’unica adeguata a rappresentare l’avvento della nuova società di massa agricolo-industriale. Difatti, alla domanda conclusiva che Gramsci si pone ne Il Risorgimento, riguardo il fallimento parziale di quella esperienza politica, il filosofo risponde offrendo al lettore una definizione sintetica ma già piuttosto esaustiva di partito popolare post-unitario:

La verità è che il programma di Pisacane era altrettanto indeterminato da quello di Mazzini. […] 1) perché programmi concreti in realtà non esistettero mai in quegli anni, ma appunto solo tendenze generali più o meno fluttuanti; 2) perché appunto in quel periodo non esistettero partiti selezionati e omogenei, ma solo bande zingaresche fluttuanti e incerte […] 3) che tale programma fosse condiviso dalle grandi masse popolari e le avesse educate a insorgere simultaneamente in tutto il paese (Gramsci 2000: 146-147)[i].

Dunque, attribuiamo al partito dei Gramsci, dei Togliatti, dei Nenni, e dei Basso, la funzione moderna di aver creato: 1) un progetto pragmatico che esisteva al di là dei singoli attori partecipanti (programmi concreti); 2) la scelta di persone di valore e una disciplina di vita che rendeva il partito unito nelle idee, sotto principi inoltre di umiltà e di uguaglianza (partiti selezionati e omogenei); 3) la missione di rendere quel progetto il fulcro di maggiore condivisone possibile con il popolo (condiviso dalle grandi masse popolari), soltanto ora più omogeneo rispetto al passato, e quindi potenzialmente soggetto di trasformazioni politiche-sociali radicali (educate a insorgere). Storicamente, quest’ultima funzione, che serviva per selezionare i militanti e perseguire obiettivi di consenso all’esterno del partito, prese il nome di egemonia.

A – Ricapitolando, se il soggetto politico rimaneva il centro dell’organizzazione e della prassi, quest’ultimo si trovava sempre ad operare contemporaneamente in un contesto oggettivo che lo trascendeva, attraverso: 1) un progetto super partes; 2) e dei blocchi sociali esterni; ovvero, nell’ambito di un essere sociale che lo ricomprendeva entro di sé.

Eppure, dalla fine della Prima Repubblica in poi non è stato più così. Se ad esempio il Partito Democratico ha rinnegato il suo legame con i lavoratori per intercettare solo il consenso degli istituti di credito e della grande distribuzione, entrambi distanti dai disagi delle classi subalterne, Forza Italia è stato invece il partito per eccellenza del man self made di impronta thatcheriana, incentrato unicamente sul personalismo del leader. In tutti e due i casi ci troviamo in presenza di partiti post-moderni, definiti così in quanto tale atteggiamento viene assunto da tutti quegli organismi chiusi che riproducono la loro soggettività identica a se stessa nell’intento di proiettare il proprio interesse di classe particolare sulla società presa nel suo insieme. Per questa ragione, si assiste da parte loro ad un crollo simbolico della realtà medesima che non riesce più ad essere riconosciuta e descritta come tale, per essere sostituita con un proprio surrogato fantasma, o allucinazione (Jameson 1989)[ii]. Va da sé che il ricorso frequente al governo tecnico e il pilota automatico di Bruxelles rappresentino la fase più avanzata dell’attuale metamorfosi dei partiti verso l’esclusione, sia pur ancora non scritta ma ormai codificata, delle masse popolari dalla costruzione dei progetti politici nell’ambito delle attuali post-democrazie europee e occidentali.

B – Di conseguenza, esattamente all’opposto dei partiti delle origini, quelli post-moderni hanno avuto progressivamente sempre meno bisogno di cercare una propria legittimazione: 1) tanto che fosse dovuta a progetti al di sopra degli interessi di gruppi sociali specifici e di leader individuali; 2) quanto quella di un impegno strategico per la costruzione di un autentico consenso di massa. In conclusione, tali partiti sono composti da nomenclature che si auto-riproducono per partenogenesi al di fuori di rapporti di forza reali.

Ora, però, l’analisi del presente articolo vuole indagare questo aspetto più nel profondo e quindi si applica anche alla galassia sovranista costituzionale e neo-socialista con particolare riguardo ai due partiti più noti dell’area: Ialexit con Paragone e Riconquistare l’Italia. Difatti, se il Partito Democratico, in virtù di una precedente eredità storico-egemonica ereditata dal PCI, oppure Forza Italia, grazie alla disponibilità di ingenti risorse finanziarie private, hanno scelto coscientemente di rinunciare a ricomprendere le contraddizioni esterne entro una traiettoria egemonica, perché appunto non ne traevano più alcun beneficio, esiste tuttavia anche un ampio spettro di partiti di estrazione popolare persuasi invece di essere sufficienti a se stessi. Tutto ciò in una paradossale prospettiva auto-referenziale (o allucinatoria) dove è venuta a mancare del tutto la mediazione fuori di sé. Dunque, obiettivo finale dell’articolo sarà di mettere in luce proprio l’assenza, da parte dei partiti costruiti dal basso, di una riflessione sulla posizione che hanno concretamente assunto nell’ambito dell’essere sociale.

2. La polemica sul Risorgimento

        La propaganda socialista italiana di fine 800 è fittissima e si dirama con una serie di manifesti e di riviste come la La plebe,del redattore Enrico Bignani, apparsa a Lodi nel 1862: ovvero, ben trent’anni prima che venisse fondato il Partito dei Lavoratori Italiano nel 1892 (Pisano 1985)[iii]. Secondo Turati, infatti, il soggetto politico non ha ragion d’essere se non si rivolge, guida, e contribuisce a costruire un proprio interlocutore specifico, storico sociale, che sarà individuato in quell’epoca nel proletariato dei grandi agglomerati urbani del triangolo industriale di Milano, Genova, e Torino. Ma il partito non si limitava a parlare semplicemente ai lavoratori. Li andava a cercare; li incontrava direttamente nelle officine; li persuadeva; sentiva il dovere di conquistarli. Così che tale processo di incontro tra avanguardia proletaria e piccolo borghese, con il popolo, raggiunge il suo punto più alto circa sessant’anni dopo, durante il famoso Biennio rosso, che consisterà nell’occupazione delle fabbriche di Torino tra il 1921 e il 1922.

Guardando a ritroso, è proprio la mancanza di tale convergenza con le masse a diventare l’oggetto   polemico di Antonio Gramsci (2000)[iv] nei confronti dei leader del Risorgimento, autori più che altro di una ‘conquista regia’ da parte dei Savoia e perciò di una ‘mancata rivoluzione popolare’ come l’aveva descritta il Cuoco. Gramsci, d’altronde, aveva avuto davanti a sé almeno due casi esemplari, praticamente identici, che dimostravano la validità della sua tesi. Da una parte, l’impresa storica di Robespierre, quando i giacobini nel 1789 erano riusciti a conquistare Parigi, nella misura in cui compresero di poter raggiungere tale obiettivo solo incrociando il consenso degli abitanti della capitale con quello delle masse rurali provenienti dal resto del paese (Gramsci 2000)[v]. Dall’altra, c’era stato il recente modello della Rivoluzione d’Ottobre, nella quale Lenin (2017)[vi], per sconfiggere i Menscevichi, aveva intuito che il partito comunista avrebbe dovuto cucire insieme gli interessi degli operai delle grandi città occidentali, come Mosca e Pietroburgo, con quelli dei contadini che vivevano in Siberia, nella parte  più orientale della Russia.

Lenin (pseudonimo di Vladimir Il’ič Ul’janov)

Tuttavia, tale presa di distanza dall’élite liberale non discendeva solo da un’analisi storica, come soleva fare il Croce, quanto piuttosto teorica. Sostiene a ragione Costanzo Preve (2012)[vii] che Croce e Gentile condividevano con Gramsci la corrente neo-idealista ma, rispetto agli altri due filosofi, quest’ultimo l’aveva declinata per mezzo del materialismo storico, dando luogoinfinead una propria impostazione originale del marxismo. Non si trattava infatti di pensare nemmeno ad un soggetto ideale come quello gentiliano nella sua accezione pura. Diversamente, per Gramsci, l’idea di soggetto hegeliano diventava immanente, e perciò si calava all’interno dei rapporti sociali fra gli uomini: quindi nella storia. Dunque, mentre per Gramsci il soggetto politico, nonostante partisse da una condizione scissa rispetto alla totalità popolare, l’avrebbe dovuta ricomprendere con il fine di trasformare se stesso, insieme a quella, nella nazione italiana, la classe liberale, al contrario, era stata solamente capace di contemplarla dall’esterno, identificando l’essere sociale nella mera cosa in sé (cioè che ha solo senso in se stessa) kantiana: un oggetto incomprensibile all’intelletto e perciò estraneo anche alla propria influenza d’azione (Gramsci 2000)[viii]. Per dirla con la Fenomenologia dello Spirito, gli eroi della Destra Storica erano stati portatori di una ‘coscienza infelice’ che rimandava ad una visione della realtà solo parzialmente corretta in quanto viziata dal proprio punto vista. Prendiamo l’esempio del Moderato Crispi, l’avvocato siciliano che sarà giacobino soltanto nella sua volontà determinata di fare unita l’Italia. Mentre rimarrà totalmente incapace di negare la soggettività piccolo borghese che lo connotava, tanto da realizzare al governo un’alleanza con i latifondisti del Mezzogiorno a scapito dei contadini, pur di non mettere a repentaglio la conquista piemontese (Gramsci 2000)[ix].

Allora, per quale motivo i Moderati non furono in grado di uscire dalla loro egoità?

Perché la classe dirigente del Risorgimento si percepiva come un soggetto politico artefice del proprio destino, specchio di quelle costituzioni liberali che, dalla Rivoluzione Francese fino al ’48, erano state gradualmente imposte ai sovrani di mezza Europa mediante la loro promozione in parlamento. Fu grazie alla conquista del potere attraverso i moti di inizio secolo, e nonostante la Restaurazione del Congresso di Vienna, che la grande borghesia italiana del 1860 era stata in grado di fondare una propria etica soggettiva. Ed è solo verso quest’ultima che i liberali (anche piccolo-boerghesi) rispondevano nel realizzare i propri interessi di classe, rispetto ai quali venivano ancora esclusi il suffragio universale, i diritti del lavoro, e i partiti: istanze popolari che non riuscivano a trovare una loro collocazione in quella Weltanschauung (Hobsbawn 2016)[x]. Di conseguenza, come dicevamo, lo sbaglio dei liberali fu quello di proiettare le leggi di un Io legislatore parcellizzato sull’interesse complessivo dell’intera nazione. Ovvero, si trattava di un’idea particolare che, in maniera contraddittoria, avrebbe voluto raggiungere ingiustamente il piano universale.

D’altronde, neanche il Partito d’azione riuscì a dare luogo ad una rivoluzione popolare. Se si faceva eccezione per una certa parte più autenticamente progressista, come Garibaldi e il Pisacane, nemmeno proletariato e piccola borghesia erano stati in grado di raggiungere da soli (in modo automatico e deterministico) la consapevolezza della propria condizione alienata, così da superarla per ricomprendere in sé le leggi che informavano i rapporti di forza fuori di loro.

Perché il Partito d’Azione fosse diventato una forza autonoma e, in ultima analisi, fosse riuscito ad imprimere al moto del Risorgimento un carattere più marcatamente popolare e democratico avrebbe dovuto contrapporre all’attività empirica dei Moderati un programma organico di governo che riflettesse le rivendicazioni essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei contadini. […]. (Gramsci 2000: 89)[xi].

Francesco Crispi

3. Il concetto di egemonia in Gramsci

          Quindi, per fare luce a pieno su tale fallacia, ci deve venire in aiuto anche un secondo scritto di Gramsci, Il Materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce. Il fallimento era sopraggiunto perché l’auto-coscienza dell’Io, estranea ai liberali, era stata possibile solo attraverso l’elaborazione collettiva prodotta dall’ingresso nella storia del partito popolare post-unitario. Non prima di allora. Gramsci infatti aveva imparato da Hegel il processo di costruzione della soggettività moderna, per cui non si poteva avere una classe dirigente cosciente della sua ideologica unilateralità mediante la mera conferma di un’identità cristallizzata, quanto piuttosto grazie alla negazione di quella solitudine egoica (Gramsci 2000: 118-119)[xii]. Soltanto negando se stesso, infatti, il soggetto politico poteva rendersi conto di non essere affatto dissimile dalla cosa in sé, percepita, nell’immediatezza, esterna e posta lontana nel mondo fenomenico. Mentre il processo di sviluppo del partito, che ambiva a diventare egemone, doveva includerla ora al proprio interno come parte necessaria del suo progetto per trasformarla. In altre parole, allo stesso modo di Lenin, anche la rivoluzione dei socialisti italiani avrebbe avuto l’obiettivo di convogliare entro la propria guida gli interessi degli operai del nord Italia con quelli dei contadini meridionali, prigionieri del latifondo. Soltanto per mezzo di questo ampio consenso esterno al partito, i socialisti avrebbero potuto conquistare in seguito anche il potere legale nelle istituzioni attraverso il partito medesimo, e non il contrario:

Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere). Dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente. […] Dalla politica dei Moderati appare chiaro che ci può e ci deve essere una attività egemonica anche prima dell’andata al potere e che non bisogna contare solo sulla forza materiale che il potere dà per esercitare una direzione ufficiale (Gramsci 2000: 87)[xiii].

In altre parole, non avrebbe avuto senso entrare nelle stanze del governo in assenza dell’appoggio  dei lavoratori, pena la realizzazione di un progetto politico condotto avanti da un volgare e astratto dover essere, lontano perciò da rapporti di forza sostanziali, con un partito che sarebbe rimasto chiuso in una mera logica formale. Di conseguenza, possiamo sostenere che i partiti popolari dei Turati e dei Gramsci respingevano pienamente quella rigida soggettività, padrona in casa propria del cogito ergo sum, che si poneva come non contraddittoria ma identica a se stessa. Semmai, era intervenuto un principio di castrazione paterna, da parte di quella stessa classe dirigente illuminata, che fu in grado di interrompere il corto-circuito autoerogeno dell’Io borghese per diventare a tutti gli effetti il soggetto aperto e inclusivo nazional-popolare del moderno partito di massa.

Difatti, potremmo porci la seguente domanda. Come doveva apparire all’avvocato Turati, che non era di certo un proletario, quella vasta massa di operai analfabeti che non erano in grado di accogliere i complessi messaggi del marxismo, se non alla stregua di un non-Io fichtiano, radicalmente dicotomico rispetto al soggetto politico?

Eppure, all’opposto di Crispi, il primo leader del PSI, proprio per riuscire a raccogliere il consenso di quella moltitudine, nel 1896 aveva bandito un concorso a conclusione del quale si sarebbero potuti premiare i migliori opuscoli per ladiffusione delle idee socialiste (Pisano 1985)[xiv]. Dopo quattro anni dalla sua fondazione, la propaganda fu ritenuta strategica nell’organizzazione di partito. E, pertanto,si dovevano scovare anche i conferenzieri più abili che fossero riusciti a coniugare insieme una comunicazione adatta alle classi incolte, insieme a dei contenuti altrettanto significativi. Viceversa, per la classe dirigente del Risorgimento, il popolo rappresentò sempre quell’incomprensibile non-Io (o cosa in sé kantiana), che in un primo momento era rimasto estraneo alla Costituzione dello Statuto Albertino, ma che invece avrebbe fatto il suo ingresso nella Storia, dapprima, durante il Biennio rosso, e successivamente con la Resistenza, quando la sovranità popolare fu collocata all’interno del primo articolo della Costituzione del ’48.

4. Il post-moderno della Seconda Repubblica e la sua scissione dall’essere sociale

            Il postmoderno invece è l’ideologia del tardo capitalismo che, dopo il crollo delle grandi narrazioni, inclusa quella socialista, è riuscito in circa quarant’anni a spoliticizzare del tutto le masse popolari, riportandole indietro nel tempo fino all’Ottocento. Quest’ultime sono attualmente persuase infatti di costituire monadi isolate e indipendenti, mettendosi a vaneggiare il mito, solo in apparenza sepolto, del Robinson Crusoe, e hanno sostituito gli ideali dei precedenti ismi con l’unica finalità consumistica del mercato (Jameson 1989)[xv]. Il punto da considerare qui però è che anche il partito popolare, nonostante la buona fede, è composto oggi, come del resto accadeva in passato, dello stesso tessuto sociale spoliticizzato che ha finito per introiettare le logiche del grande capitale. Questo perché, come si è visto, soggetto politico e cosa in sé non sono affatto distinti l’uno dall’altro all’interno dell’essere sociale, anche se il primo, nella sua immediatezza, si illude di esserlo.  

La realtà oggettiva dell’essere sociale è la stessa nella sua immediatezza tanto per il proletariato quanto per la borghesia. Ma ciò non toglie che, a causa della diversa posizione che queste due classi occupano nello stesso processo economico, siano fondamentalmente diverse le categorie specifiche della mediazione attraverso le quali esse portano alla coscienza questa immediatezza (Luckàcs 1991: 198)[xvi].

Se pensiamo ad esempio alla sinistra post ’89 come Lotta comunista, che si è rinchiusa in una dimensione d’avanguardia iper-intellettualistica e incomunicabile verso l’esterno, oppure ai CARC (Comitati di Appoggio alla Resistenza del Comunismo), eterodiretti da un partito clandestino (Nuovo PC) che si eclissa di proposito dalla sfera pubblica per nascondere il suo progetto, ci rendiamo conto dello stato di dissociazione mentale anche del partito socialista post-moderno. Non fa eccezione una certa gamma di partiti al centro, come recentemente avvenuto con La mossa del cavallo del magistrato Antonio Ingroia, insieme alla collaborazione dell’ormai defunto Giulietto Chiesa. Questi ultimi, colpiti dall’ossessione del mero appuntamento elettorale, per ben due volte si sono persuasi invano di farsi conoscere alla popolazione soltanto durante l’intervallo lampo della par-condicio, facendo a meno di un percorso egemonico tradizionale di lunga durata.

C’è molto da riflettere nei confronti di questa totale indifferenza rispetto alle masse, escluse del tutto dalla prassi di partiti che, almeno sulla carta, si definiscono popolari. Si potrebbe sostenere infatti che il soggetto politico moderno fosse nevrotico nel senso riportato più sopra. Ovvero, che avesse dovuto rinunciare ad una forma di piacere narcisistico a causa di una rigorosa disciplina di partito, così come adeguarsi ad un ideale politico più importante rispetto all’opinione del singolo. In questo modo, infatti, chiunque fosse entrato a far parte dell’organizzazione politica doveva rinunciare a qualcosa della propria individualità per un bene più elevato. Ma fu proprio in virtù di tale castrazione simbolica, per mezzo della quale il militante negava al contempo, marxianamente, la propria condizione alienata, che il progetto socialista potè essere diffuso al di fuori del partito. Fu in questo modo che i socialisti delle origini, fino a Berlinguer, continuarono ad incontrare il desiderio di vasti blocchi sociali, sebbene molti di loro inizialmente fossero stati ancora incapaci di accogliere il loro progetto. Pertanto,secondo Gramsci, il compito della futura classe dirigente consisteva anche nell’educare la popolazione per elevarla ad un livello di consapevolezza politica che in partenza non possedeva:

(Questo è il) Merito di una classe colta, perché sua funzione storica è quella di dirigere le masse popolari e svilupparne gli elementi progressivi. Se la classe colta (tuttavia) non è stata capace di adempiere alla sua formazione, non deve parlarsi di merito ma di demerito, cioè di immaturità e di debolezza (Gramsci 2000: 117)[xvii].

Completamente agli antipodi si presenta invece il soggetto politico post-moderno che, tanto nella forma istituzionalizzata del Partito Democratico e di Forza Italia, quanto in quella dei partiti costruiti dal basso, come Lotta Comunista, non ha alcuna intenzione di abbandonare il proprio Ego particolare di cui, anzi, esalta puntualmente la condizione di libera e isolata identità perfettamente conforme a se stessa. E questo accade perché la sua difficoltà non consiste, appunto, nell’accedere al desiderio dell’Altro fuori di sé. Il soggetto politico post-moderno non sente più la preoccupazione, come accadde a Gramsci, di riesumare nevroticamente il rimosso censurato dal Partito d’Azione, che era venuto meno al compito di incontrare le rivendicazioni dei contadini siciliani. Sono questioni che non vengono più annoverate nelle strategie di questi partiti. Si tratta adesso piuttosto del problema dello psicotico che, prima di ogni cosa, ha rimosso l’esistenza del popolo vero e proprio, in quanto oramai riesce soltanto a vedere se stesso. Pertanto, non percepisce più il bisogno di instaurarvi una dialettica di alcun tipo nella misura in cui non traduce affatto tale perdita in un lutto. Detto in estrema sintesi, il soggetto post-moderno, al contrario dei Turati e dei Gramsci, si è convinto, nel suo delirio allucinatorio, di poter diventare egemone pur essendo privo di consenso, in assenza di qualsiasi mediazione con l’essere sociale.

5. Due forme di rimozione dell’essere sociale nella galassia sovranista-costituzionale

            Non è un caso infatti come, diversamente dalle tesi weberiane del soggetto ascetico protestante, Lacan nel 1972 sostenesse invece che il capitalista cercasse di perseguire solo ed esclusivamente il fine del piacere assoluto, libero cioè da qualsiasi vincolo sublimatorio proveniente da ideali religiosi (e comunque universali), o da legami con altri attori sociali, entrambi posti al di fuori della propria etica di classe (Recalcati 2010)[xviii]. Così, in tempi non sospetti, Lacan, ne Il discorso del capitalista, sembra aver anticipato davvero anche la parabola dei partiti post-moderni tramite due dinamiche apparentemente opposte ma che in realtà convergono sullo stesso punto:

a) quella dell’emancipazione di un Es liquido,libero dalle mediazioni dell’essere sociale, che produce così un’espansione smisurata del soggetto in assenza di limiti esterni ideali, dove i legami con gli altri si riducono per questo motivo solo ad una proiezione feticistica di se stesso su quelli, tanto da fagocitarli;

b) oppure quella simmetrica e speculare di un Super-Ego solido, liberato anch’esso dall’essere sociale, che tuttavia stavolta si ritira radicalmente entro un’identificazione ideale del soggetto, recidendo gli agganci esterni con la prassi, dove pertanto i legami con gli altri si riducono in realtà ad una mera esibizione feticistica di se stesso al di fuori di essi, tanto da rimuoverli.

Jacques Lacan

Veniamo quindi adesso a considerare da vicino due esempi di area sovranista-costituzionale e neo-socialista che riproducono nella sostanza questi ritratti gemelli.

a) Partiti post-moderni privi di un ideale fuori di sé

            La prima impostazione corrisponde a quella del partito liquido che ha accentuato la componente kantiana del soggetto demiurgo. Per cui, una volta divenuto libero di fondare la propria legge, l’Io continua invece ad essere represso proprio in virtù del suo obbligo di godere contro ogni forma di legame e di disciplina esterna verso se stesso (Devo godere!). Fu Theodor Adorno (2000)[xix], per primo, a dimostrare che la conseguenza più evidente della Libertà dell’Es privo di mediazioni avesse generato l’opera letteraria del marchese De Sade, dove i suoi personaggi si macchiano di ogni genere di efferatezza sulla base di un proprio auto-governo che non doveva più tenere conto di nessun limite tranne quelli stabiliti razionalmente da loro medesimi. Così Juliette è la protagonista dell’omonimo romanzo che, seguendo fino in fondo questa logica interna priva di un ideale fuori di sé, porta a compimento, uno ad uno, tutti i vizi di cui sarà capace. Ma, esattamente per questo, rimarrà infine prigioniera all’interno di un eterno ritorno da lei non scelto. Sarà difatti il mercato ad imporle le sue regole, così che la donna rimbalzerà dalla casa di un protettore all’altro e, pur vivendo nello sfarzo, resterà sempre priva dell’opportunità di realizzare uno scopo eccetto quello di rimanere la cortigiana al servizio degli altri.  

Rientrano in questo tipo di clinica le patologie, tanto del tossico, quanto dell’alcolizzato, i cui rispettivi malati tendono a ripetere gli stessi atti nell’ambito di un circolo vizioso, spinti da un impulso irrefrenabile di piacere perverso nei confronti di una fedeltà ossessiva verso la libertà assoluta (Recalcati 2010)[xx]. Tossici e alcolizzati, privi di un vincolo che possa imporsi dall’esterno per interrompere il loro eccesso, si illudono infatti ogni volta di appagare il loro istinto insaziabile finendo invece per diventare succubi di quello stimolo. Oppure, ci rientra il caso del bulimico che distrugge il proprio corpo, mentre lo sottrae a qualsiasi costrizione, nell’idea angusta per cui il cibo sia in grado di offrirgli l’unica sensazione di piacere possibile. Si comportano allo stesso modo le masse spoliticizzate del XXI secolo, che hanno tramutato la loro condizione di lavoratori in quella di consumatori, quando antepongono la necessità di usufruire a tutti i costi di una merce, offerta loro dal mercato, a quella di lottare per esigere un diritto. Così come avviene nella metamorfosi dei cittadini in tifosi, quando si illudono di ottenere un cambiamento della politica lasciando però che siano sempre gli altri ad occuparsene al posto loro. È in questo modo che il potere nutre la folla mentre le dà in pasto uno scandalo sul quale lamentarsi piuttosto che domandarle un impegno attivo per la costruzione del progetto.

La politica in questo caso ambisce a spettacolarizzare se stessa e, piuttosto di realizzare un autentico incontro con le masse, le manipola mediante un discorso che sia il più traumatico e scioccante possibile alla stregua di un intrattenimento puro. Ebbene, gli attori di una tale comunicazione consumistica possono essere soltanto dei soggetti narcisisti che, invece di ascoltare l’alterità dei lavoratori, vi impongono il proprio discorso. È questa in fondo la parabola del passaggio, da una strategia di partito incentrata sulla corretta diffusione del progetto politico attraverso la consueta propaganda, a quella delle mere apparenze dettate dal marketing, che ha avuto come suo capo scuola il produttore televisivo Silvio Berlusconi, seguito dai proseliti come Grillo, Renzi e Salvini. In questo caso il leader politico, sebbene venga colto in un continuo sproloquio con il popolo, non lo fa mai per proporgli l’ideale fuori di sé ma soltanto l’immagine cosmetica di una merce priva di contenuto.

Appartiene sicuramente a questa scuola la figura del giornalista Gianluigi Paragone che, nell’attività quotidiana di sostituire lo spettacolo alla politica, finisce così per rimuovere il progetto del partito stesso. Difatti, la nomenclatura di Italexit stenta a penetrare i territori a causa della mancanza di un’organizzazione che rimane sempre disgregata sotto il peso del famoso showman, concentrato più che altro sulle sue performance piuttosto che sulla costruzione di una classe dirigente. Per cui, se da una parte, il popolo si avvicina ad Italexit proprio in quanto quest’ultimo riesce a godere della luce riflessa del leader, dall’altra, non lo fa rispetto ad un’ideale condiviso che prescinde dalla sua persona, quanto piuttosto a causa del tifo che viene rivolto verso la figura accattivante del personaggio televisivo. Di conseguenza, gli scandali giornalistici di Paragone diventano simili ad una droga come avveniva per il tossico, oppure al cibo per il bulimico, e riescono a placare la fame dei fan soltanto fino al prossimo scandalo mediatico, ma sempre a fronte della vuotezza del programma politico. Pertanto, il soggetto narcisista, slegato dall’ideale, si ingrandisce ma, proprio in conseguenza di ciò, le folle finiscono per seguire soltanto il leader, proprietario del partito, piuttosto che riconoscersi in uno scopo collettivo e perseguirlo.

b) Partiti post-moderni privi di un consenso fuori di sé

            La seconda impostazione invece, che si presenta apparentemente opposta a quella precedente, ma in realtà del tutto speculare, nasce a causa dell’identificazione solida del soggetto politico con il proprio dover essere ideale. Per cui l’Io stavolta si reprime a causa del suo obbligo di godere la tenace volontà di identificarsi con l’imperativo categorico (Devo ubbidire!). In questo caso, ci serviamo di Herbert Marcuse (2000)[xxi] per spiegare come l’evoluzione più naturale della Legge kantiana precipiti inevitabilmente nella categoria del Super-Ego separato dall’essere sociale. Secondo l’autore, l’utopia di un’emancipazione dal perbenismo vuoto che caratterizzava la Vienna di fine Ottocento, dove i desideri venivano risarciti parzialmente con le nevrosi, non si era affatto risolta in seguito alla rivoluzione dei costumi avutasi durante il boom economico. Si trattava anzi di un’illusione. Il desiderio, apparentemente liberato grazie alla concessione del consumo, era stato assorbito invece dall’industria del divertimento che, con regole codificate e strumentali, continuava viceversa a disciplinarlo. Diversamente da Freud, quindi, per Marcuse il capitalismo avanzato non aveva avuto più bisogno di pretendere dal soggetto una prestazione efficiente che gli veniva imposta tramite l’imperativo di una morale esterna. In maniera rovesciata e paradossale, ora la coercizione del mercato era stata introiettata direttamente dal soggetto che ne domandava il godimento mediante un comandamento etico proveniente da sé medesimo.

Quello che Marcuse però non fece in tempo a vedere è come l’evoluzione di tale fenomeno potesse degenerare successivamente in patologie nuove, tipiche dell’intrattenimento alienato iper-moderno, una volta giunti alle soglie del tardo capitalismo (Recalcati 2010)[xxii]. Rientra ad esempio in questa casistica il consumo digitale, secondo cui, di contro al rituale collettivo di una visione cinematografica, il soggetto libero preferisce tuttavia isolarsi per acquistare prodotti su Amazon e Netflix nell’ubbidienza ossessiva alla propria legge individuale. Oppure, quella del palestrato mentre compiace se stesso con la ferrea disciplina masochistica necessaria per creare un fisico scolpito che assolva ai suoi fini esibizionistici, utilizzando gli altri alla stregua di spettatori passivi utili soltanto ad ammirarlo. Viene poi, ancora, il caso speculare dell’anoressica che castra se stessa in modo altrettanto rigido ma, nel disperato tentativo di privarsi dei piaceri del corpo, non fa altro che ostentare con godimento la sua immagine sfigurata davanti agli occhi di un genitore assente e inaffettivo. Sono tutte figure sorelle della prassi solipsistica di un militante di partito che si limita alla cura autoerogena dei social, oppure a quella della conferenza, chiudendosi così ad ogni legame con il mondo del lavoro. 

Riconquistare l’Italia è il partito sovranista dal basso che appartiene a questa seconda categoria. Controparte di questo atteggiamento, simile a quello del consumatore digitale post-moderno, è difatti la strategia di una candidatura d’ufficio in vista del mero appuntamento elettorale, organizzato con lo scopo di esibire il soggetto politico come fa il negoziante per mezzo della merce pre-confezionata di cui dispone in vetrina. Durante il brevissimo lasso temporale ‘usa e getta’ della par-condicio, ci si illude di instaurare infatti un legame con la popolazione, che viene ridotta alla stregua di clienti, percepiti come meri spettatori-consumatori, cui è stato precluso il dialogo durante le altre fasi di vita dell’organizzazione. Così, l’auto-promozione alienata del soggetto politico, realizzata in assenza di qualsiasi forma di ascolto, oppure di una diffusione del progetto, verso i lavoratori, corrisponde, in ultima analisi, ad una forma identica, soltanto rovesciata, dell’iper-narcisismo di Paragone, che escludeva anch’esso la prassi egemonica come era stata tradizionalmente intesa.

Da notare come la ‘disciplina di partito’, osannata dal presidente Stefano D’Andrea (Appello al Popolo 2021)[xxiii], faccia parte di un’autentica prerogativa iscritta nella letteratura socialista. Solo che, rispetto al passato, viene adesso distorta in modo perverso. Ovvero, la costruzione del nell’ambito dell’organismo collettivonon serve più, come accadeva in Gramsci, a negare contemporaneamente l’egoità alienata del corpo militante affinché potesse evaderla per condividere il progetto politico all’esterno, grazie allo sforzo organizzativo del partito. Ma viene sigillata ora entro un’iper-identificazione ideale, realizzata mediante l’addestrato cinismo di una monade, avvitata su se stessa, nel godimento narcisistico di essere partito. Dunque, diversamente dall’Es liquido che informa Italexit con Paragone, che tramite il marketing celebra la figura del leader a discapito dell’ideale, stavolta è il Super-Ego solido dell’ideale che celebra il partito tramite il marketing a discapito dei legami con l’essere sociale. Proprio il popolo, del quale, ironia della sorte, il partito vorrebbe fare le veci, finisce difatti per essere considerato sempre nella sua condizione irriconoscibile e reificata,avulsa cioè da ogni forma di mediazione: ora come inutile e depresso consumatore, quindi incompatibile con il progetto; ora come utile spettatore che tuttavia, durante la campagna elettorale, dovrà assistere passivamente al progetto.

6. Conclusione. Il ritorno del rimosso contro le forme di rimozione del consumo

            Nell’epoca post-moderna, lo strapotere del soggetto, che si esprime nella disperata affermazione narcisistica di molteplici Io alienati, conduce verso quello che Freud aveva definito pulsione di morte (Toderstrieb) (Freud 2006)[xxiv]. Si tratta di una spinta auto-distruttiva che, se adeguata al nostro discorso, mostra di sabotare i vari tentativi di costruzione del partito moderno nazional-popolare a causa della riproduzione inconscia delle logiche di consumo come viene determinato dalle attuali leggi di mercato. Purtroppo, la castrazione simbolica, che aveva caratterizzato da sempre l’organizzazione politica otto-novecentesca è stata rimossa, dando luogo: o ad un eccesso di forme irrazionali populiste che si lanciano per mezzo di proiezioni feticistiche di sé verso l’esterno; oppure ad un eccesso di forme intellettualistiche che congelano l’azione entro un sé feticista a dispetto dell’esterno. La chiave per uscire da questa impasse non bisogna inventarsela ma si trova ovviamente nel vecchio concetto di egemonia così come emerge dai socialisti delle origini fino alla Prima Repubblica. Questi ultimi si servirono della filosofia della prassi per contrastare faticosamente gli ostacoli che impedivano la lotta e la diffusione delle loro idee grazie ad un saldo legame con l’essere sociale, e non certamente, come accade nella nostra epoca, tramite un’estetica nichilista che ne celebra la rimozione privata del lutto.

Proprio questo si evince, ad esempio, in un recente articolo di Simone Garilli (2021)[xxv], dal quale emerge la precisa volontà di mettere in mostra la purezza del partito rispetto alle contraddizioni reali dalle quali si percepisce la missione epocale di rimanerne scrupolosamente a distanza. Difatti, il discorso del capitalista non si limita a distruggere i legami sociali al suo esterno ma inghiotte anche la Storia, distorcendone la parabola, al proprio interno. E difatti l’immagine di una volontà soggettiva, che si proietta arbitrariamente sulla condizione dei nostri patrioti nel passato, durante il Ventennio, finisce per decontestualizzare quel periodo dalla cornice storica del socialismo nel suo insieme (Colorni 1962)[xxvi]. Non sembra chiaro infatti che la rivoluzione del 1943 sarebbe stata impensabile se non ci fosse stato quell’enorme sforzo di costruzione egemonica accumulato nei sessant’anni precedenti, ma di cui oggi, dopo quarant’anni di dominio liberale, non si può più disporre.

Fu infatti il risultato di quell’esperienza, culminata tra il Biennio rosso del 21-22 e l’ingresso al governo con il PSU (Partito Socialista Unitario) di Matteotti nel 1924, che potè essere tesaurizzata dai socialisti anche durante il periodo di clandestinità. E’ proprio perché i partiti popolari clandestini erano riusciti a capitalizzare quell’egemonia sulle masse che poterono mantenere anche in seguito dei legami così forti verso di esse, tanto da poterne diventare infine la guida durante la guerra civile (Togliatti 1962)[xxvii]. La Resistenza non fu infatti il risultato di quadri di partito rimasti isolati ma la conclusione del processo risorgimentale attraverso il quale si realizzò quell’incontro tanto agognato tra partiti socialisti e popolo che i partiti post-moderni non sono in grado di comprendere.


[i]             . Gramsci A. Il Risorgimento, in I quaderni dal carcere,  Roma: Editori Riuniti, 2000, cit. pg.146-147.

[ii]           . Jameson F. Il postmoderno o la logica del tardo capitalismo. Milano: Garzanti; 1989.

[iii]          . Pisano R. Il paradiso socialista. La propaganda socialista in Italia alla fine dell’Ottocento. Milano: Franco Angeli; 1985.

[iv]          . Gramsci A. Il Risorgimento.

[v]            . Ibid.

[vi]  Lenin, (a cura di) Giacché V., Economia della rivoluzione. Il Saggiatore: Milano; 2017.

[vii]         . Preve C., Antonio Gramsci e la filosofia della prassi. Torino: https://www.youtube.com/results?search_query=costanzo+preve+su+gramsci, in Youtube: 07.12.2012

[viii]         . Letteralmente, Gramsci interpreta la cosa in sé come un fenomeno concreto scientifico: “Pare difficile escludere che la ‘cosa in sé’ sia una derivazione esterna del così detto realismo greco-cristiano e ciò si vede anche dal fatto che tutta la tendenza del materialismo volgare e del positivismo ha dato luogo alla scuola neo-kantiana e neo-critica […] ”, tanto che, continua Gramsci, la cosa in sé potrebbe essere disvelata in futuro con adeguate conoscenze scientifiche. cit. pg. 49 e vedere pg. 50. Tuttavia, come appunto sostengono Preve, insieme ad altri critici, la sua visione della storia sociale corrisponde chiaramente a quella neo-idealista, esattamente come si ritrova ad esempio in Storia e coscienza di classe di Luckàcs. Per cui Gramsci scrive spesso passi come il seguente, dove l’idea della ‘storia dei rapporti di produzione e di classe’ sono come li intendeva, appunto, anche il filosofo ungherese: “Oggettivo significa sempre ‘umanamente oggettivo’. Ciò che può corrispondere esattamente a storicamente oggettivo, cioè oggettivo significherebbe ‘universale oggettivo’. L’uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario […]. Noi conosciamo la realtà solo in rapporto all’uomoe siccome l’uomo è divenire storico anche la conoscenza e la realtà sono un divenire, anche l’oggettività è un divenire, ecc.”, in Gramsci A., Il Materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, in I quaderni dal carcere. Roma: Editori Riuniti; 2000, cit. pg. 181-182 (grassetto mio).

[ix]  . Gramsci A., Il Risorgimento.

[x]            Hobsbwam E., Le rivoluzioni borghesi (1789-1848). Res Gestae: Milano; 2016.

[xi]           . Gramsci A., Il Risorgimento., cit. 89.

[xii]         . “Hegel rappresenta, nella storia del pensiero filosofico, una parte a sé, poiché, nel suo sistema […] si riesce a comprendere la realtà […], pertanto, la filosofia della prassi è una riforma e uno sviluppo dello hegelismo, (che) è una filosofia liberata […] da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico, è la coscienza piena delle contraddizioni, in cui lo stesso filosofo, inteso individualmente, o inteso come intero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni ma pone se stesso come elemento della contraddizione, eleva questo elemento a principio di conoscenza e quindi di azione. L’uomo in generale, comunque si presenti, viene negato, e tutti i concetti dogmaticamente unitari vengono dileggiati e distrutti in quanto espressione del concetto di uomo in generale o di natura umana immanente in ogni uomo”, in Gramsci A., Il Materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce. Cit. pg. 118-119 (grassetto mio).

[xiii]         . Id., Il Risorgimento., cit. 87.

[xiv] . Pisano R., Il paradiso socialista. La propaganda socialista in Italia alla fine dell’Ottocento.

[xv]         . Jameson F., Il postmoderno o la logica del tardo capitalismo.

[xvi]        LuckàcsG., Storia e coscienza di classe. Milano: Sugarco Edizioni; 1991, cit. pg. 198.

[xvii]        . Gramsci A., Il Risorgimento., cit.pg. 117.

[xviii]       . Il discorso del capitalista, in Recalcati M., L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica. Milano:Raffello Cortina Editore; 2010.

[xix] . Excursus II. Juliette, o illuminismo e morale, in Adorno T., Dialettica dell’Illuminismo. Roma: Biblioteca Einaudi; 2000.

[xx]  Recalcati M., L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica.

[xxi]        . La conquista della coscienza infelice: la desublimazione-repressiva, in Marcuse. H., L’uomo a una dimensione. Roma:BibliotecaEinaudi; 2000. Non è Marcuse ad utilizzare direttamente il paragone con Kant ma Freud che nei suoi scritti paragona super ego e imperativo categorico. Su questo filone, da leggere ad esempio il testo di Zupancic A., (a cura di) L.F. Clemente, Etica del reale, Kant, Lacan. Napoli: Othodes; 2012.

[xxii]        Recalcati M., L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica.

[xxiii]     . ”Il partito non è il luogo dove il singolo esprime la sua personalità, il partito è un luogo di crescita, nel quale si imparano contenuti, regole, ratio di regole, disciplina, fermezza, tenacia, si apprendono esperienze. Poi, al momento dei congressi, nelle forme dello statuto si dà un contributo volto a allargare la base programmatica o a modificare lo statuto o ad assumere una delibera strategica”, inAppello al Popolo, 16.04.2021, https://riconquistarelitalia.it/riconquistare-litalia-il-partito/.

[xxiv]      . Freud S., Al di là del principio del piacere. Torino: Bollati Boringhieri; 2006.

[xxv]        . Garilli S., Candidarci alle elezioni del 2023. Ad ogni epoca la sua rivoluzione, in Appello al popolo, 16.06.2021, https://appelloalpopolo.it/?p=65298.

[xxvi]       . La questione risulta imprecisa sul piano della ricostruzione filologica. Nel senso che i quadri di partito non si persero d’animo e cercarono egualmente di fare propaganda anche in modo clandestino con il mondo del sindacato, il volantinaggio presso i luoghi di lavoro, le riviste censurate che continuavano ad essere distribuite, ecc., anche prima del ’43. Per questo, vedi ad esempio: Colorni E., Intorno al manifesto del PcdI. La lotta all’interno del fascismo, in Merli S., Fronte antifascista e politica di classe. Socialisti e comunisti in Italia (1923-1939). Bari: De Donato editore; 1962. Ma il testo si cita qui più per spiegare la diversa attitudine di quel tipo di militanza rispetto a quella indifferente odierna, piuttosto che per l’effettiva efficacia di un disperato tentativo di proseguire la propaganda in un contesto che ovviamente lo impediva. Tuttavia, c’è un punto differente anche di tipo pragmatico. E cioè che, rispetto ad oggi, le manifestazioni spontanee dei partigiani e degli scioperi di fabbrica scatenatesi nel ’43 furono prontamente intercettate dai partiti popolari, i quali si impegnarono tempestivamente ad interagire con tali gruppi mediante partecipazioni dirette e concrete, anche in virtù del fatto che questi ultimi erano in possesso di una lunga tradizione della prassi che aveva già insegnato loro come farlo.

[xxvii]      . “La iniziativa spetta infatti, nella Resistenza, a quelle forze popolari che durante il Risorgimento erano state ridotte a una funzione subalterna e talora persino battute, allo scopo di escluderle dalla direzione politica. Sono in prima linea, quindi, non le classi borghesi, inerti quasi sempre, quando non identificate col fascismo e con l’invasore straniero, ma gli operai, i contadini, il ceto medio lavoratore. Alla loro testa i comunisti, i socialisti, democratici radicali e cattolici d’avanguardia. È un blocco storico del tutto nuovo, che sancisce la vittoria sul fascismo, conquista una Costituzione repubblicana e democratica avanzata e apre la prospettiva di nuovi sviluppi progressivi. La Resistenza quindi, per questi aspetti politicamente e socialmente decisivi, non ha continuato, ma corretto il Risorgimento” cit. in Togliatti P., Il Risorgimento e noi. Torino: ciclo di lezioni, febbraio-aprile,1962. 

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Sport

Il Budo e la funzione sociale delle arti marziali.

Articolo di Valerio Macagnone, segretario ESC (2020-2021)

Nell’immaginario occidentale colonizzato dalle spettacolari sfilate cinematografiche di combattimenti sanguinari à la Beatrix Kiddo, protagonista dei lungometraggi di Quentin Tarantino, è facile cadere nell’equivoco secondo cui le arti marziali sono delle semplici discipline di combattimento finalizzate al business degli eventi “Oktagon” o  arti coreografiche da serie Netflix che fungono da preziosismo atletico/estetico destinato a sfondare lo schermo con schizzi di sangue ed estrose tecniche volanti. Tuttavia, indagando la storia e la filosofia delle arti marziali ci si può imbattere in grandi uomini, alti appena 160 cm e dall’aspetto contegnoso e riverente, come il maestro Jigoro Kano, fondatore del Judo (“Via della cedevolezza”), che diceva che il fine ultimo delle arti marziali è di perfezionare sé stessi per servire la società. Il Budo, in effetti, è l’espressione più alta della cultura marziale giapponese, con questo termine si suole designare un sistema etico/tecnico che sta a fondamento delle discipline di combattimento che hanno origine nel Sol levante. Lo studio e la pratica delle arti marziali (keiko) infatti coinvolgono l’aspetto tecnico, fisico, mentale e spirituale del praticante (budoka) il quale oltre a interessarsi della perfezione tecnico/estetica del gesto marziale si interessa allo sviluppo delle qualità di condotta sociale che promanano dal codice etico del samurai denominato “bushido” ovvero la via del guerriero. Uno degli elementi caratteristici della cultura nipponica è proprio l’intima associazione tra etica ed estetica, tra forma e contenuto, in cui l’arte, nello studio dei formalismi e delle etichette, diviene espressione della carica etica del mondo orientale e mezzo di perfezionamento spirituale del praticante. Shintoismo, Buddhismo, Confucianesimo sono le basi da cui si evolve il pensiero del “Budo” che, nonostante presenti degli elementi di rigidità etica a monte che possano far storcere il naso a una cultura individualista come quella occidentale, produce benefici a valle per ciò che concerne i risultati sociali dell’applicazione della “Via marziale” come regola di comportamento sociale.

Jigoro Kano

Nello studio del Budo è imprescindibile considerare il retaggio da cui si evolve. I più grandi “budoka” della storia giapponese come Jigoro Kano, fondatore del Judo Kodokan, Morihei Ueshiba, fondatore dell’Aikido e Gichin Funakoshi fondatore del Karate Shotokan erano stati a loro volta studenti di stili di combattimento diversi che, ciononostante, trovavano una radice comune nella via del “bushi”, il guerriero della tradizione feudale. La cultura marziale giapponese conobbe una sensibile trasformazione durante l’epoca Tokugawa (1603-1868), un’epoca segnata dalla fine dei conflitti tra feudi, che a lungo avevano alimento i sentimenti bellicosi tra i Daimyo (i signori feudali) nella lotta per il potere e per l’unificazione giapponese. Nello shogunato Tokugawa, con l’affermarsi di un periodo di pace, lo studio delle discipline marziali venne raffinato e impreziosito dall’idea di purificazione dello spirito. L’essenza dell’etica marziale dei samurai giapponesi venne codificata in un’opera letteraria composta da brevi frasi aforistiche che prende il nome di “Hagakure” (“All’ombra delle foglie”). Tale opera realizzata da Yamamoto Tsunetomo, ex samurai divenuto monaco buddhista, con la collaborazione dell’allievo Tashiro Tsuratomo divenne il modello del codice di condotta per i samurai giapponesi. La fama dell’opera crebbe nel corso del XX secolo, quando venne pubblicata per la prima volta, e nel mondo occidentale è stato citata svariate volte dalla cultura fumettistica e cinematografica: Il regista americano Jim Jarmusch girò un film intitolato “Ghost dog – il codice dei samurai” il cui protagonista è un Forest Whitaker nei panni di un killer al soldo della mafia che segue per filo e per segno i principi e lo spirito del codice dell’Hagakure, votandosi al servizio (il termine samurai deriva da “saburau” ovvero servire) di uno dei mafiosi che gli avevano salvato la vita. Opere pregevoli sul versante della “Nona arte” sono sicuramente i manga di Kazuo Koike e Gōseki Kojima dedicati a figure di “Ronin” (Letteralmente “uomo-onda”), samurai senza padrone alla ricerca di vendetta, come nel caso di Ogami Itto protagonista dell’opera “Lone Wolf & Cub”, e di “Kaishakunin” ovvero di boia incaricati dallo Shogun nella decapitazione dei condannati a morte, come nel caso di Yamada Asaemon protagonista di “Samurai executioner”. Nelle opere citate emerge chiaramente un elemento distintivo della filosofia del bushido: l’idea della morte intesa non solo come il fatto di porre fine alla propria esistenza in battaglia, o in un “seppuku” rituale a seguito di una sconfitta, o di una disputa con il Daimyo, ma come distacco dal sé, come annullamento dell’ego in vista di un fine superiore. Nell’Hagakure uno dei voti ai Buddha espressi da Tsunetomo recita: “Realizzare sé stessi in vista del benessere altrui animati da grande compassione”. L’idea fondante dell’etica del samurai è quindi il servizio al Daimyo e alla comunità di appartenenza e ciò si riflette nelle ere Meiji e Showa quando il processo di umanizzazione delle arti marziali conosce un’accelerazione grazie alle personalità di Kano e Ueshiba che, da differenti prospettive marziali e culturali, codificano le loro discipline solidificando la precettistica e la pedagogia del Budo. La Via del Guerriero assume una nuova missione: il progresso fisico, mentale e spirituale della collettività. Jigoro Kano, insegnava e applicava con insistenza metodica il concetto di “Judo superiore” ovvero della disciplina come mezzo di perfezionamento di sé stessi per servire la società. Il concetto judoistico di “Ji-ta-kyo-ei” (letteralmente “io e altri insieme progresso”) ovvero di mutua prosperità condivisa, e di “Sei-ryoku-zen-yo” ossia il principio del miglior impiego dell’energia divennero così le basi educative della pedagogia di Kano il quale credeva fermamente che l’uso corretto delle proprie energie fisiche e mentali e la collaborazione tra “Tori” (colui che esegue la tecnica) e “Uke” (colui che riceve la tecnica) nel raffinamento dell’esecuzione delle tecniche, dovessero essere le idee fondanti della dottrina del Judo come disciplina per il miglioramento sociale. In sintesi, la frase che esprime al meglio il pensiero di Kano si trova espressa in un articolo dedicato al terzo livello del Judo, chiamato appunto Judo superiore: “Diventare forti vuol dire esattamente imparare a utilizzare la nostra forza per il bene collettivo”. Kano non fu solo un abilissimo artista marziale capace di interpretare al meglio il patrimonio tecnico del “Bujutsu”, ovvero di quell’articolato complesso di tecniche e discipline che rappresentavano il retaggio marziale del samurai, ma fu altresì un sostenitore di un modello pedagogico-sociale fondato sulla cooperazione e il servizio alla comunità che traeva le sue radici dall’etica del bushido: in uno dei suoi scritti dedicato allo spirito del samurai, mette in evidenza la differenza tra la cultura individualista della società industriale orientata alla fugacità di titoli e ricchezze e al profitto capitalistico nel breve termine, alla visione sociale del “bushi” che agiva tenendo conto degli interessi dello Stato e della comunità, sottolineando il fatto che, nell’applicazione dei precetti del Budo, la prosperità collettiva derivi dalla protezione dello Stato e degli interessi comunitari: “nell’ambito del lungo termine, sia gli individui che le aziende prosperano sotto la protezione dello Stato. E quando lo Stato prospera, anche individui e aziende prosperano”.[1] Il pensiero di Kano era naturalmente pervaso da una visione del mondo, tipicamente nipponica, che riconosce massima priorità all’interesso collettivo e che dà lustro a forme ed etichette che rappresentano l’essenza dello spirito del samurai, tanto che perfino la Katana (la spada giapponese) era considerata un prolungamento dell’anima del guerriero. In uno scritto di uno dei più insigni Judoka Italiani, il maestro Cesare Barioli, si evidenzia come lo spirito judoistico debba essere orientato al bene comune e che nel “drammatico conflitto tra educazione e caos” nella nuova era tecnologica, in cui progressi scientifici sono di gran lunga superiori a quelli umanistici, si debba aprire uno spiraglio di luce di una nuova “rivoluzione umanistica che produca uomini e donne in cui la coscienza dell’interesse collettivo prevalga su quello individuale.”[2]

Morihei Ueshiba

L’idea di progresso civile e di armonizzazione sociale furono obiettivi che, coscientemente, i budoka inserirono nei loro programmi educativi, e quando il Prof. Kano negli anni ’30 assistette a una esibizione tecnica dell’Aikido del maestro Morihei Ueshiba, commentò dicendo che in quella dimostrazione aveva visto il “Budo ideale”. In effetti, le idee di Ōsensei Ueshiba e il Prof. Kano, rappresentavano al meglio la trasposizione umanistica delle arti giapponesi che, specie nell’epoca Tokugawa, avevano visto come protagonisti gli “shugyosha”, ovvero dei guerrieri erranti nel cammino del perfezionamento tecnico e spirituale. Ōsensei Ueshiba, anche lui come Kano, studente di scuole tradizionali di Jujutsu (in particolare il Daito ryu Aiki-jujutsu), elaborò come principio di base della propria disciplina, il “Takemusu aiki” ovvero il principio di coraggiosa e illimitata creatività marziale. L’idea fondante dell’Aikido è che l’arte marziale dovesse seguire il principio base mutuato dal Jujutsu (“Arte della cedevolezza”) secondo cui il debole vince l’aggressività e la forza, con la calma e la flessibilità: “Hey yo shin kore do” ovvero il “morbido vince il duro” principio mutuato dalla filosofia Taoista di Lao-Tzu. L’Aikido, in particolare, persegue l’obiettivo dell’armonia tra l’universo esteriore e l’universo interiore dell’uomo, mediante una lunga pratica di comunione fisica, spirituale e tecnica tra Tori e Uke. Elemento imprescindibile dell’Aikido è la simbiosi tra i compagni di pratica, la natura relazionale della disciplina, e il raggiungimento dell’armonizzazione della mente con il corpo, la cui congiunzione è resa possibile attraverso il “ki” ovvero la forza spirituale che armonizza mente e corpo in perfetta coordinazione e in modo spontaneo. Dalla traduzione letterale del nome della disciplina ne consegue che il budoka in questo contesto, attraverso un lungo addestramento finalizzato al rafforzamento del corpo e alla purificazione spirituale, percorre un sentiero, una via (Do = via, percorso) che porta all’armonia (Ai = armonia) attraverso l’opera del Ki (energia, spirito). Il passaggio fondamentale dal “Bujutsu” al “Budo”, dunque, ha la sua linea evolutiva nel processo di umanizzazione del novecento che si concretizza in un pensiero etico marziale fondato sull’idea di perfezionamento individuale e collettivo, e dal passaggio dallo studio della mera tecnica (jutsu) all’idea di aprire un sentiero (Do) che stia a fondamento del benessere fisico, spirituale e mentale degli individui e della conseguente armonizzazione dei rapporti tra uomini, e tra gli uomini e l’universo naturale circostante. Riflesso della filosofia degli antichi samurai, dunque, e suo naturale adattamento all’epoca moderna di pace, il Budo contiene in sé una visione complessiva della società e dell’uomo in cui il collettivo e l’individuo non sono in rapporto conflittuale tra di loro, ma sono armonizzati al fine di esaltare l’opera creativa dell’individuo nelle diverse dimensioni della vita in cui si trova ad operare e allo scopo di conferire un significato umanistico all’arte.

D’altro canto, se l’idea di servizio alla collettività e di devozione del samurai possono apparire in occidente come un semplice anacronismo dai tratti esotistici, è fuor di dubbio che la comunione tra etica ed estetica delle arti giapponesi (non solo quelle marziali) costituisca elemento di grande suggestione, perfino per gli artisti occidentali. Il pittore francese Yves Klein precursore della “Body art” nonché judoka esperto disse a proposito: “Il Judo è arte, è un’arte dello stesso valore grande musica poiché deve essere ricreato ogni qualvolta lo si voglia nuovamente praticare, è un’arte personale e universale perché è l’arte del combattimento, in altre parola la vita stessa”. Lo stesso Klein rinveniva nei “Kata” (sequenze formalizzate di movimenti e tecniche) la massima espressione estetica del Judo e dello spirito della disciplina, un’idea di forma/movimento atta a salvaguardare lo spirito del gesto marziale. D’altro canto lo studio delle forme non è solo riflesso della visione codificata delle tecniche, ma rappresentano la base su cui si costruisce l’intero patrimonio tecnico del Budoka che pertanto potrà ampliare la propria creatività sulla scorta di queste “forme” che rappresenteranno per il praticante uno studio indispensabile e sistematico fintantoché l’assimilazione mnemonica non lascerà lo spazio al “Mushin” ovvero la mente liberata da vincoli emotivi e dagli schematismi.

Il Dō (道), dunque, in una società pacificata dopo le tragedie di Hiroshima e Nagasaki, simboleggia per i principali budoka del ‘900, un modo per attualizzare e rendere vivo il pensiero e l’etica dei samurai giapponesi, e per epurarla dalle strumentalizzazioni che erano state compiute dal Giappone imperiale nel corso della seconda guerra mondiale. D’altronde il termine “bushi” contiene in sé il kanji “Bu” (武) composta da due ideogrammi che in giapponese significano “fermare le lance” e il filosofo giapponese Nakae Tōju definiva la marzialità come personificazione della virtù confuciana della giustizia: “Battersi per sottomettere chiunque ostacoli il rispetto dei genitori, la fratellanza, la lealtà e la fedeltà è chiamato marzialità”. Le sette le virtù del samurai (Gi: Onestà e Giustizia; Yu: Eroico Coraggio Jin:Compassione; Rei: Gentile Cortesia; Meiyo: onore; Chugi: Dovere e lealtà; Makoto: completa sincerità) e l’umanità (Ninyo) di cui sono espressione, servono tuttora a rendere solida la cultura della via marziale giapponese e a trasferire sul piano della pratica (Keiko: letteralmente “andare al di là”) un insieme di valori e di scopi orientati al benessere sociale. L’etichetta che si esprime nelle forme e nel saluto (keirei), nel rapporto cooperativo tra Tori e Uke e nella competizione regolata dalla disciplina, dal rispetto e la cortesia nei confronti dell’avversario, assumono oggi un significato di adesione a un codice etico che certamente non può essere pienamente compreso alla luce degli schemi interpretativi delle società occidentali, ma che, d’altro canto, costituisce un’idea dei rapporti umani in cui l’uomo non può che esprimere al meglio il proprio valore in una relazione di arricchimento condiviso con il prossimo e in una società in cui la marzialità e la cultura sono espressione di virtù e di un’esistenza nobilitata dallo spirito combattivo.

“Le persone che non comprendono il principio di “takemusu aiki” (coraggiosa e illimitata creatività) pensano solo a vincere, non vogliono mai perdere, opponendo muscolo a muscolo, tiranneggiando i deboli e gli inermi, in breve assumendo un atteggiamento aggressivo. Lo scopo dell’Aikido è liberare il mondo dalla violenza e dalla discordia […] La pratica dell’Aikido è purificazione a tutti i livelli della mente e del corpo.”

Morihei Ueshiba


[1] J. Kano, “La mente prima dei muscoli”, cit., p. 114

[2] C. Barioli, “Educazione e sport, il caso del judo”, scritto presentato al congresso organizzato dall’A.I.S.E. nel 2010

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Geopolitica

Pescherecci italiani aggrediti dai libici: il silenzio italiano si traduce in “Mare Vostrum”

articolo di Giuseppe Matranga, socio fondatore ESC

Appena sei giorni fa (06.05.2021) l’ennesimo triste evento che coinvolge le autorità libiche e i pescherecci siciliani di Mazzara del Vallo: resta ferito il comandante Giuseppe Giacalone, a seguito di alcuni colpi di fucile sparati da una motovedetta libica, appartenente all’autorità di Tripoli (ovvero non quella di Haftar, che si era già resa protagonista del sequestro di altrettanti pescatori alcuni mesi fa, bensì quello di Al-Sarraj, in teoria l’unico riconosciuto dal governo italiano).

In questo breve articolo, vogliamo mettere in luce diversi aspetti che hanno, a tratti, del tragi-comico, primo su tutti però, riteniamo doveroso denunciare il totale quanto assordante silenzio che ha coinvolto indiscriminatamente tutte le testate informative nazionali, in merito al fatto, nonché la totale inespressione delle nostre autorità nazionali, tra i quali regna sovrana la figura del gigante della politica estera Luigi Di Maio, colui che, appena pochi mesi fa, aveva simpaticamente confuso la Libia con il Libano.

Facendo riferimento all’intervista intercorsa tra il comandante Giuseppe Giacalone e l’AGI (Agenzia Giornalistica Italiana), vengono fuori diverse informazioni da non sottovalutare e che dovrebbero forse far indignare ogni cittadino italiano, da Lampedusa a Bolzano.
Innanzitutto, il comandante protagonista della faccenda è il padre di uno dei pescatori mazzaresi, che erano stati indebitamente detenuti per circa tre mesi dalle autorità del governo parallelo libico capeggiate dal Generale Haftar (uno di quelli che prima era con Geddafi e poi si trasformò in rivoluzionario al momento della sua caduta), il quale “reo di vivere di pesca” si era recato presso le acque internazionali interposte tra la Sicilia e la costa Libica, mare pescoso nel quale in teoria non vi è alcuna giurisdizione nazionale, tranne nel caso in questione. Infatti, ormai da alcuni anni, la Libia, unica al mondo, ha deciso e sancito autonomamente che le sue acque territoriali arrivino a 40 miglia nautiche dalla costa e non alle classiche e globalmente riconosciute 12 miglia, così che ogni qual volta un qualsiasi natante travalichi l’ideale confine, questo diviene oggetto di contesa da parte delle motovedette libiche (le quali in gran parte sono state donate gentilmente dallo Stato italiano e riportano ancora sbiadita sul fianco la scritta “Guardia Costiera”).

In questo caso al superamento delle 40 miglia, probabilmente allertati da preziosissimi radar (che identificano prontamente i pescherecci italiani ma mai i barconi dei migranti che spesso divengono bare del mare), sopraggiunge una motovedetta libica che intima al comandante mazarese di seguirla fino alla costa. Il comandante, conscio dell’esperienza del figlio sequestrato, si rifiuta di ottemperare all’ordine indebitamente impartito e inverte la rotta in direzione di Mazzara del Vallo. Durante quei concitati minuti vengono addirittura esplosi dei colpi di fucile da parte dei guardacoste, che colpiscono la cabina di pilotaggio col solo comandante Giacalone all’interno che, da “buon padre di famiglia”, aveva ordinato al resto dell’equipaggio di recarsi sotto coperta per proteggerne l’incolumità.

Tali colpi d’arma da fuoco oltre a crivellare le pareti della cabina, infrangono uno dei vetri e procurano diverse ferite alla testa del comandante, il quale in pochi istanti, mostrando la maglia sporca di sangue, si rivolge agli offensori chiedendo di cessare il fuoco. Essi rispondono rivelandosi dispiaciuti di aver cagionato danno alla persona e per soccorrerlo gli propongono di seguirli in porto in modo da poterlo portare in ospedale.

Se non sembrasse già così una barzelletta, sappiate che l’intero dialogo si è svolto in lingua italiana, poiché uno dei componenti dell’equipaggio libico era stato prontamente e gratuitamente addestrato a Messina, e sotto gli occhi della Marina Italiana che era presente a poca distanza con una motovedetta e un elicottero del tutto inermi e passivi.

Detto ciò, il comandante risponde con un classico “rifiuto l’offerta e vado avanti”, supponendo che quello potesse essere l’ennesimo tranello per l’ennesimo sequestro, e continua a dirigersi in direzione della Sicilia.

Fortunatamente le ferite riportate non erano gravi. Ma al suo rientro in porto egli non trova né un’ambulanza a soccorrerlo né uno straccio di autorità portuale ad aspettarlo.

Che dire! Che il governo italiano avesse perso il suo smalto in merito alle politiche internazionali era già abbastanza palese. Che però facesse del tutto finta di nulla, girandosi dall’altra parte, innanzi ad un’aggressione militare ai danni dei propri cittadini lavoratori, è tutta un’altra storia.

Restiamo comunque in attesa di un qualche vagito da parte del Ministero degli Affari Esteri in merito alla faccenda, aspettando che un altro po’ d’acqua passi sotto i ponti e che prima o poi qualcuno, degno di questo ruolo, possa risedersi su quello scranno e riportare una sorta di equilibrio nel Mediterraneo che ci circonda da tempo immemore e che un tempo era stato una risorsa per tutta la penisola italica.

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Storia

GAP: memorie e protagonisti del patriottismo rivoluzionario

Articolo di Valerio Macagnone, Segretario di ESC

Pietro Nenni

“Tutti insieme ci ricolleghiamo alla tradizione Garibaldina perché rappresentiamo le stesse forze di progresso che un secolo fa si unirono a Garibaldi”

Fu con queste parole che il socialista Pietro Nenni volle specificare la natura del Fronte democratico popolare in un discorso di apertura della campagna elettorale tenuto a Milano il 14 Marzo 1948. In quel contesto segnato dalle difficoltà del dopoguerra, lo spirito repubblicano e socialista era il naturale complemento dell’ideale patriottico che aveva animato la lotta partigiana contro il nazifascismo. Il Fronte democratico popolare, ovvero l’alleanza politico-elettorale dei comunisti e socialisti per le elezioni del ’47 e del ’48, aveva come simbolo l’effige di Garibaldi rivendicando in questo modo la continuità ideologico-spirituale tra le camicie rosse e il “Blocco del popolo” che si presentava alle elezioni. Il PCI, dal canto suo, aveva organizzato le Brigate Garibaldi dal cui comando generale nacquero i GAP, ovvero i gruppi di azione patriottica, unità partigiane che erano destinate a svolgere azioni militari di sabotaggio e attentati contro le forze occupanti. I GAP romani (tra cui Carlo Salinari e Carla Capponi), in particolare, diventarono famosi per l’attentato di Via Rasella, in cui  persero la vita trentatré soldati tedeschi, e che causò la rappresaglia nazista con l’eccidio delle Fosse Ardeatine. L’immaginario della sinistra dell’epoca era fortemente pervaso da un’idea patriottica che era tanto distante dallo sciovinismo nazionalista, quanto lontano dalle influenze di orbita occidentale. La storiografia comunista ha definito la Resistenza come il “Secondo Risorgimento” per il suo forte contenuto simbolico e per la necessità di dare una fisionomia autonoma alla lotta di indipendenza nazionale che, in un paese diviso e colto dall’imminente sconfitta nella seconda guerra mondiale, non poteva non essere la base fondamentale di riscatto nazionale dopo il ventennio e contro l’idea di Patria che veniva veicolata dal fascismo. Le riluttanze ideologiche, tuttavia nelle file del PCI, rispetto alla rievocazione del termine patriottismo nelle unità partigiane non mancarono, infatti come ebbe a dire la partigiana Carla Capponi del reparto “Carlo Pisacane”: “Quando il partito ci diede il nome GAP, qualcuno di noi chiese che “gruppi di azione patriottica” venisse cambiato in “gruppi di azione partigiana”. Era una forma di settarismo. Quel patriottica ci sembrava nazionalismo, volevamo una definizione più di classe, più rivoluzionaria. Però ci convincemmo: la nostra era una guerra di liberazione nazionale, e la combattevano tutti. Era una riaffermazione del vero patriottismo, dell’unità popolare”. A fronte di alcune resistenze di ordine psicologico/ideologico, d’altro canto era prevalente una impostazione che riteneva indispensabile rivendicare la difesa della patria e un concetto progressivo di patriottismo come elemento di sodalizio nazionale delle forze social-comuniste. Non solo Nenni, dunque, ma anche protagonisti assoluti della Resistenza come Palmiro Togliatti, Lelio Basso, Concetto Marchesi e in particolare Pietro Secchia facevano propria l’idea patriottica di liberazione nazionale contro le forze reazionarie, con il preciso intento di sottolineare le differenze con il nazionalismo aggressivo e di rimarcare la complementarietà tra il sentimento nazionale e l’internazionalismo.

L’idea di emancipazione dei popoli e di indipendenza nazionale, d’altronde, promanavano già dalle tesi leniniste sulla questione coloniale, in cui si asseriva la necessità di sostenere tutti i movimenti di indipendenza nazionale contro il giogo coloniale delle forze imperialiste, e dalle idee sostenute da Friedrich Engels secondo cui l’indipendenza nazionale era la “condicio sine qua non” dell’internazionalismo socialista e della risoluzione in chiave socialista di ogni questione interna. La visione social-comunista di indipendenza nazionale, al netto delle possibili accuse di retorica propagandistica, si nutriva in effetti di un’idea di internazionalismo proletario visto come elemento ideologico di contrapposizione al nazionalismo e al cosmopolitismo borghese. Il socialista Lelio Basso, nell’ambito del cosiddetto Tribunale Russell (tribunale internazionale istituito al fine di svolgere inchieste relative ai crimini di guerra ) mise in evidenza il tema sottolineando che in assenza di indipendenza economica di fatto è annullata l’indipendenza politica di un paese e che in assenza di una politica economica indipendente dall’influenza dei grandi complessi multinazionali la vita economica e sociale di un paese è irrimediabilmente compromessa e sacrificata sull’altare degli interessi economici dei “patrioti del loro portafoglio” come ebbe a dire Togliatti con riferimento ai cartelli internazionali. Il patriottismo declinato in senso difensivo, come rivendicazione di possesso delle proprie risorse produttive, come esplicitazione della capacità di autodeterminazione dei popoli, come applicazione dell’internazionalismo e quindi come espressione delle particolarità e delle tradizioni di ciascun popolo e come difesa dalle aggressioni imperialiste, fu senza dubbio la linea guida dei partiti socialisti e comunisti che presero parte alla lotta contro l’hitlerismo e la RSI e, benché con alcune differenze dottrinarie, fu il lume ispiratore di altre formazione partigiane, come le Brigate Mazzini, che rispondevano al Partito Repubblicano e a “Giustizia e libertà” in modo prevalente. Il partigiano siciliano, Pompeo Colajanni, nome di battaglia “Nicola Barbato” descrive il legame sentimentale tra Resistenza, Fasci siciliani dei lavoratori e Risorgimento siciliano in questi termini: “Portai il nome di Nicola Barbato nel fuoco della lotta liberatrice perché essa costituiva un tramite tra la Sicilia e la Nazione in lotta per la libertà, tra il Risorgimento e la Resistenza collegati dal grande moto popolare dei fasci dei lavoratori non solo cronologicamente.”

«I partigiani del Sud vengono da lotte antiche, sono i nipoti dei “picciotti” e gli eredi dei La Masa, e dei Corrao […] dei carbonari e dei giacobini della repubblica partenopea, eredi, ma anche vendicatori degli uomini del glorioso gennaio 1848, delle squadre contadine poi deluse e tradite dalla conquista regia dei fasci siciliani, che posero in termini moderni l’antica rivendicazione dei vespri: “buon governo e libertà”.

Nelle parole di Colajanni riecheggia il riferimento al Risorgimento siciliano e ai suoi protagonisti: il generale La Masa e Giovanni Corrao furono non solo protagonisti assoluti delle vicende siciliane del ’48, ma ebbero un ruolo fondamentale per il successo della spedizione dei mille e nella influenza politica delle masse. Giovanni Corrao, in particolare, era un popolano carismatico di notevoli doti militari che seguì Garibaldi sia nel 1860 che nel ’62 in occasione della sventurata spedizione dell’Aspromonte che, presentandosi al grido “O Roma o morte!”, venne frenata dall’esercito piemontese. In questa occasione, il Corrao aveva rinunciato alla divisa da colonnello dell’esercito piemontese per la sua avversione nei confronti delle politiche sabaude nei confronti della Sicilia e per assecondare la sua indole da democratico, radicale e repubblicano che non poteva rimanere sorda alla nuova chiamata alle armi del generale nizzardo per la liberazione di Roma dal Papa e dai francesi. Dopo il fallimento della spedizione garibaldina, Corrao tornò a Palermo dove mantenne attivi 400 dei suoi “picciotti” che l’avevano seguito sull’Aspromonte. Le sue intenzioni di ritorno in armi furono esplicitate in una lettera a Crispi dove scrisse che era pronto ad entrare in azione nel caso in cui “Garibaldi e i suoi si mettessero sul banco per essere processati”. Tuttavia, la sua coerenza ideologica, la sua tenuta morale nonché la sua capacità carismatica d’influenza sugli ambienti popolari e radicali, non potevano non essere invisi allo Stato sabaudo. Morì in un agguato nel 1863 e la documentazione relativa agli atti istruttori dell’inchiesta scomparve dagli archivi del Tribunale di Palermo, anche se secondo una tesi storiografica, supportata dalla testimonianza del compagno d’armi Edoardo Pantano, l’omicidio si dovette a una collusione tra la polizia e gli ambienti mafiosi che avevano colto perfettamente i rapporti di forza instauratosi dopo l’unificazione accomodandosi dalla parte governativa. Lo spirito laico-rivoluzionario del garibaldinismo di cui Corrao era uno dei massimi esponenti, ci testimonia l’origine risorgimentale della storia del patriottismo di sinistra che, tuttavia, venne ben presto rimpiazzato dal nazionalismo nascente dello Stato liberale e dalle missioni coloniali dell’ex repubblicano Francesco Crispi. Felice Cavallotti, poeta garibaldino e co-fondatore dell’estrema sinistra storica insieme ad Agostino Bertani, commenterà in questo modo il trasformismo di molti democratici: “Quando io parlo di democrazia, ossia del grande partito popolare che ebbe da Mazzini l’idea, da Garibaldi il metodo e dalla coscienza insorgente delle classi diseredate il sentimento dei bisogni nuovi, non mi occupo e non parlo della combriccola che ha trovato comodo aggrapparsi a quel nome per ammantare puerili ambizioni o per nascondere pudicamente connubi”.

Il rapporto di continuità simbolica ed ideologica tra i patrioti del Risorgimento e i partigiani della Resistenza fu un “leitmotiv” ricorrente tra i dirigenti e gli storici comunisti. In particolare con il costituente e senatore del PCI, Pietro Secchia il quale, oltre a mettere in evidenza la forte vocazione sociale dei protagonisti del Risorgimento, era altresì assertore di un patriottismo popolare contrapposto al nazionalismo borghese, e perciò, internazionalista: “Il nostro internazionalismo allarga e rafforza il sentimento nazionale perché unisce tutti i popoli che lottando per la pace lottano per conservare la loro libertà, la loro indipendenza o per conquistarla completamente.”[1]Tale impostazione venne ulteriormente ribadita da Togliatti che rivendicava il fatto che il terreno nazionale fosse la base per la lotta di emancipazione sociale e per la solidarietà internazionale tra i lavoratori. Se, dunque, i comunisti insistevano sul concetto di patriottismo accordato all’internazionalismo proletario, i socialisti d’altro canto rafforzavano l’idea del patriottismo come sinonimo della libertà dei popoli nella lotta sia contro il “cosmopolitismo borghese” sia contro il nazionalismo espansionista. Carlo Rosselli, antifascista e teorico del socialismo liberale e di un’idea socialistica non necessariamente imparentata col marxismo, nonché custode dell’idea mazziniana di patriottismo tendente all’umanità, era d’altro canto fervido oppositore del nazionalismo che aveva trasfigurato il Risorgimento e i suoi protagonisti per ragioni propagandistiche, rievocando un concetto originale di internazionalismo che “per esistere deve salire dal basso verso l’alto, farsi positivo, vivere prima nella personalità singola, nella classe, nella patria”[2]. La coesistenza di diverse anime del CLN nella lotta di liberazione nazionale contro il nazifascismo, naturalmente aveva dato luogo a rivalità e a tentativi di egemonizzazione dell’esperienza resistenziale in modo particolare dal Pci le cui brigate furono di fatto le più numerose e militarizzate. Il responsabile militare del Pci in Piemonte, Remo Scappini disse a tal proposito: “Senza esitazioni condurre immediatamente una lotta spietata contro i tedeschi e i fascisti […] facendo del nostro partito il fattore predominante nella lotta per la liberazione dell’Italia da tutti i nemici stranieri e nostrani, assicurando al partito e alla classe operaia un ruolo decisivo nel futuro riordinamento politico e sociale del paese.”[3]. Il patriottismo veniva dunque declinato in un’ottica difensiva, ovvero di difesa delle tradizioni popolari e del lavoro, dall’idea amorfa di espansione del dominio imperialista e dalle corporazioni internazionali le quali, come disse il presidente cileno Salvador Allende nel 1972, “per le loro attività non rispondono a nessun governo e non sono sottoposte al controllo di nessun Parlamento e di nessuna istituzione che rappresenti l’interesse collettivo”.

Il patriottismo nella sua versione democratica  e nelle sue applicazioni eterogenee, quindi, si presentava non solo come propulsore necessario per un sentimento collettivo di aspirazione alla libertà nazionale contro il nazifascismo, ma come rivendicazione di conflitto contro gli squilibri di potere prodotti dalla prevaricazione degli interessi monopolistici rispetto agli interessi della collettività. Dopo il ‘43, infatti, le attenzioni dell’opposizione social-comunista si concentrarono sui nuovi assetti geopolitici che vedevano protagoniste le forza anglo-americane interessate a fomentare tanto le spinte indipendentiste della Sicilia a seguito dello sbarco, quanto la “normalizzazione” dell’Italia all’interno dei nuovi disegni di egemonizzazione strategica dell’Europa in funzione antisovietica. Come sostiene lo storico Nicola Tranfaglia infatti: «Gli obiettivi immediati delle forze alleate in Sicilia furono dunque: a) mantenere l’ordine conservando nello stesso tempo buoni rapporti con la popolazione; b) ripristinare un tessuto sociale affidabile e conforme agli interessi anglo-americani, come si venivano delineando nel quadro strategico internazionale; c) stroncare le forze di sinistra prima di un loro troppo profondo radicamento sociale». A testimonianza di ciò, nel 1944, Girolamo Li Causi, partigiano e primo segretario del PCI siciliano, tenne un comizio a Villalba dove il dirigente comunista denunciò apertamente la funzione parassitaria dei gabellotti e la rete di connessione mafia-latifondo a difesa delle strutture agrarie preesistenti alla riforma del 1950 apertamente ostacolata dai settori conservatori dell’amministrazione americana. In tale occasione, il capomafia Calogero Vizzini si presentò con un bastone in mano al centro di Piazza Duomo dove si teneva il comizio con la presenza di un presidio di mafiosi davanti la sezione della Democrazia cristiana il cui segretario era Beniamino Farina nipote di Vizzini. Dopo le parole del dirigente comunista, si scatenò un agguato in cui lo stesso Li Causi rimase ferito al ginocchio da un colpo di pistola.

Girolamo Li Causi

Un altro partigiano siciliano delle Brigate Garibaldi, Placido Rizzotto, socialista, segretario della Camera del Lavoro di Corleone nonché dirigente delle lotte contadine contro il latifondo e le mafie, venne assassinato da un gruppo di mafiosi guidati da Luciano Liggio la sera del 10 Marzo 1948. Delitto che si inserisce nel mezzo di altri due assassini a danno del mezzadro socialista Epifanio Li Puma e del segretario della Camera del Lavoro di Camporeale Calogero Cangelosi.

Placido Rizzotto

In Sicilia, dunque, la “rivoluzione” era strettamente connessa alla risoluzione della questione meridionale e al superamento della tradizionale alleanza tra mafiosi gabellotti e aristocrazia latifondista che, di fatto, impedirono la modernizzazione democratica della Sicilia con il ferreo contributo dello Stato sabaudo, come avvenne in occasione della repressione dei fasci siciliani dei lavoratori nel 1894 già rievocati dal partigiano Colajanni che decise il nome di battaglia “Nicola Barbato” in onore di uno dei capi dei fasci siciliani. Se in Sicilia le lotte dei partigiani siciliani (Colajanni, Li Causi, Buttitta, ecc.) erano dirette a contrapporsi alle forze reazionarie-conservatrici nelle rivendicazioni contadine, in una visione complessiva dell’ordinamento Italiano, le forze progressive della Liberazione si ponevano come alfieri di una nuova costituzione sociale. L’attenzione dei costituenti del ’48, dunque, aveva ben inteso il monito espresso da Carlo Pisacane (“Che sia un Re, un Presidente, un Triumvirato a capo del governo, la schiavitù del popolo non cessa se non cambia costituzione sociale”) e il lavoro di rielaborazione etico-giuridica da essi espresso, fu focalizzato nell’obiettivo del superamento democratico delle preesistenti forme di Stato, e nel tentativo di coniugare l’uguaglianza sostanziale con i tradizionali diritti liberali.

Seppur con alterne fortune e coi limiti dell’esperienza Italiana, confinata entro i limiti di una sovranità incompiuta a causa dell’incombenza di organizzazioni internazionali (NATO e UE) che formalizzano l’istituzione di oligarchie economiche/politiche, sia attraverso le riforme elettorali-istituzionali, sia mediante politiche austeritarie/deflazionistiche, le vicende patriottiche dello “Stivale” ci consegnano un retaggio politico-ideologico tuttora valido e di universale applicazione in quelle guerre che sono asimmetriche per definizione: le guerre di liberazione. Nella febbrile ostentazione folkloristica “resistenziale” dei settori della sinistra liberal, ci si dimentica che la rinnovata dimensione democratica dello Stato sociale, poté realizzarsi solamente con l’idea fiduciosa di associazione tra lotta armata per l’indipendenza nazionale e rivendicazione economica e politica di massa, e non con la difesa astratta di principi formali o disapplicati. Se, dunque, il comunista siciliano, Concetto Marchesi, rievocava la sacralità della difesa della Patria, e la necessità di “costituire il popolo italiano”, sovviene spontanea la questione: in che misura i partiti di massa sono stati in grado di costituire il popolo italiano? In assenza di una risposta compiuta, è tuttavia ancora possibile la risposta positiva che Albert Camus riteneva implicita nella dimensione rivelatrice della rivolta: l’espressione di una frontiera dopo cui non è possibile stare sotto la sferza del padrone, una rivendicazione di integrità, una risposta combattente: «Una volta, e fu l’ultima al principio dell’estate, distribuirono trecento lire a ciascuno di noi. “Chi li manda questi soldi?” uno domandò. Il furiere rispose: “Non so, credo gli americani”. Quegli allora ribatté: “Non siamo al servizio degli americani”, e restituì i soldi. Alcuni lo imitarono.»[4]


[1] Discorso pronunciato a Foggia, il 30 novembre 1952, in occasione della campagna per il tesseramento e il reclutamento al partito, riportato in “Chi sono i comunisti. Partito e masse nella vita nazionale“, Mazzotta editore, 1977, p. 131

[2] Da «Giustizia e Libertà»: 18 gennaio 1935

[3] R. Scappini, “Considerazioni sulla situazione generale del Piemonte, 30 Settembre 1943“, in P. Secchia, “Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione“, cit., p. 122

[4] Angelo Del Boca, Dizionario del partigiano anonimo, “Storie della Resistenza”, Sellerio editore Palermo, cit., p. 59

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Economia Sport

Calcio: Super-League? “Created by the poor, stolen by the rich”

articolo di Pietro Salemi, Vice Presidente ESC

Il calcio è spesso specchio della nostra società. Se tutto è guidato da logiche di mercato e dalla massimizzazione dei profitti, non deve dunque stupire che anche il calcio abbia riprodotto, negli ultimi anni, una logica puramente aziendalistica. Non deve stupire neanche che in questo “gioco” del capitalismo predatorio, i grandi players globali legati a doppio filo a fondi speculativi e al mondo della finanza (nel calcio i “top club”), tendano a fagocitare le realtà di medie e piccole dimensioni, legate ancora ad una dimensione territorialmente circoscritta: anche nel calcio è in atto una sorta di lotta di classe dall’alto contro il basso. Diritti TV e sponsorizzazioni milionarie hanno acuito le disuguaglianze e i divari, rendendo, in buona sostanza, il pallone “meno rotondo”.

Infatti, se guardiamo all’albo d’oro della Serie A italiana, è facile scorgere un graduale processo di oligopolizzazione (invero, tendente negli ultimi anni ad un monopolio coincidente con quel gruppo di potere -non solo calcistico- chiamato Juventus sui campi da gioco ed EXOR sui panni da gioco della finanza). Raffrontando l’albo d’oro della Serie A nel periodo corrispondente al cd. “trentennio glorioso” (1945-1975), in cui il compromesso keynesiano rese possibile una graduale attuazione dei principi inscritti nella costituzione Repubblica, si scopre che in quel periodo lo scudetto fu vinto da ben 8 diverse squadre (Juventus 9 titoli, Milan e Inter 6, Fiorentina 2, Lazio, Cagliari e Bologna 1), corrispondenti a ben 6 città italiane, collocate, pur in maniera disomogenea, lungo tutto lo stivale. All’opposto, nelle ultime 3 decadi di pallone corrispondenti alla cd. “Seconda Repubblica”, in cui il compromessa keynesiano e l’economia mista furono sostituiti da una visione irenica della globalizzazione di matrice neoliberista, l’albo d’oro della Serie A accoglie solo 5 squadre: Juventus 14 titoli, Milan 7, Inter 5, Roma e Lazio 1. Le città che hanno potuto festeggiare uno scudetto si riducono a 3: Torino, Milano e Roma.

D’altronde, il drenaggio dal basso verso l’alto di potere calcistico è perfettamente rispecchiato dallo storico dei fatturati dei principali club europei. Nella comparazione ci aiuta la “Deloitte Football Money League”, ossi la classifica di club calcistici ordinata in base ai ricavi operativi. I dati di tale classifica sono disponibili dalla stagione 2004-2005. Al tempo la stessa vedeva in cima il Real Madrid (275,7 milioni di Euro), seguita da Manchester United (246,4 milioni di Euro) e Milan (234 milioni). Nella stagione in questione il divario tra il Real in prima posizione e la Lazio (che chiude la classifica in ventesima posizione con 83,1 milioni) è di “soli” 192,6 milioni di Euro. Guardando all’edizione 2018-2019 dell’entusiasmante “Deloitte Football Money League” si osserva come non solo i fatturati sono cresciuti in valore assoluto, ma è anche aumentato a dismisura il divario tra i club: la classifica è guidata dal Barcellona con 840,8 miliardi di Euro, seguita da Real Madrid (757.3) e Manchester United (711,5 milioni di Euro), e chiusa dal Napoli con 207,4 milioni di Euro. Il divario tra prima e ventesima ammonta, secondo la più recente classifica, a 633,4 milioni di Euro. Inutile argomentare oltre circa la sperequazione che ciò implica rispetto ai club di medie dimensioni o alle cd. “provinciali”.

In effetti, non serviva neanche questa dettagliata analisi per comprendere come il mondo del calcio, soprattutto nella sua evoluzione degli ultimi anni, era già diventato un gigantesco business in cui la dimensione umana, la sana competizione sportiva, la genuina passione dei tifosi sono divenuti ormai elementi accessori di contorno. Il calcio a stadi vuoti a cui ci siamo abituati durante la pandemia, non è che la conferma.

Tuttavia, il lancio di questa nuova super-Lega tra i top club più ricchi d’Europa segna uno scarto, un’accelerazione capace di segnare un prima e un dopo.

In questo “dopo”, non c’è alcuno spazio per la dimensione dei club medi o piccoli, per il calcio di provincia, per modelli virtuosi di crescita all’insegna della valorizzazione del patrimonio calcistico offerto dal proprio territorio di riferimento. L’ex ‘gioco più bello del mondo’ è ridotto a muscolare espressione economico-finanziaria: si parla  di un volume di affari pari a 7-8 miliardi di Euro l’anno da suddividere tra i 20 club partecipanti. E’ così che il colosso finanziario americano JP Morgan mette sul piatto circa 5 miliardi di dollari a copertura dell’iniziativa. Per chi non la conoscesse, JP Morgan risulta essere una delle principali banche d’affari responsabili di sottostimato, a proprio beneficio, i rischi che portarono crisi globale 2007-2008[1], generata dai derivati tossici e dai mutui subprime.

I club fondatori (15, secondo le previsioni) riceveranno già all’atto di adesione circa 1/2 miliardo di Euro e giocheranno questa competizione privata di diritto (rectius, di privilegio), a prescindere da qualsivoglia rendimento sportivo.

Vietati gli exploit degli outsider e i “miracoli sportivi”: niente più Leicester, Atalanta o Palermo dei tempi d’oro, o per andare più in là con gli anni, niente Cagliari di Riva, Verona di Bagnoli, o Samp di Vialli e Mancini. I campionati nazionali diventerebbero passerelle svuotate di significato e utilizzati per rodaggio, a mo’ di competizione per squadre B.

Gli stipendi dei calciatori della Super-lega raggiungeranno verosimilmente livelli inimmaginabili e incomparabili con le cifre di oggi (già folli). Le 15 squadre fondatrici si assicurerebbero così una posizione di esclusività e non contendibilità, anche rispetto ai 5 club che si qualificherebbero dalle competizioni nazionali: gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili, diceva una nota canzone di qualche anno fa.

Nonostante, questo progetto dei top club (che sembra già esecutivo) venga semplicisticamente accostato al modello statunitense dell’NBA, neanche nella patria del neoliberismo si arriva a tanto: sia pure per garantire spettacolo e competitività, nel caso NBA è fissato un salary cap e le modalità con cui si svolge il draft annuale garantiscono un certo effetto compensativo.

Ora, è anche ben possibile che lo strappo di queste ora sia stato segnato per strategia negoziale da parte dei top club al fine di ottenere una fetta di torta più ampia nella distribuzione dei budget e dei diritti TV da parte delle istituzioni del calcio. E’ anche plausibile che lo strappo venga ricucito per via diplomatica, procedendo ad ulteriori concessioni di favore rispetto agli interessi delle big. Tuttavia, ciò porterebbe, ancora una volta, ad un compromesso al ribasso rispetto ai valori dello sport e fair play: le pari condizioni di partenza e la contendibilità delle competizioni ne risulterebbero a fortiori pregiudicate da un ulteriore dose di doping finanziario.

Ciò offre anche l’occasione per riflettere sull’esempio che il calcio offre anche per le nostre società: la forbice delle disuguaglianze si amplia? Bene, invece di lavorare in senso perequativo, formalizziamo e istituzionalizziamo tali disuguaglianze in privilegi di diritto, sembrerebbero dire Florentino Pérez e soci. [Un po’ lo stesso retropensiero di chi, per curare i Mali della democrazia, tra il serio e il faceto, propone l’abolizione del suffragio universale]. Da questo punto di vista, la proposta della Super-League calcistica non rappresenta che la testa di ariete di un neoliberismo sempre più selvaggio, contraddistinto da delocalizzazione, finanziarizzazione e oligopolizzazione.

I soliti fedeli del pensiero unico e della Chiesa Mercatista, per non bestemmiare il dio denaro, faranno presto a dire che hanno tutto il diritto di farlo, che la grande qualità dello spettacolo offerto guiderà “come una mano invisibile” i tifosi verso una nuova normalità calcistica, che è giusto che, come ogni società di capitale, anche i Top club perseguano i propri interessi e la massimizzazione dei profitti.

Non essendo parrochiano della stessa chiesa, mi permetto di sostenere una visione forse romantica. Dovremmo intendere l’elenco dei club fondatori della Super-lega come una lista di proscrizione e procedere alla radiazione di questi club e dei loro dirigenti da tutte le competizioni, nazionali e internazionali, di ogni ordine e grado, per insanabile incompatibilità con i valori dello Sport.

Agli attuali miti del pallone multimilionario, mi piace contrapporre le leggende umane del calcio di provincia, come, ad esempio, Ezio Vendrame, calciatore, scrittore e poeta, genio e sregolatezza. Diversi sono gli aneddoti legati al “George Best italiano”, ex del Padova e della Lanerossi Vincenza. Particolarmente significativo nell’offrire la diversa dimensione di quel calcio anni ‘70, ancora a misura d’uomo, riguarda il tentativo da parte dell’Udinese (sua ex squadra) di comprare per 7 milioni di Lire una sua cattiva prestazione in Udinese-Padova. Il Padova, in cui militava Vendrame all’epoca, navigava economicamente in cattive acque e in quella stagione pagava i suoi giocatori al minimo sindacale di 22.000 Lire, così Vendrame inizialmente accettò la ghiotta proposta di vendersi la partita per una così lauta cifra (“avevo giocato male molte altre volte… e gratis”, racconterà anni dopo in una sua autobiografia ‘Se mi mandi in tribuna, godo’). Tuttavia, una volta entrato in campo, fu a tal punto irritato dai fischi ricevuti all’ingresso in campo dal suo vecchio pubblico friulano da cambiare idea, decidendo di “punire quel pubblico di ingrati”: Vendrame condusse il Padova alla vittoria per 3-2 con una sua doppietta di cui leggendario fu il secondo gol, segnato direttamente da calcio d’angolo: prima di tirare fece il gesto di soffiarsi il naso sulla bandierina del corner e indicò a gesti ai tifosi avversari che da lì avrebbe segnato direttamente, come puntualmente accadde.

Parafrasando Vendrame, “fanculo ai vostri milioni, viva le 22.000 lire”.


[1] https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/02/07/usa-new-york-times-jp-morgan-sapeva-da-tempo-dei-rischi-sui-mutui/492802/

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Sociologia Politica

Sovranismo, Patria e Marxismo

articolo di Gery Bavetta, socio ESC

Quante volte abbiamo sentito dire che i concetti di Nazione e quello di Patria, la difesa dello Stato sovrano e dei confini, così come la salvaguardia della cultura e dell’identità di un popolo siano valori di destra?
Tale luogo comune assai radicato, in realtà poco o nulla ha che vedere con la teoria marxista-leninista, improntata anch’essa alla sovranità dello Stato,orientata parimente verso gli ideali di patria, lavoro, di cultura e di identità del popolo.
Chi sostiene il contrario a mio avviso, non ha mai aperto un libro di Marx o di Lenin, che spiegano ben altra cosa, ovvero che quando si parla di tutto ciò bisogna ragionare soprattutto in termini di classe sociale, capire cioè quale sia la classe sociale dominante nel momento in cui si parla di patria, nazione, popolo e sovranità, ovvero chi controlla politicamente il potere statale: la borghesia o il proletariato?

Spesso la classe sociale borghese fa leva sul nazionalismo e sul patriottismo per ricompattare le proprie forze nei momenti di crisi, ma lo fa solo ed esclusivamente nel proprio interesse di classe.

Stalin in  “Il Marxismo e la questione nazionale” uno dei suoi maggiori e importanti testi teorici fa riferimento a quello di cui stiamo parlando: “Stretta da tutte le parti, la borghesia della nazione oppressa si mette naturalmente in movimento. Essa fa appello ai fratelli del basso popolo e incomincia ad inneggiare alla «patria spacciando la propria causa particolare come causa di tutto il popolo. Essa recluta il suo esercito di compatrioti, nell’interesse della… patria. E il basso popolo non resta sempre sordo agli appelli e si raccoglie intorno alla bandiera della borghesia: le persecuzioni contro la borghesia opprimono anche il popolo e suscitano il suo malcontento. Così incomincia il movimento nazionale. La forza del movimento nazionale dipende dalla misura in cui vi partecipano i larghi strati della nazione, il proletariato e i contadini. Il proletariato si metterà o no sotto la bandiera del nazionalismo borghese, secondo il grado di sviluppo delle contraddizioni di classe, secondo la sua coscienza e organizzazione. Un proletariato cosciente ha la propria bandiera provata, e non ha motivo di mettersi sotto la bandiera della borghesia”.

Quello citato da Stalin, sarà ovviamente un movimento borghese affabulatore e al tempo stesso ingannatore delle masse lavoratrici, poiché non mira ai loro interessi e alle loro rivendicazioni, ma usa il nazionalismo per unire il proletariato sotto la bandiera della borghesia.
Al ricorrere delle predette condizioni, al di là dei proclami, non si perseguirà l’interesse di tutto il popolo ma quello esclusivo di una sola classe sociale, la grande borghesia, che farà leva sui sentimenti comuni per portare poi avanti, però, i soli propri obiettivi.

La lotta di classe deve necessariamente essere una lotta nazionale, unendo i proletari in un partito politico. Sebbene non lo sia per il contenuto, la forma che riveste la lotta dei proletari contro la borghesia è all’inizio nazionale. Il proletariato di ciascun paese deve sbrigarsela innanzitutto con la sua propria borghesia.(Marx ed Engels; Manifesto del Partito Comunista).

Ma per meglio comprendere l’importanza di uno “Stato sovrano” oggi, bisogna prima spiegare cosa sia lo “Stato” nell’analisi marxista-leninista.
Lo Stato per Marx non è altro che l’organo del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe sull’altra.
Fermiamoci un attimo ora; proviamo a capire cosa accade invece oggi nello scenario politico italiana.
I partiti di destra che in questa fase sono percepiti dall’elettorato come sovranisti e patriottici in Italia sono Fdl e con la leadership di Salvini (dopo l’abbandono almeno nei proclami ufficiali, delle vecchie aspirazioni secessioniste e le invettive contro il sud e i meridionali), parzialmente la Lega.
Entrambe le forze abusano di questi due termini, sovranismo e patria, mortificandoli finendoli per confinare a slogan, al fine di espandere il proprio consenso elettorale.

A un osservatore non superficiale però non potrà sfuggire come i loro, in realtà, non siano altro che “patriottismo” e “sovranismo” “di cartone: concetti cioè solo di facciata, legati più alla grande borghesia che non ai lavoratori italiani e ai ceti popolari, assai poco vicini alla difesa dei diritti sociali, di contro schierati dalla parte del capitale italiano e straniero.

Non per niente se da una parte infatti, tali forze non fanno nulla per contrastare le grandi manovre di delocalizzazione delle grandi aziende italiane o anche il banale trasferimento all’estero delle loro sedi legali e fiscali (per ottenere significativi risparmi in termini di manodopera e sopratutto nel secondo caso, di tassazione), non preoccupandosi che in Italia però una massa significativa di persone rimanga senza lavoro; dall’altra, queste stesse forze politiche, permettono alle multinazionali straniere di operare in Italia, non rispettando i diritti dei lavoratori e usufruendo spesso di tassazioni irrisorie, con una conseguente perdita significativa di gettito fiscale per il nostro Paese.

E’ evidente che tali forze non possano seriamente definirsi sovraniste o patriottiche, quando nei fatti contribuiscono alla svendita della propria nazione agli interessi del capitale (italiano o straniero che sia) o di organismi sovranazionali che rispecchiano ormai gli interessi delle élite finanziarie come l’Unione Europea o interessi egemonici militari e geopolitici di un ristretto novero di nazioni capeggiati dagli Usa come accade per la Nato.

Ipotizziamo ora che ci sia un partito di destra veramente sovranista, che anziché tutelare il capitale straniero tuteli quello italiano, la situazione anche in quel caso però cambierebbe di poco, perché i lavoratori sarebbero sempre e comunque schiacciati dalle stesse logiche borghesi. Se la proprietà di Amazon anziché essere statunitense fosse italiana, cambierebbe forse la situazione dei suoi dipendenti in Italia? Assai improbabile: il problema rimane sempre legato ai rapporti di dominio e di proprietà di una classe sociale sull’altra, a prescindere dalla nazionalità.

Il tema dello stato sovrano rimane perciò legato alla classe sociale che lo guida, ossia la borghesia o il proletariato. Ovvero, Elkan/Agnelli, oppure la compagine lavorativa della Fiat, Benetton o i quadri, gli ingegneri e gli operai delle sue aziende.
Ovviamente in questa fase storica è ancora il grande capitalismo a far da guida e a star vincendo il conflitto di classe, come disse W. Buffet , uno degli uomini più ricchi al mondo: “è in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo”.

La direzione politica di una o dell’altra classe sarà dunque fondamentale nella direzione di uno stato sovrano, socialista o capitalista.
Ora, la parola sovranità nazionale, per ritornare al concetto, dovrebbe essere una delle parole chiave di un partito comunista.
Quando un partito comunista disserta di sovranità nazionale, infatti, lo fa perché rivendica il ruolo dirigente, politico e rivoluzionario della classe lavoratrice che deve porsi politicamente alla guida dello stato sovrano per fare il socialismo: non è possibile fare il socialismo senza essere sovrani delle proprie politiche.

La differenza tra un sovranismo di destra e un sovranismo di sinistra sta dunque proprio nella classe sociale che ne guida i processi di costituzione.
Quando la destra si rifà alla sovranità nazionale, in realtà sta servendo un potere politico ed economico dominato dalla ricca borghesia nazionale ( o nazionalizzata sotto falsa veste, perché il capitale è oggi nei fatti assai internazionalizzato e globalizzato) e lo fa a discapito della classe lavoratrice nazionale che invece continuerà a rimanere sfruttata.
Marx ha affermato che: lo Stato non è un elemento neutrale rispetto alla lotta di classe, ma sarà lo strumento di dominio con cui una classe al potere ne opprime un altra.

In definitiva non basta uno stato sovrano per fare il socialismo, ma è altresì vero che non è possibile fare il socialismo senza uno stato sovrano.

Lo “stato sovrano nazionale borghese” dove la direzione politica è determinata dai capitalisti, non ha nulla a che vedere con lo “stato sovrano nazionale proletario” dove la direzione politica è dettata dalla classe lavoratrice.

Lanciando uno sguardo alla politica internazionale, quando osserviamo la Corea del Nord che esalta se stessa, in realtà sta esaltando lo Stato sovrano socialista e ciò non ha nulla a che vedere con i nazionalismi di destra, che sono ben altra cosa e che guardano a un processo di sfruttamento dove la borghesia è al potere. 

La prassi politica interna alla Corea del Nord seppur differente da quella che fu dell’Unione Sovietica, comunque non dovrà essere vista nell’ottica di una deviazione o di una visione alterata del marxismo-leninismo o di quei principi, bensì ne è la sua più naturale essenza, cioè quella di adattare la teoria rivoluzionaria alla prassi,ossia all’azione, esaltando in maniera positiva la difesa della patria dall’imperialismo e quello della propria cultura e dei diritti dei lavoratori a difesa dalla globalizzazione, salvaguardando i propri confini dal capitalismo e dalle ingerenze straniere: questo fa uno stato sovrano socialista.

Cuba per cambiare esempio, è uno stato sovrano nazionale, così come lo furono l’Unione Sovietica e i paesi del Socialismo reale.

All’interno di queste nazioni si tutelavano innanzitutto i diritti dei lavoratori dal capitalismo, ma si difendevano anche e sopratutto così come la propria lingua, la propria storia e cultura, ma contestualmente anche quelle delle proprie minoranze etniche e linguistiche .
Se osserviamo i processi storici dalla rivoluzione d’ottobre in avanti, abbiamo una serie di stati sovrani nazionali, che mirano a costruire il socialismo dentro la propria nazione e che puntano nella lotta contro il capitalismo su scala mondiale, unendosi e formando una collaborazione tra “stati sovrani”, che viene chiamato internazionalismo.

L’internazionalismo non ha nulla a che vedere con la globalizzazione, sono due concetti netti e contrapposti. L’internazionalismo punta infatti al rapporto di collaborazione tra nazioni, per cui è un rapporto “inter-nazionale”, che non può esistere appunto senza gli stati sovrani nazionali socialisti. L’internazionalismo comunista ambisce quindi ad avere un mondo unito in stati sovrani nazionali sotto la direzione politica della classe lavoratrice; la globalizzazione economica attuale, invece, non è altro che la visione “apparente” di un mondo cosmopolita sotto la direzione dei capitalisti e della grande finanza internazionale, che riducono tutto a merce e profitto, distruggendo il lavoro e i diritti sociali.

La conquista del potere politico per i lavoratori, attraverso il controllo dello Stato, in definitica è una condizione fondamentale e necessaria dentro un processo rivoluzionario che miri a costruire il socialismo.

Patriottismo e sovranismo sono, concludendo, concetti organici all’ideologia comunista: lasciare queste importanti questioni alle forze politiche borghesi significa non essere rivoluzionari, né tanto meno essere comunisti.

Come disse il CHE: “Patria o Muerte !!!”

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Economia Storia

Maastricht e tutto il resto

Articolo di Wynne Godley, ottobre 1992

segnalato da Valerio Macagnone, segretario ESC (2020-2021)

Moltissime persone in Europa si sono rese conto improvvisamente di quanto il Trattato di Maastricht potrebbe interessare direttamente le loro vite e quanto poco ne conoscano i contenuti. La loro legittima ansia ha spinto Jacques Delors a fare una dichiarazione secondo la quale il punto di vista della gente comune, in futuro, dovrebbe essere consultato. Avrebbe potuto pensarci prima.
Sebbene io sostenga il passaggio verso l’integrazione politica in Europa, credo che le proposte di Maastricht, così come sono, presentino gravi carenze, e inoltre credo che la discussione pubblica di queste proposte sia stata curiosamente, se non quasi completamente, limitata. Con il rifiuto danese, il quasi rifiuto della Francia, e la sopravvivenza del meccanismo di cambio messa in questione a causa dei saccheggi da parte dei mercati valutari, credo sia giunto il momento di fare alcune riflessioni.

L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i Paesi della CE dovrebbero muoversi verso l’unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma qual è il resto della politica economica da approntare? Poiché il trattato non propone alcuna nuova istituzione eccetto quella di una banca europea, chi sponsorizza tale trattato probabilmente crede che non occorra fare di più. Ma questo sarebbe corretto solamente nel caso in cui le economie moderne fossero dei sistemi soggetti ad una auto-regolazione i quali, di conseguenza, non avrebbero assolutamente bisogno di alcuna gestione.
Sono spinto a concludere che tale punto di vista – cioè che le economie siano organismi che si auto-regolano e che quindi mai e in nessun caso ci sia la necessità di una gestione di quest’ultime – ha effettivamente determinato la modalità con la quale è stato inquadrato il Trattato di Maastricht. Stiamo parlando della visione estrema ed esplicita, che da qualche tempo costituisce la “saggezza convenzionale” in Europa (ma non negli Stati Uniti o in Giappone), per cui i governi non siano in grado di raggiungere, e quindi non dovrebbero cercare di raggiungere, nessuno dei tradizionali obiettivi di sviluppo di una politica economica, come ad esempio la crescita e la piena occupazione. Tutto ciò che si può legittimamente fare, secondo quel punto di vista, è controllare l’offerta della moneta e il pareggio del bilancio. C’è voluto un gruppo in gran parte composto da banchieri (il Comitato Delors), per giungere alla conclusione che una banca centrale indipendente è l’unica istituzione sovranazionale necessaria per gestire una Europa integrata e sovranazionale.
Ma c’è molto di più. Bisognerebbe sottolineare fin da subito che la creazione di una moneta unica in Europa, a queste condizioni, porrebbe fine alle sovranità dei suoi Stati membri e quindi al loro legittimo diritto di agire indipendentemente sulle rispettive questioni principali del proprio Paese.
Come l’onorevole Tim Congdon ha sostenuto in modo molto convincente, il potere di emettere la propria moneta, attraverso la propria banca centrale, è ciò che principalmente definisce l’indipendenza di una nazione. Se un Paese rinuncia o perde questo potere, acquisisce lo status di un ente locale o colonia. Quest’ultimi, ovviamente, non subiscono una svalutazione ma non hanno, allo stesso tempo, il potere di finanziare il proprio disavanzo attraverso la creazione di denaro, devono rispettare la regolamentazione imposta da un organo centrale per ottenere altri metodi di finanziamento e non possono cambiare i tassi di interesse. Dato che gli enti locali non sono, quindi, in possesso di nessuno degli strumenti di politica macroeconomica, la loro scelta politica è limitata a questioni minori e puramente enfatiche. Penso che quando Jacques Delors pone enfasi sul principio di ‘sussidiarietà’, in realtà vuol dire che ci sarà consentito prendere decisioni in merito a un “maggior numero” di questioni relativamente importanti, più di quanto avremmo mai potuto immaginare. Forse ci permetterà di avere i “cetrioli con i capelli ricci”, dopo tutto. Come saremo fortunati!
Quel governo dovrebbe anche determinare il punto fino a dove qualsiasi “buco” tra la spesa e la tassazione è finanziato facendo intervenire la banca centrale e quanto verrebbe finanziato mediante un prestito e a quali condizioni. Come i governi decidono circa le sopracitate (e altre) questioni e la qualità della leadership che possono implementare, renderà possibile, in interazione con le decisioni degli individui, delle imprese e degli stranieri, determinare per esempio: i tassi di interesse, il tasso di cambio, il tasso di inflazione, il tasso di crescita e il tasso di disoccupazione. Il governo centrale di quello Stato sovrano potrà anche profondamente influenzare la distribuzione del reddito e della ricchezza, non solo tra individui ma anche tra intere regioni e assistere, si spera, quelle colpite dai cambiamenti strutturali.
Semplificare il discorso quando parliamo dell’uso dei suddetti strumenti è quasi impossibile e questo per via di tutte loro inter-dipendenze atte a promuovere il benessere di una nazione e a proteggerlo dagli attacchi di varia natura a cui sarà inevitabilmente sottoposto. Avrebbe difatti solo un significato limitato, per esempio, dire che i bilanci devono essere sempre in pareggio. Un bilancio in pareggio, per esempio con la  spesa e la tassazione entrambe al 40 per cento del PIL, avrebbe un impatto completamente diverso (e molto più espansivo) di un bilancio in pareggio al 10 per cento del PIL. Per farsi un’idea della complessità e dell’importanza delle decisioni macroeconomiche di un governo, uno potrebbe ad esempio domandarsi quale sia la proposta più adeguata circa la politica fiscale, monetaria e dei tassi di scambio di un Paese in procinto di produrre una grande quantità di petrolio e che deve confrontarsi con una quadruplicazione del prezzo del petrolio stesso. Sarebbe giusto non fare nulla? E non bisognerebbe mai dimenticare che nei periodi di crisi profonda, potrebbe anche essere adeguato per un governo centrale commettere un peccato contro lo Spirito Santo di tutte le banche centrali e invocare la ‘tassa da inflazione’ – deliberatamente appropriandosi di risorse riducendo, attraverso l’inflazione, il valore reale della ricchezza monetaria di una nazione. È stato, dopo tutto, per mezzo del tasso d’inflazione che Keynes propose di pagare la guerra.
Dico questo non per suggerire che la sovranità non dovrebbe essere ceduta per la nobile causa dell’integrazione europea, ma per affermare che se tutte le funzioni precedentemente descritte sono estranee ai singoli governi queste funzioni devono semplicemente essere assunte da qualche altra autorità. L’incredibile lacuna nel programma di Maastricht è che, sì contiene un progetto per l’istituzione e il modus operandi di una banca centrale indipendente ma, non esiste alcun progetto analogo, in termini comunitari, di un governo centrale. Eppure, ci dovrebbe semplicemente essere un sistema di istituzioni che soddisfi tutte quelle funzioni a livello comunitario e che sono attualmente esercitate dai governi centrali dei singoli Paesi membri.
La controparte per la rinuncia alla sovranità dovrebbe essere che le nazioni componenti dell’UE si costituiscano in una federazione a cui è affidata la loro sovranità. E il sistema federale, o di governo, come sarebbe meglio denominarlo, eserciterebbe tutte quelle funzioni, che ho brevemente descritto sopra, in relazione ai suoi Stati membri e con il mondo esterno.
Consideriamo due esempi importanti di ciò che un governo federale, responsabile di un bilancio federale, dovrebbe fare.
I Paesi europei sono attualmente bloccati in una grave recessione. Allo stato attuale, se consideriamo anche che le economie di Stati Uniti e Giappone stanno anch’esse vacillando, è molto poco chiaro quando avrà luogo un significativo recupero. Le responsabilità politiche di questa situazione stanno diventando evidenti. Tuttavia, l’interdipendenza delle economie europee è già così grande che nessun singolo Paese, con l’eccezione della Germania, si sente in grado di perseguire politiche espansive per proprio conto, perché ogni Paese che cercasse di espandersi dovrà presto confrontarsi con i vincoli di un bilancio dei pagamenti. La situazione attuale sta gridando ad alta voce per un rilancio economico coordinato, ma non esistono né le istituzioni, né un quadro di pensiero concordato che porterebbe a questo risultato, ovviamente, desiderabile. Si deve francamente riconoscere che se la depressione davvero volgesse al peggio – ad esempio, se il tasso di disoccupazione tornasse al 20-25 per cento degli anni Trenta – gli Stati membri dell’UE prima o poi eserciteranno il loro diritto sovrano di dichiarare il periodo di transizione verso un’integrazione, un disastro, e ricorreranno allo scambio reciproco di protezione e controlli – una economia di assedio, se vuoi. Ma questo equivarrebbe a un ritorno al periodo intercorso tra le due guerre.
Se ci fosse una vera unione economica e monetaria, dove il potere di agire in modo indipendente degli Stati membri fosse stato effettivamente abolito, una reflazione ‘coordinata’, di cui c’è così urgente bisogno ora, potrebbe solo essere intrapresa da un governo federale europeo. Senza tale governo, l’UEM impedirebbe un’azione efficace da parte dei singoli Paesi e non cercherebbe assolutamente di mettere a posto le cose.
Un altro ruolo importante che un governo centrale deve svolgere è quello di procurare una rete di sicurezza per il sostentamento delle regioni che si trovino in difficoltà a causa di problemi strutturali – a causa del declino di alcune industrie, per esempio, o a causa di qualche negativo cambiamento economico-demografico. Attualmente questo avviene nel corso naturale degli eventi, senza che nessuno se ne accorga, perché gli standard comuni dei servizi pubblici (per esempio, la sanità, l’istruzione, le pensioni e i sussidi per la disoccupazione) e un comune (si spera, progressivo) onere di tassazione sono entrambi generalmente istituiti da governi con sovranità monetaria. Di conseguenza, se una regione subisse un insolito grado di declino strutturale, il sistema fiscale genererebbe automaticamente i trasferimenti netti a favore di essa. In extremis, una regione che produrrebbe nulla non morirebbe di fame perché sarebbe titolare di pensioni, indennità di disoccupazione e il reddito dei dipendenti pubblici.

Ma cosa succederebbe, se un intero Paese – una potenziale ‘regione’, in una comunità completamente integrata – subisse una grave battuta d’arresto strutturale? Finché è uno Stato sovrano, potrebbe svalutare la propria moneta. Potrebbe quindi comunque implementare con successo politiche di piena occupazione se i cittadini accettassero il taglio necessario ai loro redditi reali. Con una unione economica e monetaria, questa strada sarebbe ovviamente sbarrata, e questa prospettiva sarebbe gravissima a meno che ci fosse la possibilità di adottare disposizioni federali di bilancio che abbiano una funzione redistributiva. Come è stato chiaramente riconosciuto nella relazione MacDougall, pubblicata nel 1977, ci deve essere un quid pro quo (controcambio) per abbandonare la possibilità di svalutare in termini di redistribuzione fiscale. Alcuni scrittori (come Samuel Brittan e Sir Douglas Hague) hanno fortemente suggerito che l’UEM, abolendo il problema della bilancia dei pagamenti nella sua forma attuale, risolverebbe davvero il problema, qualora esistesse, della persistente incapacità di competere con successo nei mercati mondiali. Ma, come il professor Martin Feldstein ha sottolineato in un importante articolo dell’Economist (13 giugno), questo argomento è alquanto pericoloso e sbagliato. Se un Paese o una regione non ha alcun potere di svalutare, e se questo Paese non è il beneficiario di un sistema di perequazione fiscale allora, un processo di declino cumulativo e terminale sarebbe inevitabile e condurrebbe, alla fine, all’emigrazione come unica alternativa alla povertà e fame. Sono d’accordo con la posizione di coloro (come Margaret Thatcher) che, di fronte a una perdita di sovranità, desiderano immediatamente scendere dal treno UEM (Unione Economica Monetaria). Simpatizzo anche con coloro che cercano l’integrazione europea ma, sotto la giurisdizione di una Costituzione federale, con un bilancio federale molto più grande di quello di un bilancio comunitario. Quello che trovo assolutamente sconcertante è la posizione di coloro che mirano a una unione economica e monetaria senza la creazione di nuove istituzioni politiche (a parte una nuova banca centrale), e che alzano con orrore le mani quando le parole ‘federale’ o ‘federalismo ‘ vengono pronunciate. Quest’ultima è la posizione attualmente adottata dal governo e dalla maggior parte di coloro che prendono parte alla discussione pubblica.


Fonte: Maastricht and All That di Wynne Godley articolo dell’ottobre 1992, Tradotto da Davide Provenzale

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Costituzione

Licenziamenti: la consulta dichiara incostituzionale la modifica dell’art. 18 della “Fornero”

Articolo di Valerio Macagnone, Segretario di ESC

La Corte Costituzionale è intervenuta con una recente pronuncia a dichiarare l’illegittimità della previsione normativa contenuta nell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, così come riformata dalla Legge Fornero (n. 90/2012). In particolare, la consulta ha rilevato l’incostituzionalità per violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, della parte della norma in cui si prevede una differente disciplina in materia di reintegra nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e le differenti fattispecie di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo soggettivo.

Infatti, la censura evidenziata dalla Corte riguarda la previsione della facoltà di reintegra nel caso di licenziamento economico nella misura in cui il fatto posto alla base del licenziamento sia manifestamente insussistente, distinguendola dalla previsione di obbligatorietà di reintegrazione nei casi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo. Tale differenza di disciplina determina, ad avviso della Corte, una chiara violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 in virtù della irragionevole disparità di trattamento tra il licenziamento economico e quello per giusta causa, rimettendo alla discrezionalità dell’organo giudicante la scelta tra l’indennità e la reintegra senza alcun criterio direttivo.

Una pronuncia che si inserisce nel contesto degli orientamenti giurisprudenziali che avevano rilevato profili critici delle riforme del mercato del lavoro e delle tutele nel caso di licenziamento degli ultimi anni, tra cui è bene ricordare la sentenza n. 194 del 2018 con la quale la consulta aveva dichiarato l’illegittimità dell’art. 3, comma 1 del D. Lgs n. 23/2015 (Jobs Act) censurando la rigidità e la inadeguatezza del meccanismo di calcolo dell’indennità contro i licenziamenti ingiustificati che non realizzava né “un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro”, né un efficace strumento deterrente per i licenziamenti ingiusti da parte datoriale.