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Il Budo e la funzione sociale delle arti marziali.

Articolo di Valerio Macagnone, segretario ESC (2020-2021)

Nell’immaginario occidentale colonizzato dalle spettacolari sfilate cinematografiche di combattimenti sanguinari à la Beatrix Kiddo, protagonista dei lungometraggi di Quentin Tarantino, è facile cadere nell’equivoco secondo cui le arti marziali sono delle semplici discipline di combattimento finalizzate al business degli eventi “Oktagon” o  arti coreografiche da serie Netflix che fungono da preziosismo atletico/estetico destinato a sfondare lo schermo con schizzi di sangue ed estrose tecniche volanti. Tuttavia, indagando la storia e la filosofia delle arti marziali ci si può imbattere in grandi uomini, alti appena 160 cm e dall’aspetto contegnoso e riverente, come il maestro Jigoro Kano, fondatore del Judo (“Via della cedevolezza”), che diceva che il fine ultimo delle arti marziali è di perfezionare sé stessi per servire la società. Il Budo, in effetti, è l’espressione più alta della cultura marziale giapponese, con questo termine si suole designare un sistema etico/tecnico che sta a fondamento delle discipline di combattimento che hanno origine nel Sol levante. Lo studio e la pratica delle arti marziali (keiko) infatti coinvolgono l’aspetto tecnico, fisico, mentale e spirituale del praticante (budoka) il quale oltre a interessarsi della perfezione tecnico/estetica del gesto marziale si interessa allo sviluppo delle qualità di condotta sociale che promanano dal codice etico del samurai denominato “bushido” ovvero la via del guerriero. Uno degli elementi caratteristici della cultura nipponica è proprio l’intima associazione tra etica ed estetica, tra forma e contenuto, in cui l’arte, nello studio dei formalismi e delle etichette, diviene espressione della carica etica del mondo orientale e mezzo di perfezionamento spirituale del praticante. Shintoismo, Buddhismo, Confucianesimo sono le basi da cui si evolve il pensiero del “Budo” che, nonostante presenti degli elementi di rigidità etica a monte che possano far storcere il naso a una cultura individualista come quella occidentale, produce benefici a valle per ciò che concerne i risultati sociali dell’applicazione della “Via marziale” come regola di comportamento sociale.

Jigoro Kano

Nello studio del Budo è imprescindibile considerare il retaggio da cui si evolve. I più grandi “budoka” della storia giapponese come Jigoro Kano, fondatore del Judo Kodokan, Morihei Ueshiba, fondatore dell’Aikido e Gichin Funakoshi fondatore del Karate Shotokan erano stati a loro volta studenti di stili di combattimento diversi che, ciononostante, trovavano una radice comune nella via del “bushi”, il guerriero della tradizione feudale. La cultura marziale giapponese conobbe una sensibile trasformazione durante l’epoca Tokugawa (1603-1868), un’epoca segnata dalla fine dei conflitti tra feudi, che a lungo avevano alimento i sentimenti bellicosi tra i Daimyo (i signori feudali) nella lotta per il potere e per l’unificazione giapponese. Nello shogunato Tokugawa, con l’affermarsi di un periodo di pace, lo studio delle discipline marziali venne raffinato e impreziosito dall’idea di purificazione dello spirito. L’essenza dell’etica marziale dei samurai giapponesi venne codificata in un’opera letteraria composta da brevi frasi aforistiche che prende il nome di “Hagakure” (“All’ombra delle foglie”). Tale opera realizzata da Yamamoto Tsunetomo, ex samurai divenuto monaco buddhista, con la collaborazione dell’allievo Tashiro Tsuratomo divenne il modello del codice di condotta per i samurai giapponesi. La fama dell’opera crebbe nel corso del XX secolo, quando venne pubblicata per la prima volta, e nel mondo occidentale è stato citata svariate volte dalla cultura fumettistica e cinematografica: Il regista americano Jim Jarmusch girò un film intitolato “Ghost dog – il codice dei samurai” il cui protagonista è un Forest Whitaker nei panni di un killer al soldo della mafia che segue per filo e per segno i principi e lo spirito del codice dell’Hagakure, votandosi al servizio (il termine samurai deriva da “saburau” ovvero servire) di uno dei mafiosi che gli avevano salvato la vita. Opere pregevoli sul versante della “Nona arte” sono sicuramente i manga di Kazuo Koike e Gōseki Kojima dedicati a figure di “Ronin” (Letteralmente “uomo-onda”), samurai senza padrone alla ricerca di vendetta, come nel caso di Ogami Itto protagonista dell’opera “Lone Wolf & Cub”, e di “Kaishakunin” ovvero di boia incaricati dallo Shogun nella decapitazione dei condannati a morte, come nel caso di Yamada Asaemon protagonista di “Samurai executioner”. Nelle opere citate emerge chiaramente un elemento distintivo della filosofia del bushido: l’idea della morte intesa non solo come il fatto di porre fine alla propria esistenza in battaglia, o in un “seppuku” rituale a seguito di una sconfitta, o di una disputa con il Daimyo, ma come distacco dal sé, come annullamento dell’ego in vista di un fine superiore. Nell’Hagakure uno dei voti ai Buddha espressi da Tsunetomo recita: “Realizzare sé stessi in vista del benessere altrui animati da grande compassione”. L’idea fondante dell’etica del samurai è quindi il servizio al Daimyo e alla comunità di appartenenza e ciò si riflette nelle ere Meiji e Showa quando il processo di umanizzazione delle arti marziali conosce un’accelerazione grazie alle personalità di Kano e Ueshiba che, da differenti prospettive marziali e culturali, codificano le loro discipline solidificando la precettistica e la pedagogia del Budo. La Via del Guerriero assume una nuova missione: il progresso fisico, mentale e spirituale della collettività. Jigoro Kano, insegnava e applicava con insistenza metodica il concetto di “Judo superiore” ovvero della disciplina come mezzo di perfezionamento di sé stessi per servire la società. Il concetto judoistico di “Ji-ta-kyo-ei” (letteralmente “io e altri insieme progresso”) ovvero di mutua prosperità condivisa, e di “Sei-ryoku-zen-yo” ossia il principio del miglior impiego dell’energia divennero così le basi educative della pedagogia di Kano il quale credeva fermamente che l’uso corretto delle proprie energie fisiche e mentali e la collaborazione tra “Tori” (colui che esegue la tecnica) e “Uke” (colui che riceve la tecnica) nel raffinamento dell’esecuzione delle tecniche, dovessero essere le idee fondanti della dottrina del Judo come disciplina per il miglioramento sociale. In sintesi, la frase che esprime al meglio il pensiero di Kano si trova espressa in un articolo dedicato al terzo livello del Judo, chiamato appunto Judo superiore: “Diventare forti vuol dire esattamente imparare a utilizzare la nostra forza per il bene collettivo”. Kano non fu solo un abilissimo artista marziale capace di interpretare al meglio il patrimonio tecnico del “Bujutsu”, ovvero di quell’articolato complesso di tecniche e discipline che rappresentavano il retaggio marziale del samurai, ma fu altresì un sostenitore di un modello pedagogico-sociale fondato sulla cooperazione e il servizio alla comunità che traeva le sue radici dall’etica del bushido: in uno dei suoi scritti dedicato allo spirito del samurai, mette in evidenza la differenza tra la cultura individualista della società industriale orientata alla fugacità di titoli e ricchezze e al profitto capitalistico nel breve termine, alla visione sociale del “bushi” che agiva tenendo conto degli interessi dello Stato e della comunità, sottolineando il fatto che, nell’applicazione dei precetti del Budo, la prosperità collettiva derivi dalla protezione dello Stato e degli interessi comunitari: “nell’ambito del lungo termine, sia gli individui che le aziende prosperano sotto la protezione dello Stato. E quando lo Stato prospera, anche individui e aziende prosperano”.[1] Il pensiero di Kano era naturalmente pervaso da una visione del mondo, tipicamente nipponica, che riconosce massima priorità all’interesso collettivo e che dà lustro a forme ed etichette che rappresentano l’essenza dello spirito del samurai, tanto che perfino la Katana (la spada giapponese) era considerata un prolungamento dell’anima del guerriero. In uno scritto di uno dei più insigni Judoka Italiani, il maestro Cesare Barioli, si evidenzia come lo spirito judoistico debba essere orientato al bene comune e che nel “drammatico conflitto tra educazione e caos” nella nuova era tecnologica, in cui progressi scientifici sono di gran lunga superiori a quelli umanistici, si debba aprire uno spiraglio di luce di una nuova “rivoluzione umanistica che produca uomini e donne in cui la coscienza dell’interesse collettivo prevalga su quello individuale.”[2]

Morihei Ueshiba

L’idea di progresso civile e di armonizzazione sociale furono obiettivi che, coscientemente, i budoka inserirono nei loro programmi educativi, e quando il Prof. Kano negli anni ’30 assistette a una esibizione tecnica dell’Aikido del maestro Morihei Ueshiba, commentò dicendo che in quella dimostrazione aveva visto il “Budo ideale”. In effetti, le idee di Ōsensei Ueshiba e il Prof. Kano, rappresentavano al meglio la trasposizione umanistica delle arti giapponesi che, specie nell’epoca Tokugawa, avevano visto come protagonisti gli “shugyosha”, ovvero dei guerrieri erranti nel cammino del perfezionamento tecnico e spirituale. Ōsensei Ueshiba, anche lui come Kano, studente di scuole tradizionali di Jujutsu (in particolare il Daito ryu Aiki-jujutsu), elaborò come principio di base della propria disciplina, il “Takemusu aiki” ovvero il principio di coraggiosa e illimitata creatività marziale. L’idea fondante dell’Aikido è che l’arte marziale dovesse seguire il principio base mutuato dal Jujutsu (“Arte della cedevolezza”) secondo cui il debole vince l’aggressività e la forza, con la calma e la flessibilità: “Hey yo shin kore do” ovvero il “morbido vince il duro” principio mutuato dalla filosofia Taoista di Lao-Tzu. L’Aikido, in particolare, persegue l’obiettivo dell’armonia tra l’universo esteriore e l’universo interiore dell’uomo, mediante una lunga pratica di comunione fisica, spirituale e tecnica tra Tori e Uke. Elemento imprescindibile dell’Aikido è la simbiosi tra i compagni di pratica, la natura relazionale della disciplina, e il raggiungimento dell’armonizzazione della mente con il corpo, la cui congiunzione è resa possibile attraverso il “ki” ovvero la forza spirituale che armonizza mente e corpo in perfetta coordinazione e in modo spontaneo. Dalla traduzione letterale del nome della disciplina ne consegue che il budoka in questo contesto, attraverso un lungo addestramento finalizzato al rafforzamento del corpo e alla purificazione spirituale, percorre un sentiero, una via (Do = via, percorso) che porta all’armonia (Ai = armonia) attraverso l’opera del Ki (energia, spirito). Il passaggio fondamentale dal “Bujutsu” al “Budo”, dunque, ha la sua linea evolutiva nel processo di umanizzazione del novecento che si concretizza in un pensiero etico marziale fondato sull’idea di perfezionamento individuale e collettivo, e dal passaggio dallo studio della mera tecnica (jutsu) all’idea di aprire un sentiero (Do) che stia a fondamento del benessere fisico, spirituale e mentale degli individui e della conseguente armonizzazione dei rapporti tra uomini, e tra gli uomini e l’universo naturale circostante. Riflesso della filosofia degli antichi samurai, dunque, e suo naturale adattamento all’epoca moderna di pace, il Budo contiene in sé una visione complessiva della società e dell’uomo in cui il collettivo e l’individuo non sono in rapporto conflittuale tra di loro, ma sono armonizzati al fine di esaltare l’opera creativa dell’individuo nelle diverse dimensioni della vita in cui si trova ad operare e allo scopo di conferire un significato umanistico all’arte.

D’altro canto, se l’idea di servizio alla collettività e di devozione del samurai possono apparire in occidente come un semplice anacronismo dai tratti esotistici, è fuor di dubbio che la comunione tra etica ed estetica delle arti giapponesi (non solo quelle marziali) costituisca elemento di grande suggestione, perfino per gli artisti occidentali. Il pittore francese Yves Klein precursore della “Body art” nonché judoka esperto disse a proposito: “Il Judo è arte, è un’arte dello stesso valore grande musica poiché deve essere ricreato ogni qualvolta lo si voglia nuovamente praticare, è un’arte personale e universale perché è l’arte del combattimento, in altre parola la vita stessa”. Lo stesso Klein rinveniva nei “Kata” (sequenze formalizzate di movimenti e tecniche) la massima espressione estetica del Judo e dello spirito della disciplina, un’idea di forma/movimento atta a salvaguardare lo spirito del gesto marziale. D’altro canto lo studio delle forme non è solo riflesso della visione codificata delle tecniche, ma rappresentano la base su cui si costruisce l’intero patrimonio tecnico del Budoka che pertanto potrà ampliare la propria creatività sulla scorta di queste “forme” che rappresenteranno per il praticante uno studio indispensabile e sistematico fintantoché l’assimilazione mnemonica non lascerà lo spazio al “Mushin” ovvero la mente liberata da vincoli emotivi e dagli schematismi.

Il Dō (道), dunque, in una società pacificata dopo le tragedie di Hiroshima e Nagasaki, simboleggia per i principali budoka del ‘900, un modo per attualizzare e rendere vivo il pensiero e l’etica dei samurai giapponesi, e per epurarla dalle strumentalizzazioni che erano state compiute dal Giappone imperiale nel corso della seconda guerra mondiale. D’altronde il termine “bushi” contiene in sé il kanji “Bu” (武) composta da due ideogrammi che in giapponese significano “fermare le lance” e il filosofo giapponese Nakae Tōju definiva la marzialità come personificazione della virtù confuciana della giustizia: “Battersi per sottomettere chiunque ostacoli il rispetto dei genitori, la fratellanza, la lealtà e la fedeltà è chiamato marzialità”. Le sette le virtù del samurai (Gi: Onestà e Giustizia; Yu: Eroico Coraggio Jin:Compassione; Rei: Gentile Cortesia; Meiyo: onore; Chugi: Dovere e lealtà; Makoto: completa sincerità) e l’umanità (Ninyo) di cui sono espressione, servono tuttora a rendere solida la cultura della via marziale giapponese e a trasferire sul piano della pratica (Keiko: letteralmente “andare al di là”) un insieme di valori e di scopi orientati al benessere sociale. L’etichetta che si esprime nelle forme e nel saluto (keirei), nel rapporto cooperativo tra Tori e Uke e nella competizione regolata dalla disciplina, dal rispetto e la cortesia nei confronti dell’avversario, assumono oggi un significato di adesione a un codice etico che certamente non può essere pienamente compreso alla luce degli schemi interpretativi delle società occidentali, ma che, d’altro canto, costituisce un’idea dei rapporti umani in cui l’uomo non può che esprimere al meglio il proprio valore in una relazione di arricchimento condiviso con il prossimo e in una società in cui la marzialità e la cultura sono espressione di virtù e di un’esistenza nobilitata dallo spirito combattivo.

“Le persone che non comprendono il principio di “takemusu aiki” (coraggiosa e illimitata creatività) pensano solo a vincere, non vogliono mai perdere, opponendo muscolo a muscolo, tiranneggiando i deboli e gli inermi, in breve assumendo un atteggiamento aggressivo. Lo scopo dell’Aikido è liberare il mondo dalla violenza e dalla discordia […] La pratica dell’Aikido è purificazione a tutti i livelli della mente e del corpo.”

Morihei Ueshiba


[1] J. Kano, “La mente prima dei muscoli”, cit., p. 114

[2] C. Barioli, “Educazione e sport, il caso del judo”, scritto presentato al congresso organizzato dall’A.I.S.E. nel 2010

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Calcio: Super-League? “Created by the poor, stolen by the rich”

articolo di Pietro Salemi, Vice Presidente ESC

Il calcio è spesso specchio della nostra società. Se tutto è guidato da logiche di mercato e dalla massimizzazione dei profitti, non deve dunque stupire che anche il calcio abbia riprodotto, negli ultimi anni, una logica puramente aziendalistica. Non deve stupire neanche che in questo “gioco” del capitalismo predatorio, i grandi players globali legati a doppio filo a fondi speculativi e al mondo della finanza (nel calcio i “top club”), tendano a fagocitare le realtà di medie e piccole dimensioni, legate ancora ad una dimensione territorialmente circoscritta: anche nel calcio è in atto una sorta di lotta di classe dall’alto contro il basso. Diritti TV e sponsorizzazioni milionarie hanno acuito le disuguaglianze e i divari, rendendo, in buona sostanza, il pallone “meno rotondo”.

Infatti, se guardiamo all’albo d’oro della Serie A italiana, è facile scorgere un graduale processo di oligopolizzazione (invero, tendente negli ultimi anni ad un monopolio coincidente con quel gruppo di potere -non solo calcistico- chiamato Juventus sui campi da gioco ed EXOR sui panni da gioco della finanza). Raffrontando l’albo d’oro della Serie A nel periodo corrispondente al cd. “trentennio glorioso” (1945-1975), in cui il compromesso keynesiano rese possibile una graduale attuazione dei principi inscritti nella costituzione Repubblica, si scopre che in quel periodo lo scudetto fu vinto da ben 8 diverse squadre (Juventus 9 titoli, Milan e Inter 6, Fiorentina 2, Lazio, Cagliari e Bologna 1), corrispondenti a ben 6 città italiane, collocate, pur in maniera disomogenea, lungo tutto lo stivale. All’opposto, nelle ultime 3 decadi di pallone corrispondenti alla cd. “Seconda Repubblica”, in cui il compromessa keynesiano e l’economia mista furono sostituiti da una visione irenica della globalizzazione di matrice neoliberista, l’albo d’oro della Serie A accoglie solo 5 squadre: Juventus 14 titoli, Milan 7, Inter 5, Roma e Lazio 1. Le città che hanno potuto festeggiare uno scudetto si riducono a 3: Torino, Milano e Roma.

D’altronde, il drenaggio dal basso verso l’alto di potere calcistico è perfettamente rispecchiato dallo storico dei fatturati dei principali club europei. Nella comparazione ci aiuta la “Deloitte Football Money League”, ossi la classifica di club calcistici ordinata in base ai ricavi operativi. I dati di tale classifica sono disponibili dalla stagione 2004-2005. Al tempo la stessa vedeva in cima il Real Madrid (275,7 milioni di Euro), seguita da Manchester United (246,4 milioni di Euro) e Milan (234 milioni). Nella stagione in questione il divario tra il Real in prima posizione e la Lazio (che chiude la classifica in ventesima posizione con 83,1 milioni) è di “soli” 192,6 milioni di Euro. Guardando all’edizione 2018-2019 dell’entusiasmante “Deloitte Football Money League” si osserva come non solo i fatturati sono cresciuti in valore assoluto, ma è anche aumentato a dismisura il divario tra i club: la classifica è guidata dal Barcellona con 840,8 miliardi di Euro, seguita da Real Madrid (757.3) e Manchester United (711,5 milioni di Euro), e chiusa dal Napoli con 207,4 milioni di Euro. Il divario tra prima e ventesima ammonta, secondo la più recente classifica, a 633,4 milioni di Euro. Inutile argomentare oltre circa la sperequazione che ciò implica rispetto ai club di medie dimensioni o alle cd. “provinciali”.

In effetti, non serviva neanche questa dettagliata analisi per comprendere come il mondo del calcio, soprattutto nella sua evoluzione degli ultimi anni, era già diventato un gigantesco business in cui la dimensione umana, la sana competizione sportiva, la genuina passione dei tifosi sono divenuti ormai elementi accessori di contorno. Il calcio a stadi vuoti a cui ci siamo abituati durante la pandemia, non è che la conferma.

Tuttavia, il lancio di questa nuova super-Lega tra i top club più ricchi d’Europa segna uno scarto, un’accelerazione capace di segnare un prima e un dopo.

In questo “dopo”, non c’è alcuno spazio per la dimensione dei club medi o piccoli, per il calcio di provincia, per modelli virtuosi di crescita all’insegna della valorizzazione del patrimonio calcistico offerto dal proprio territorio di riferimento. L’ex ‘gioco più bello del mondo’ è ridotto a muscolare espressione economico-finanziaria: si parla  di un volume di affari pari a 7-8 miliardi di Euro l’anno da suddividere tra i 20 club partecipanti. E’ così che il colosso finanziario americano JP Morgan mette sul piatto circa 5 miliardi di dollari a copertura dell’iniziativa. Per chi non la conoscesse, JP Morgan risulta essere una delle principali banche d’affari responsabili di sottostimato, a proprio beneficio, i rischi che portarono crisi globale 2007-2008[1], generata dai derivati tossici e dai mutui subprime.

I club fondatori (15, secondo le previsioni) riceveranno già all’atto di adesione circa 1/2 miliardo di Euro e giocheranno questa competizione privata di diritto (rectius, di privilegio), a prescindere da qualsivoglia rendimento sportivo.

Vietati gli exploit degli outsider e i “miracoli sportivi”: niente più Leicester, Atalanta o Palermo dei tempi d’oro, o per andare più in là con gli anni, niente Cagliari di Riva, Verona di Bagnoli, o Samp di Vialli e Mancini. I campionati nazionali diventerebbero passerelle svuotate di significato e utilizzati per rodaggio, a mo’ di competizione per squadre B.

Gli stipendi dei calciatori della Super-lega raggiungeranno verosimilmente livelli inimmaginabili e incomparabili con le cifre di oggi (già folli). Le 15 squadre fondatrici si assicurerebbero così una posizione di esclusività e non contendibilità, anche rispetto ai 5 club che si qualificherebbero dalle competizioni nazionali: gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili, diceva una nota canzone di qualche anno fa.

Nonostante, questo progetto dei top club (che sembra già esecutivo) venga semplicisticamente accostato al modello statunitense dell’NBA, neanche nella patria del neoliberismo si arriva a tanto: sia pure per garantire spettacolo e competitività, nel caso NBA è fissato un salary cap e le modalità con cui si svolge il draft annuale garantiscono un certo effetto compensativo.

Ora, è anche ben possibile che lo strappo di queste ora sia stato segnato per strategia negoziale da parte dei top club al fine di ottenere una fetta di torta più ampia nella distribuzione dei budget e dei diritti TV da parte delle istituzioni del calcio. E’ anche plausibile che lo strappo venga ricucito per via diplomatica, procedendo ad ulteriori concessioni di favore rispetto agli interessi delle big. Tuttavia, ciò porterebbe, ancora una volta, ad un compromesso al ribasso rispetto ai valori dello sport e fair play: le pari condizioni di partenza e la contendibilità delle competizioni ne risulterebbero a fortiori pregiudicate da un ulteriore dose di doping finanziario.

Ciò offre anche l’occasione per riflettere sull’esempio che il calcio offre anche per le nostre società: la forbice delle disuguaglianze si amplia? Bene, invece di lavorare in senso perequativo, formalizziamo e istituzionalizziamo tali disuguaglianze in privilegi di diritto, sembrerebbero dire Florentino Pérez e soci. [Un po’ lo stesso retropensiero di chi, per curare i Mali della democrazia, tra il serio e il faceto, propone l’abolizione del suffragio universale]. Da questo punto di vista, la proposta della Super-League calcistica non rappresenta che la testa di ariete di un neoliberismo sempre più selvaggio, contraddistinto da delocalizzazione, finanziarizzazione e oligopolizzazione.

I soliti fedeli del pensiero unico e della Chiesa Mercatista, per non bestemmiare il dio denaro, faranno presto a dire che hanno tutto il diritto di farlo, che la grande qualità dello spettacolo offerto guiderà “come una mano invisibile” i tifosi verso una nuova normalità calcistica, che è giusto che, come ogni società di capitale, anche i Top club perseguano i propri interessi e la massimizzazione dei profitti.

Non essendo parrochiano della stessa chiesa, mi permetto di sostenere una visione forse romantica. Dovremmo intendere l’elenco dei club fondatori della Super-lega come una lista di proscrizione e procedere alla radiazione di questi club e dei loro dirigenti da tutte le competizioni, nazionali e internazionali, di ogni ordine e grado, per insanabile incompatibilità con i valori dello Sport.

Agli attuali miti del pallone multimilionario, mi piace contrapporre le leggende umane del calcio di provincia, come, ad esempio, Ezio Vendrame, calciatore, scrittore e poeta, genio e sregolatezza. Diversi sono gli aneddoti legati al “George Best italiano”, ex del Padova e della Lanerossi Vincenza. Particolarmente significativo nell’offrire la diversa dimensione di quel calcio anni ‘70, ancora a misura d’uomo, riguarda il tentativo da parte dell’Udinese (sua ex squadra) di comprare per 7 milioni di Lire una sua cattiva prestazione in Udinese-Padova. Il Padova, in cui militava Vendrame all’epoca, navigava economicamente in cattive acque e in quella stagione pagava i suoi giocatori al minimo sindacale di 22.000 Lire, così Vendrame inizialmente accettò la ghiotta proposta di vendersi la partita per una così lauta cifra (“avevo giocato male molte altre volte… e gratis”, racconterà anni dopo in una sua autobiografia ‘Se mi mandi in tribuna, godo’). Tuttavia, una volta entrato in campo, fu a tal punto irritato dai fischi ricevuti all’ingresso in campo dal suo vecchio pubblico friulano da cambiare idea, decidendo di “punire quel pubblico di ingrati”: Vendrame condusse il Padova alla vittoria per 3-2 con una sua doppietta di cui leggendario fu il secondo gol, segnato direttamente da calcio d’angolo: prima di tirare fece il gesto di soffiarsi il naso sulla bandierina del corner e indicò a gesti ai tifosi avversari che da lì avrebbe segnato direttamente, come puntualmente accadde.

Parafrasando Vendrame, “fanculo ai vostri milioni, viva le 22.000 lire”.


[1] https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/02/07/usa-new-york-times-jp-morgan-sapeva-da-tempo-dei-rischi-sui-mutui/492802/