articolo di Pietro Salemi, Vice Presidente ESC
Il calcio è spesso specchio della nostra società. Se tutto è guidato da logiche di mercato e dalla massimizzazione dei profitti, non deve dunque stupire che anche il calcio abbia riprodotto, negli ultimi anni, una logica puramente aziendalistica. Non deve stupire neanche che in questo “gioco” del capitalismo predatorio, i grandi players globali legati a doppio filo a fondi speculativi e al mondo della finanza (nel calcio i “top club”), tendano a fagocitare le realtà di medie e piccole dimensioni, legate ancora ad una dimensione territorialmente circoscritta: anche nel calcio è in atto una sorta di lotta di classe dall’alto contro il basso. Diritti TV e sponsorizzazioni milionarie hanno acuito le disuguaglianze e i divari, rendendo, in buona sostanza, il pallone “meno rotondo”.
Infatti, se guardiamo all’albo d’oro della Serie A italiana, è facile scorgere un graduale processo di oligopolizzazione (invero, tendente negli ultimi anni ad un monopolio coincidente con quel gruppo di potere -non solo calcistico- chiamato Juventus sui campi da gioco ed EXOR sui panni da gioco della finanza). Raffrontando l’albo d’oro della Serie A nel periodo corrispondente al cd. “trentennio glorioso” (1945-1975), in cui il compromesso keynesiano rese possibile una graduale attuazione dei principi inscritti nella costituzione Repubblica, si scopre che in quel periodo lo scudetto fu vinto da ben 8 diverse squadre (Juventus 9 titoli, Milan e Inter 6, Fiorentina 2, Lazio, Cagliari e Bologna 1), corrispondenti a ben 6 città italiane, collocate, pur in maniera disomogenea, lungo tutto lo stivale. All’opposto, nelle ultime 3 decadi di pallone corrispondenti alla cd. “Seconda Repubblica”, in cui il compromessa keynesiano e l’economia mista furono sostituiti da una visione irenica della globalizzazione di matrice neoliberista, l’albo d’oro della Serie A accoglie solo 5 squadre: Juventus 14 titoli, Milan 7, Inter 5, Roma e Lazio 1. Le città che hanno potuto festeggiare uno scudetto si riducono a 3: Torino, Milano e Roma.
D’altronde, il drenaggio dal basso verso l’alto di potere calcistico è perfettamente rispecchiato dallo storico dei fatturati dei principali club europei. Nella comparazione ci aiuta la “Deloitte Football Money League”, ossi la classifica di club calcistici ordinata in base ai ricavi operativi. I dati di tale classifica sono disponibili dalla stagione 2004-2005. Al tempo la stessa vedeva in cima il Real Madrid (275,7 milioni di Euro), seguita da Manchester United (246,4 milioni di Euro) e Milan (234 milioni). Nella stagione in questione il divario tra il Real in prima posizione e la Lazio (che chiude la classifica in ventesima posizione con 83,1 milioni) è di “soli” 192,6 milioni di Euro. Guardando all’edizione 2018-2019 dell’entusiasmante “Deloitte Football Money League” si osserva come non solo i fatturati sono cresciuti in valore assoluto, ma è anche aumentato a dismisura il divario tra i club: la classifica è guidata dal Barcellona con 840,8 miliardi di Euro, seguita da Real Madrid (757.3) e Manchester United (711,5 milioni di Euro), e chiusa dal Napoli con 207,4 milioni di Euro. Il divario tra prima e ventesima ammonta, secondo la più recente classifica, a 633,4 milioni di Euro. Inutile argomentare oltre circa la sperequazione che ciò implica rispetto ai club di medie dimensioni o alle cd. “provinciali”.
In effetti, non serviva neanche questa dettagliata analisi per comprendere come il mondo del calcio, soprattutto nella sua evoluzione degli ultimi anni, era già diventato un gigantesco business in cui la dimensione umana, la sana competizione sportiva, la genuina passione dei tifosi sono divenuti ormai elementi accessori di contorno. Il calcio a stadi vuoti a cui ci siamo abituati durante la pandemia, non è che la conferma.
Tuttavia, il lancio di questa nuova super-Lega tra i top club più ricchi d’Europa segna uno scarto, un’accelerazione capace di segnare un prima e un dopo.
In questo “dopo”, non c’è alcuno spazio per la dimensione dei club medi o piccoli, per il calcio di provincia, per modelli virtuosi di crescita all’insegna della valorizzazione del patrimonio calcistico offerto dal proprio territorio di riferimento. L’ex ‘gioco più bello del mondo’ è ridotto a muscolare espressione economico-finanziaria: si parla di un volume di affari pari a 7-8 miliardi di Euro l’anno da suddividere tra i 20 club partecipanti. E’ così che il colosso finanziario americano JP Morgan mette sul piatto circa 5 miliardi di dollari a copertura dell’iniziativa. Per chi non la conoscesse, JP Morgan risulta essere una delle principali banche d’affari responsabili di sottostimato, a proprio beneficio, i rischi che portarono crisi globale 2007-2008[1], generata dai derivati tossici e dai mutui subprime.
I club fondatori (15, secondo le previsioni) riceveranno già all’atto di adesione circa 1/2 miliardo di Euro e giocheranno questa competizione privata di diritto (rectius, di privilegio), a prescindere da qualsivoglia rendimento sportivo.
Vietati gli exploit degli outsider e i “miracoli sportivi”: niente più Leicester, Atalanta o Palermo dei tempi d’oro, o per andare più in là con gli anni, niente Cagliari di Riva, Verona di Bagnoli, o Samp di Vialli e Mancini. I campionati nazionali diventerebbero passerelle svuotate di significato e utilizzati per rodaggio, a mo’ di competizione per squadre B.
Gli stipendi dei calciatori della Super-lega raggiungeranno verosimilmente livelli inimmaginabili e incomparabili con le cifre di oggi (già folli). Le 15 squadre fondatrici si assicurerebbero così una posizione di esclusività e non contendibilità, anche rispetto ai 5 club che si qualificherebbero dalle competizioni nazionali: gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili, diceva una nota canzone di qualche anno fa.
Nonostante, questo progetto dei top club (che sembra già esecutivo) venga semplicisticamente accostato al modello statunitense dell’NBA, neanche nella patria del neoliberismo si arriva a tanto: sia pure per garantire spettacolo e competitività, nel caso NBA è fissato un salary cap e le modalità con cui si svolge il draft annuale garantiscono un certo effetto compensativo.
Ora, è anche ben possibile che lo strappo di queste ora sia stato segnato per strategia negoziale da parte dei top club al fine di ottenere una fetta di torta più ampia nella distribuzione dei budget e dei diritti TV da parte delle istituzioni del calcio. E’ anche plausibile che lo strappo venga ricucito per via diplomatica, procedendo ad ulteriori concessioni di favore rispetto agli interessi delle big. Tuttavia, ciò porterebbe, ancora una volta, ad un compromesso al ribasso rispetto ai valori dello sport e fair play: le pari condizioni di partenza e la contendibilità delle competizioni ne risulterebbero a fortiori pregiudicate da un ulteriore dose di doping finanziario.
Ciò offre anche l’occasione per riflettere sull’esempio che il calcio offre anche per le nostre società: la forbice delle disuguaglianze si amplia? Bene, invece di lavorare in senso perequativo, formalizziamo e istituzionalizziamo tali disuguaglianze in privilegi di diritto, sembrerebbero dire Florentino Pérez e soci. [Un po’ lo stesso retropensiero di chi, per curare i Mali della democrazia, tra il serio e il faceto, propone l’abolizione del suffragio universale]. Da questo punto di vista, la proposta della Super-League calcistica non rappresenta che la testa di ariete di un neoliberismo sempre più selvaggio, contraddistinto da delocalizzazione, finanziarizzazione e oligopolizzazione.
I soliti fedeli del pensiero unico e della Chiesa Mercatista, per non bestemmiare il dio denaro, faranno presto a dire che hanno tutto il diritto di farlo, che la grande qualità dello spettacolo offerto guiderà “come una mano invisibile” i tifosi verso una nuova normalità calcistica, che è giusto che, come ogni società di capitale, anche i Top club perseguano i propri interessi e la massimizzazione dei profitti.
Non essendo parrochiano della stessa chiesa, mi permetto di sostenere una visione forse romantica. Dovremmo intendere l’elenco dei club fondatori della Super-lega come una lista di proscrizione e procedere alla radiazione di questi club e dei loro dirigenti da tutte le competizioni, nazionali e internazionali, di ogni ordine e grado, per insanabile incompatibilità con i valori dello Sport.
Agli attuali miti del pallone multimilionario, mi piace contrapporre le leggende umane del calcio di provincia, come, ad esempio, Ezio Vendrame, calciatore, scrittore e poeta, genio e sregolatezza. Diversi sono gli aneddoti legati al “George Best italiano”, ex del Padova e della Lanerossi Vincenza. Particolarmente significativo nell’offrire la diversa dimensione di quel calcio anni ‘70, ancora a misura d’uomo, riguarda il tentativo da parte dell’Udinese (sua ex squadra) di comprare per 7 milioni di Lire una sua cattiva prestazione in Udinese-Padova. Il Padova, in cui militava Vendrame all’epoca, navigava economicamente in cattive acque e in quella stagione pagava i suoi giocatori al minimo sindacale di 22.000 Lire, così Vendrame inizialmente accettò la ghiotta proposta di vendersi la partita per una così lauta cifra (“avevo giocato male molte altre volte… e gratis”, racconterà anni dopo in una sua autobiografia ‘Se mi mandi in tribuna, godo’). Tuttavia, una volta entrato in campo, fu a tal punto irritato dai fischi ricevuti all’ingresso in campo dal suo vecchio pubblico friulano da cambiare idea, decidendo di “punire quel pubblico di ingrati”: Vendrame condusse il Padova alla vittoria per 3-2 con una sua doppietta di cui leggendario fu il secondo gol, segnato direttamente da calcio d’angolo: prima di tirare fece il gesto di soffiarsi il naso sulla bandierina del corner e indicò a gesti ai tifosi avversari che da lì avrebbe segnato direttamente, come puntualmente accadde.
Parafrasando Vendrame, “fanculo ai vostri milioni, viva le 22.000 lire”.
[1] https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/02/07/usa-new-york-times-jp-morgan-sapeva-da-tempo-dei-rischi-sui-mutui/492802/