Categorie
Economia

La crisi del modello mercantilista europeo e il suo passaggio verso la rendita.

Una panoramica storica.

di Jacopo D’Alessio, socio ESC

A causa delle sanzioni contro la Russia e la conseguente perdita di energia a basso costo da parte dei paesi trasformatori, come Germania, Olanda, Austria, Francia e Italia, ormai, è sotto gli occhi di tutti: l’export europeo crolla inesorabilmente. Torniamo quindi un attimo indietro e tentiamo una sintesi di quello che è successo negli ultimi quindici anni.

1. LA PRECEDENTE CRISI BANCARIA DEI SUBPRIME

Nel 2008, la crisi fu finanziaria e venne innescata dai subprime americani: cioè, dai mutui concessi ad ampie fasce di controparti con inadeguata situazione reddituale. Per intenderci, si concedevano a quella fetta di settore privato i cui lavoratori erano sotto-occupati, o precarizzati, con redditi bassi e discontinui. Di conseguenza, si trattava di clienti che avevano una probabilità di insolvenza assai maggiore di quanto considerato sostenibile in una sana attività creditizia. Così, lo scoppio della bolla speculativa distrusse la liquidità degli istituti di credito, travolgendo quelli più esposti alle cartolarizzazioni dei prodotti finanziari sugli immobili, primo fra i quali la Lehman Brothers, che venne lasciata fallire. Tuttavia, il pericolo di contagio del sistema bancario era diventato ormai così grave che il governo statunitense fu costretto a varare un piano straordinario di fondi pubblici, superiore ai 700 miliardi di dollari, per evitare un domino di vaste proporzioni, tale da portare al collasso l’intera economia a stelle e strisce. Dunque, l’intervento riuscì ad evitare lo scenario peggiore ma non a scongiurare la diffusione della crisi su scala globale, tanto che il credito subì una contrazione severa, dapprima negli USA, e poi anche in tutta Europa.
A questo punto, gli investitori istituzionali (istituti di credito e fondi finanziari), che acquistavano TDS (titoli di Stato) sul mercato primario, a fronte di una emissione di tali obbligazioni da parte dei Ministeri del Tesoro dei vari paesi, si persuasero che gli stati membri dell’Unione, causa le politiche di austerità, non fossero in grado di intervenire tempestivamente con efficaci iniezioni di spesa a compensare la mancanza di credito privato, come avevano appena fatto invece gli USA. E pertanto arrivarono a temere addirittura un’insolvenza nel pagamento delle obbligazioni pubbliche. Se a questo si aggiunge che alla BCE (Banca Centrale Europea) è vietato per statuto di acquistare direttamente i TDS, gli investitori ebbero modo di rendersi conto del formidabile affare speculativo di cui potevano cogliere l’opportunità. Quindi, fecero impennare i prezzi delle obbligazioni pubbliche senza trovare effettivamente nessun ostacolo alle loro scommesse che andarono a vantaggio dei bond tedeschi mentre avversarono quelli degli altri stati. Il resto è storia. Qualora, infatti, la Commissione non avesse permesso a Mario Draghi di aggirare i trattati, che regolano l’operato della stessa banca di Francoforte, e questa non avesse agito temporaneamente come un compratore di ultima istanza dei TDS, fornendo appunto quel “tetto” ai rendimenti che impediva di frenare la speculazione degli investitori, sarebbe stato il default assicurato, sia per l’Italia, ma anche per buona parte dei paesi dell’eurozona.

2. LA CRISI CONTINGENTE DELL’EXPORT
Quattordici anni dopo, la nuova crisi è di ordine commerciale e non più finanziaria. A provocarla adesso è l’aumento dei prezzi delle materie prime, ma la questione tuttavia rimane esattamente la stessa. E cioè che oggi, proprio come ieri, le crisi si presentano ciclicamente e chiedono il conto all’Europa, alla quale mancano da sempre le leve fiscali per porre rimedio, ogni volta, a degli shock esogeni, di qualsiasi forma e grado essi siano. Ai tempi del 2008, a salvarsi era stata almeno la Germania, la quale, per l’occasione, aveva ottenuto, tra l’altro, la nomea di “locomotiva d’Europa”. E lo faceva soprattutto in virtù del suo export che, nella circostanza di allora, rendeva i TDS tedeschi il rifugio più sicuro per gli investitori, come abbiamo accennato sopra.
Difatti, la solidità economica attribuita alla Germania, anche grazie al suo mastodontico e ricorrente surplus commerciale, faceva sì che la distanza dello SPREAD tra i TDS tedeschi e quelli italiani arrivasse a misurare – nella fase più calda della speculazione finanziaria – fino a 500 punti base: pari ad un rendimento differenziale che superava il 5%. Ciò significava che, se per caso in quello stesso anno, l’euro fosse deflagrato davvero, e i Paesi europei fossero tornati ciascuno alla rispettiva valuta, i creditori, che in quel momento non avessero detenuto nel loro portafoglio obbligazioni tedesche, si sarebbero ritrovati in mano con un patrimonio pesantemente svalutato, composto dai titoli delle altre monete oramai disgregate. È proprio per questa ragione che, un attimo prima del default (o presunto tale), i capitali fuggivano in Germania, provocando, in modo simmetrico e speculare, un costo eccessivo delle obbligazioni pubbliche italiane.
Ma la notizia di queste ultime settimane, appunto, scioglie improvvisamente, come neve al sole, anche il mito dell’economia più importante del continente che, diversamente dal 2008, sembra ormai non funzionare più.
Quindi, che cosa è successo nel 2022?

3. PER QUALE MOTIVO IL MERCATO ESTERO È PIÙ REDDITIZIO MA ANCHE PIÙ DESTABILIZZANTE DI QUELLO INTERNO

Stavolta, si tratta di un’inflazione importata da fuori ed è scaturita, come si è detto, dall’aumento dei prezzi di gas e idrocarburi (e non, come continuano a ripeterci i media, in ragione dell’aumento della spesa pubblica), che sta comprimendo il surplus commerciale dell’intera eurozona. Difatti, la domanda di beni proveniente da paesi stranieri si fa sempre oggetto di oscillazioni imprevedibili, che sfuggono al controllo dei paesi esportatori, dal momento che non possiedono alcuna facoltà politica di influire sulle intenzioni di spesa altrui.
Tuttavia, la dipendenza cronica nei confronti del settore estero non era né naturale né obbligatoria. Si è voluta in questo modo perché, da circa 35 anni, la classe politica europea ha rinunciato scientemente al mercato domestico con lo scopo di promuovere un modello di sviluppo basato solo sugli scambi internazionali. Senz’altro, quest’ultimo appare più redditizio, nella misura in cui apre le aziende ad una maggiore concentrazione di capitali su scala globale. Inoltre, ad ogni compravendita, riesce a rendere la propria valuta più pregiata, effetto che, al contrario, non si otterrebbe commerciando limitatamente in patria.
D’altronde, in questa vicenda non è stata da meno neanche l’Italia, i cui gruppi dirigenti, nel ’92, pensarono bene di svendere l’industria di stato, proprio per eliminare quella concorrenza interna di capitali pubblici che tanto ostacolava i ceti mercantili nostrani nell’imporre un tipo di crescita basata principalmente sull’export. È chiaro che, alla luce del conflitto russo-ucraino, tale impostazione si è rivelata piuttosto infelice. Questo perché, se la domanda interna di beni fosse un’opzione ancora valida, e si trovasse in mano alla gestione diretta di paesi con la sovranità monetaria, rimarrebbe subordinata alla propria autonomia di spesa e non a quella proveniente dai paesi stranieri. Così che, nella mancanza di un approvvigionamento certo e costante di energia, riscontreremmo anche oggi, egualmente, diversi problemi per mandare avanti la produzione nazionale. D’altra parte, però, verrebbe meno la preoccupazione di piazzare le nostre merci sul mercato estero con il rischio poi che rimangano invendute, proprio come sta accadendo nella circostanza attuale.
Si dà il caso infatti che, nell’euro-zona, tale opzione sia svanita del tutto, visto che il deficit di bilancio dei singoli paesi venga tenuto sotto stretta sorveglianza dalla Commissione. Per cui, ogni anno se ne autorizza la crescita o meno, unicamente sulla base di una percentuale fissata al 3%, ottenuta dalla relazione che si instaura tra il PIL e il deficit pubblico. Ma ciò succede a prescindere da una qualsivoglia strategia di politica economica, discussa in sede democratica e parlamentare, pena le pesanti multe di Bruxelles contro gli stati membri. Detto in breve, nonostante la minaccia concreta di un pericolosissimo autunno ormai alle porte, a nessun Paese dell’Unione è dato di uscire dalla traiettoria mercantilista, se non si vuole incombere in un’altrettanto grave instabilità finanziaria.

4. OLTRE LE RESPONSABILITÀ DELL’EURO: GALLINO E L’IMPRESA IRRESPONSABILE
Eppure, le cose non sono così lisce, non vanno per tutti allo stesso modo e c’è sempre e comunque chi sta peggio degli altri. Tant’è che, durante la crisi dei subprime, il rifugio sicuro dalla speculazione erano i Bund tedeschi, non di certo quelli italiani o spagnoli. Così, potremmo domandarci perché l’Italia abbia sofferto più di altri paesi dopo il suo ingresso nella UE, nonostante il suo modello conclamato, altrettanto competitivo, di tipo mercantilista. Il nostro paese infatti sconta, molto più della Germania, anche un altro tipo di problema che l’ha reso più fragile rispetto al suo rivale, al di là della crisi contingente: ovvero, l’assenza strutturale di grandi capitali privati che avrebbero potuto sostituirsi alle risorse pubbliche, venute meno dopo lo smantellamento dell’IRI (Istituto di Ricostruzione Industriale) e l’esautorazione della CDP (Cassa dei Depositi e Prestiti), messi fuori gioco dalle rigide norme europee che, per evitare possibili distorsioni nelle dinamiche di mercato, vietano l’intervento di stato nell’economia.
Anzi, l’Italia (come è successo d’altronde in altri Paesi europei) ha visto incalzare un processo sempre più esteso di finanziarizzazione di settori industriali medi e grandi, che è scoppiato definitivamente all’inizio degli anni 2000, ma ha avuto origini molto più lontane. La conseguenza è stata la perdita di una parte rilevante del tessuto manifatturiero nazionale (es. Fallimento di Cirio e Parmalat nel 2003), incluso quello ad alta concentrazione di capitali (es. Indebitamento Telecom nel 2007), le cui responsabilità, in questo caso, non si possono attribuire all’introduzione dell’euro. Nonché, è venuto a sparire, insieme a quelle imprese, o al loro indebitamento cronico, un ingente risparmio privato, di cui un’illuminata classe di imprenditori, se mai ci fosse stata, avrebbe potuto far uso per rilanciare invece strategie industriali avanzate.

“Per le borse europee […] si stima che, nello stesso periodo (di quello USA), la distruzione di valore si sia aggirata sui 3000-3500 miliardi di euro. Per farsi un’idea concreta delle dimensioni raggiunte da tale distruzione di valore, si pensi che 8,4 trilioni di dollari corrispondevano a oltre l’85% del PIL statunitense del 2001, che era di 9,8 trilioni. Nella UE, 3 trilioni di euro o più equivalgono al PIL combinato di Francia e Italia, con alcune centinaia di milioni di avanzo. Detto altrimenti, la distruzione di valore azionario verificatasi tra il marzo 2000 e l’ottobre del 2002 (in Europa) è paragonabile a quella che si sarebbe osservata se Stati Uniti, Francia e Italia avessero avuto, per un intero anno, un PIL uguale a zero” (Gallino: 2005) [1]

Difatti, già a partire dagli anni ’80, l’impresa, che Luciano Gallino definisce “irresponsabile”, comincia a sottrarre, gradualmente, percentuali finanziarie sempre più significative alla produzione, nell’ossessiva ricerca della rendita. Non più valore aggiunto, quindi, da conseguire mediante il lavoro, la tecnologia, e la conoscenza, nell’ambito di una crescita lenta del fatturato, sia pure costante. Piuttosto, si ripiega su di un’accumulazione drastica e rapidissima dei dividendi, rivenduti in borsa e gonfiati da proiezioni tanto esagerate quanto fuorvianti. Il paradosso venutosi a creare difatti è che tale sistema favorisca in misura maggiore il valore del capitale detenuto dagli azionisti, che rimangono esterni all’impresa, rispetto a quello del patrimonio industriale dell’azienda medesima.
Questo anche perché, continua a spiegare Gallino, la mancata coincidenza tra l’amministrazione e la nuda proprietà, che al contrario aveva caratterizzato il fordismo, aveva reso la moderna figura del manager delegato un lavoratore dipendente al pari di tutti gli altri. Ma, così facendo, quest’ultimo veniva messo sul libro paga degli investitori per tutelare il loro interesse piuttosto che le ragioni societarie di lungo periodo. Pertanto, acquisizioni, fusioni, svendite di segmenti produttivi, pratiche manipolatorie di bilancio, e pesanti tagli della forza lavoro, avevano avuto il mero scopo di fare cassa per attirare l’acquisto immediato di nuove azioni a scapito però di strategie lungimiranti di sviluppo economico.

5. ARRIGHI E IL PASSAGGIO DAL MODELLO MERCANTILISTA A QUELLO DEI RENTIER
Ebbene, sembra che l’Italia stia già percorrendo una parabola discendente che potremmo descrivere prendendo a prestito lo schema di Giovanni Arrighi, estratto dal suo “Il lungo XX secolo” (1994) [2]. L’autore infatti sostiene che la propulsione allo sviluppo economico di una potenza mercantile si esaurisca a causa del suo passaggio di testimone ad un’altra (o ad una costellazione di altri paesi), che cominci ad investire sull’economia reale (il lavoro) al posto di quella precedente. Tutto questo nel momento in cui, va da sé, la prima ha smesso di farlo per soddisfare principalmente l’interesse speculativo di alcune classi particolari, all’interno del proprio alveo nazionale, che sono definiti rentier.
Ad esempio, spiega Arrighi, è ciò che accade nel ‘600, durante l’epoca d’oro delle Province Unite, quando la decadente classe mercantile olandese, pur di non rinunciare ad una parte dei suoi proventi, cede fette importanti di mercato delle Indie orientali all’Inghilterra, mentre si guarda bene dall’utilizzare il resto degli introiti per lo sviluppo di industrie sul territorio. Tanto che Amsterdam sarà destinata a rimanere un centro di smistamento merci che vanno verso, o provengono, dall’Asia, per conto di paesi terzi europei, servendosi però, in tutto questo, di appalti manifatturieri inglesi. Come sarà noto, infatti, la prima rivoluzione industriale nascerà subito dopo, nel ‘700, in seno alle fabbriche tessili di Londra, e non certo presso la borsa di Anversa.
Insomma, la condizione attuale italiana sembra corrispondere a quella fase marxiana che, continua Arrighi, si ripresenta periodicamente, e che sussiste nel passaggio dallo schema DMD1 (Denaro- Merce-Denaro+1) a quello accelerato DD1 (Denaro-Denaro+1). Quest’ultimo, a partire dagli anni ’80, permette così l’accumulazione immediata di capitale (tanto in Europa quanto in USA) a vantaggio più che altro, della rendita, mentre va a scapito, non solo dei mercanti, ma del lavoro in genere, sia delle piccole e medie imprese, sia di quello dipendente, nel loro insieme. Come si può vedere, anche nel commercio globale, la deflazione salariale e il lavoro precarizzato contro una politica di investimenti, non aumenta tanto la produttività, come invece vorrebbe Confindustria, ma comporta, più che altro, la perdita di valore aggiunto così come del risparmio. Di modo che, nello scenario migliore, si viene assorbiti dai colossi più grandi; oppure, in quello peggiore, si chiude definitivamente o si delocalizza.
Si tratta, continua Arrighi, di un epigono tormentato, che segna la fine, ogni volta, di un lungo ciclo produttivo per inaugurarne un altro successivo, con il disfacimento graduale del vecchio ordine egemonico, a questo punto, possiamo dire, anche di tipo militare (la NATO), nel momento in cui ci sta conducendo, con sempre maggiore evidenza, entro quello che lo stesso autore avrebbe definito un “caos sistemico”. In effetti, se sommiamo la guerra russo-ucraina a quella cino-taiwanese, viene fuori una crisi chiaramente mondiale, non solo economica, appunto, e dagli esiti ancora oggi imprevedibili, oltre che pericolosi.

6. L’EURO E IL COMPROMESSO MERCANTILISTICO TEDESCO TRA CAPITALE E LAVORO
Mi preme sottolineare tuttavia che l’attuale crisi del mercantilismo-industriale tedesco non è dettata, però, come in Italia, da una classe di speculatori che, come spiegava bene Gallino, hanno sostituito la rendita al profitto. Anzi, grazie ai lauti compensi degli operai altamente specializzati (al cui fianco coesistono certamente, e in numero immensamente maggiore, i famigerati mini-jobs), i capitani d’industria tedeschi hanno garantito finora alle loro classi medie un adeguato welfare. Oppure, per i meno abbienti, ne hanno fornito uno di carattere meramente sussidiario ed assistenziale, che nonostante la sua esiguità rimane però presente e capillare. Diversamente da quanto proponga la tesi di Albero Bagnai (2012) [3] , infatti, tale beneficio non proviene soltanto dall’infrazione delle regole europee di bilancio pubblico, che pure c’è stata sia in Germania che in Francia tra il 2004 e il 2005. Ma nasce anche e principalmente dalla restituzione ai lavoratori di una parte del plus-valore, ricavato dai massicci utili commerciali, procurati, in questi ultimi 22 anni, grazie alla svalutazione dell’euro rispetto al marco.
Si è riusciti, in questa maniera, a concertare un patto tra capitale e lavoro. Sicuramente a perdere per il secondo ma migliore di qualsiasi tipo di soluzione profilata finora dalla grande borghesia italiana, che ha solo raccomandato ai giovani altamente qualificati di emigrare oppure si è servita di un sempre più folto bacino sotto occupato, dal quale attingere indiscriminatamente manodopera a basso costo, del tutto ricattabile, in grazia della sua condizione precaria permanente. Tutto questo, inoltre, per lasciare un settore industriale in sofferenza e spesso inadeguato, o svenduto senza nessuna remora al migliore offerente straniero.
Al contrario, l’aggressivo capitalismo germanico, realizzato ai danni dei suoi partner commerciali europei che, in seguito alla condivisione della moneta unica, sono stati messi in grado di acquistare a buon mercato le costosissime merci tedesche, riusciva ancora, fino al 24 febbraio scorso, a redistribuire i suoi utili tra vaste fasce di lavoratori. È in virtù di questo spostamento dei ricavi verso il basso, per quanto marginale, che il sistema SPD-CDU è riuscito ad ottenere in cambio il consenso egemonico da parte di un larghissimo strato della popolazione: un risultato strepitoso, senza il quale non si riuscirebbe a comprendere la rielezione, con ben tre mandati di seguito, del cancelliere Angela Merkel.
Ma adesso, a quanto pare, questo gioco non potranno permetterselo più. Per gli USA, infatti, la questione militare precede quella economica a prescindere. E le sue colonie europee devono rinunciare alle tradizionali pretese economicistiche, tipiche del secondo ‘900, per difendere invece a tutti i costi anche loro, in prima persona, l’impero. Bisogna dire che, anche su questo versante, l’Italia non è stata da meno. Nel senso che il secondo governo Conte del 2019-2021 è stato sabotato dal presidente della Repubblica (anche, e non solo) per il suo tentativo di inserirsi nella “via della seta”, che ovviamente infastidiva i piani di Washington, proiettata all’idea di plasmare un’Europa che si rendesse sempre di più commercialmente isolata dall’Asia. Perciò, durante il governo tecnico immediatamente successivo (e, nello stesso modo di Scholz), anche Draghi ha coinvolto il nostro paese nel conflitto americano (condotto, come si dice, “su procura”), con la conseguente perdita di sicure provvigioni di energia, riforniteci dalla Russia. Di modo che, a causa della loro assenza, durante quest’inverno, verrà messa in ginocchio anche la piccola e media impresa italiana, già compromessa dal Covid: ovvero, quella “domestica”, orientata alla domanda interna e rimasta indipendente finora dalle esportazioni.

7. IL NEMICO ESTERNO DELLA UE E QUELLO INTERNO DELLA RENDITA
Giunti fin qui, mi chiedo allora se, anche sul piano politico, si possano trarre almeno alcune considerazioni di carattere generale. Credo di sì.
A) Tanto per cominciare, rifacendosi al modello di Arrighi, l’Italia, nonostante la macro-area mercantilista del lombardo-veneto, sembra collocarsi tendenzialmente nella traiettoria storica della vecchia Olanda. Questo non solo a causa della tradizionale predilezione (anche pre-Maastricht) della nostra classe imprenditoriale nei confronti della rendita che, a quanto pare, avrebbe impedito la formazione di grandi capitali. Ma anche perché la regione più produttiva del paese si trova in realtà in una posizione economica subalterna rispetto alla Baviera e alle sue catene del valore, che rifornisce di semi-lavorati a basso valore aggiunto (Caracciolo: 2017) [4]. Insomma, anche il nord Italia, in assenza di un’industria pesante come la FIAT e con una filiera votata ancora all’export, ma priva di un progetto industriale indipendente, credo che possa essere considerata, nel suo complesso, in pieno declino.
B) Va da sé che, nello stesso schema, la Germania occupi invece la posizione dell’Inghilterra. Con, tuttavia, la grande differenza che anche la classe mercantile del nord Europa si trova ora, suo malgrado, egualmente spacciata, in quanto parte del blocco di Paesi che sono al seguito della nazione egemone decadente: gli Stati Uniti.
1 – Dunque, se di fatto, nel breve periodo, sarà impossibile sottrarsi militarmente al controllo di una super potenza come quella americana, con un cambio di governo in chiave neo-socialista e molto meno filo atlantista, per noi sarebbe auspicabile, nel giro dei prossimi dieci anni, scegliere una politica economica nazionale che si sottragga a quella di impronta europea.
Al contempo (nell’auspicio che sparisca anch’essa il prima possibile), si potrebbe assumere comunque un ruolo più attivo nella NATO, affinché si riesca, quanto meno, a rinegoziare condizioni migliori per il nostro Paese nelle circostanze di conflitto come quelle attuali. In prima istanza, smettendo, ad esempio, di inviare le nostre armi all’Ucraina, e poi insistendo sulla necessità di cercare degli accordi diplomatici, che finora si sono voluti evitare di proposito, con la Russia.
In altri termini, la riconquista della sovranità popolare (e con essa, quella democratica) sarebbe un obiettivo che ci permetterebbe la recessione dai trattati UE, così come dal suo sistema monetario, per ripristinare una forma di politica autonoma, che sia in grado di ri-orientare la nostra economia fuori appunto dall’Unione. Ciò favorirebbe una crescita della domanda aggregata (investimenti pubblici + privati), svincolata dai parametri di Bruxelles, col fine di rilanciare l’industria pubblica, unico vero motore della produzione domestica, che smetterebbe di rimanere, in questo modo, un oggetto in balia delle fluttuazioni della domanda altrui: ieri sotto il giogo finanziario; oggi a causa di una guerra; domani per l’emergenza ambientale e poi chissà per cos’altro ancora.
Ebbene, questo ordine di scelte comporta parimenti, sul piano del conflitto sociale, anche una risoluzione dei conti, altrettanto urgente, con la classe mercantilista italiana. Quest’ultima, come nel caso cinese di Alibaba, dovrebbe infatti, almeno in parte, scendere a compromessi con un parlamento sovrano nell’accettare la consistente riduzione di una fetta dei proventi del mercato estero; in parte, se di export vogliamo continuare a parlare, dovrebbe però disinnescare progressivamente il suo legame con il continente e proiettarsi invece verso il Mediterraneo, il quale, da sempre, è stato il naturale asset strategico della penisola [5].
2 – In seconda battuta, si vuole mettere in evidenza come la Germania possa giovarsi, al momento, di un evidente vantaggio antropologico e culturale rispetto al nostro paese. In questa dichiarazione non vi è, da parte di chi scrive, alcuna sensibilità filo-estera. Si vuole soltanto constatare che, in assenza degli attuali squilibri geo-politici, la Germania sarebbe ancora in grado di godere di una prospettiva remunerativa, che invece mancherebbe sempre e comunque da noi. Nonostante i suoi contrasti interni, infatti, i tedeschi sono guidati da una classe alto borghese che è riuscita a mettere a frutto il potenziale dei suoi capitali, pur ancora all’interno di una visione organica nazionale del tutto diversa da quella servile e parcellizzata delle nostre classi dirigenti.

Mi spiego meglio. L’idea di sviluppo mercantilistico tedesco non sarebbe mai un orizzonte ideale da anelare in nessuna maniera, in quanto, diversamente dal modello socio-economico costituzionale italiano, si rivela aggressivo contro le altre nazioni e rapace nei confronti dei propri lavoratori meno abbienti. Inoltre, ne riscontriamo adesso tutta la vulnerabilità di fronte a degli shock esogeni come quello della guerra, a causa della sua dipendenza patologica dall’estero. Ma, quanto meno, ha avuto più senso finora della decadenza autoctona nostrana, di gran lunga la peggiore cui potevamo assistere fin dall’inizio della Repubblica.

8. CONCLUSIONE: EURO-EXIT E LOTTA DI CLASSE
Allora, qualsiasi movimento, o partito politico in Italia, che ambisca ad invertire, insieme alla rotta mercantilista, anche quella di un capitale speculativo, foriero di destabilizzazioni sistemiche, dovrà tenere a mente come, a prescindere dal vincolo esterno, di cui occorre liberarsi sicuramente il prima possibile, ce ne sia sempre uno però anche interno, legato ad una spinosa lotta culturale, e di classe, nell’ambito del paese medesimo di cui si fa parte. Questa, difatti, checché se ne dica, non è mai cessata. Ne consegue che l’obiettivo principe da realizzare consisterà sempre nello scongiurare, contemporaneamente, insieme all’ingerenza del capitale apolide e transnazionale della UE, anche la minaccia proveniente da quei ceti fanatici e improduttivi della rendita, che sono del tutto italiani ma non, per questo, meno pericolosi degli altri.


[1]Gallino L., L’impresa irresponsabile, i Torino: Einaudi 2005, cit. pg. 133-134.
[2] Arrighi G., Il lungo XX secolo, Milano: Il Saggiatore, 1994.
[3] Bagnai A., Il tramonto dell’euro, Imprimatur, Reggio Emilia, 2012.
[4] Caracciolo L., Perchè ci serve l’Italia, in Limes, n. 4/2017; http://www.limesonline.com/sommari-rivista/a-chi-serve-litalia.
[5] Id., L’Italia è il mare, in Limes, n. 10/2020.

Categorie
Economia Sport

Calcio: Super-League? “Created by the poor, stolen by the rich”

articolo di Pietro Salemi, Vice Presidente ESC

Il calcio è spesso specchio della nostra società. Se tutto è guidato da logiche di mercato e dalla massimizzazione dei profitti, non deve dunque stupire che anche il calcio abbia riprodotto, negli ultimi anni, una logica puramente aziendalistica. Non deve stupire neanche che in questo “gioco” del capitalismo predatorio, i grandi players globali legati a doppio filo a fondi speculativi e al mondo della finanza (nel calcio i “top club”), tendano a fagocitare le realtà di medie e piccole dimensioni, legate ancora ad una dimensione territorialmente circoscritta: anche nel calcio è in atto una sorta di lotta di classe dall’alto contro il basso. Diritti TV e sponsorizzazioni milionarie hanno acuito le disuguaglianze e i divari, rendendo, in buona sostanza, il pallone “meno rotondo”.

Infatti, se guardiamo all’albo d’oro della Serie A italiana, è facile scorgere un graduale processo di oligopolizzazione (invero, tendente negli ultimi anni ad un monopolio coincidente con quel gruppo di potere -non solo calcistico- chiamato Juventus sui campi da gioco ed EXOR sui panni da gioco della finanza). Raffrontando l’albo d’oro della Serie A nel periodo corrispondente al cd. “trentennio glorioso” (1945-1975), in cui il compromesso keynesiano rese possibile una graduale attuazione dei principi inscritti nella costituzione Repubblica, si scopre che in quel periodo lo scudetto fu vinto da ben 8 diverse squadre (Juventus 9 titoli, Milan e Inter 6, Fiorentina 2, Lazio, Cagliari e Bologna 1), corrispondenti a ben 6 città italiane, collocate, pur in maniera disomogenea, lungo tutto lo stivale. All’opposto, nelle ultime 3 decadi di pallone corrispondenti alla cd. “Seconda Repubblica”, in cui il compromessa keynesiano e l’economia mista furono sostituiti da una visione irenica della globalizzazione di matrice neoliberista, l’albo d’oro della Serie A accoglie solo 5 squadre: Juventus 14 titoli, Milan 7, Inter 5, Roma e Lazio 1. Le città che hanno potuto festeggiare uno scudetto si riducono a 3: Torino, Milano e Roma.

D’altronde, il drenaggio dal basso verso l’alto di potere calcistico è perfettamente rispecchiato dallo storico dei fatturati dei principali club europei. Nella comparazione ci aiuta la “Deloitte Football Money League”, ossi la classifica di club calcistici ordinata in base ai ricavi operativi. I dati di tale classifica sono disponibili dalla stagione 2004-2005. Al tempo la stessa vedeva in cima il Real Madrid (275,7 milioni di Euro), seguita da Manchester United (246,4 milioni di Euro) e Milan (234 milioni). Nella stagione in questione il divario tra il Real in prima posizione e la Lazio (che chiude la classifica in ventesima posizione con 83,1 milioni) è di “soli” 192,6 milioni di Euro. Guardando all’edizione 2018-2019 dell’entusiasmante “Deloitte Football Money League” si osserva come non solo i fatturati sono cresciuti in valore assoluto, ma è anche aumentato a dismisura il divario tra i club: la classifica è guidata dal Barcellona con 840,8 miliardi di Euro, seguita da Real Madrid (757.3) e Manchester United (711,5 milioni di Euro), e chiusa dal Napoli con 207,4 milioni di Euro. Il divario tra prima e ventesima ammonta, secondo la più recente classifica, a 633,4 milioni di Euro. Inutile argomentare oltre circa la sperequazione che ciò implica rispetto ai club di medie dimensioni o alle cd. “provinciali”.

In effetti, non serviva neanche questa dettagliata analisi per comprendere come il mondo del calcio, soprattutto nella sua evoluzione degli ultimi anni, era già diventato un gigantesco business in cui la dimensione umana, la sana competizione sportiva, la genuina passione dei tifosi sono divenuti ormai elementi accessori di contorno. Il calcio a stadi vuoti a cui ci siamo abituati durante la pandemia, non è che la conferma.

Tuttavia, il lancio di questa nuova super-Lega tra i top club più ricchi d’Europa segna uno scarto, un’accelerazione capace di segnare un prima e un dopo.

In questo “dopo”, non c’è alcuno spazio per la dimensione dei club medi o piccoli, per il calcio di provincia, per modelli virtuosi di crescita all’insegna della valorizzazione del patrimonio calcistico offerto dal proprio territorio di riferimento. L’ex ‘gioco più bello del mondo’ è ridotto a muscolare espressione economico-finanziaria: si parla  di un volume di affari pari a 7-8 miliardi di Euro l’anno da suddividere tra i 20 club partecipanti. E’ così che il colosso finanziario americano JP Morgan mette sul piatto circa 5 miliardi di dollari a copertura dell’iniziativa. Per chi non la conoscesse, JP Morgan risulta essere una delle principali banche d’affari responsabili di sottostimato, a proprio beneficio, i rischi che portarono crisi globale 2007-2008[1], generata dai derivati tossici e dai mutui subprime.

I club fondatori (15, secondo le previsioni) riceveranno già all’atto di adesione circa 1/2 miliardo di Euro e giocheranno questa competizione privata di diritto (rectius, di privilegio), a prescindere da qualsivoglia rendimento sportivo.

Vietati gli exploit degli outsider e i “miracoli sportivi”: niente più Leicester, Atalanta o Palermo dei tempi d’oro, o per andare più in là con gli anni, niente Cagliari di Riva, Verona di Bagnoli, o Samp di Vialli e Mancini. I campionati nazionali diventerebbero passerelle svuotate di significato e utilizzati per rodaggio, a mo’ di competizione per squadre B.

Gli stipendi dei calciatori della Super-lega raggiungeranno verosimilmente livelli inimmaginabili e incomparabili con le cifre di oggi (già folli). Le 15 squadre fondatrici si assicurerebbero così una posizione di esclusività e non contendibilità, anche rispetto ai 5 club che si qualificherebbero dalle competizioni nazionali: gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili, diceva una nota canzone di qualche anno fa.

Nonostante, questo progetto dei top club (che sembra già esecutivo) venga semplicisticamente accostato al modello statunitense dell’NBA, neanche nella patria del neoliberismo si arriva a tanto: sia pure per garantire spettacolo e competitività, nel caso NBA è fissato un salary cap e le modalità con cui si svolge il draft annuale garantiscono un certo effetto compensativo.

Ora, è anche ben possibile che lo strappo di queste ora sia stato segnato per strategia negoziale da parte dei top club al fine di ottenere una fetta di torta più ampia nella distribuzione dei budget e dei diritti TV da parte delle istituzioni del calcio. E’ anche plausibile che lo strappo venga ricucito per via diplomatica, procedendo ad ulteriori concessioni di favore rispetto agli interessi delle big. Tuttavia, ciò porterebbe, ancora una volta, ad un compromesso al ribasso rispetto ai valori dello sport e fair play: le pari condizioni di partenza e la contendibilità delle competizioni ne risulterebbero a fortiori pregiudicate da un ulteriore dose di doping finanziario.

Ciò offre anche l’occasione per riflettere sull’esempio che il calcio offre anche per le nostre società: la forbice delle disuguaglianze si amplia? Bene, invece di lavorare in senso perequativo, formalizziamo e istituzionalizziamo tali disuguaglianze in privilegi di diritto, sembrerebbero dire Florentino Pérez e soci. [Un po’ lo stesso retropensiero di chi, per curare i Mali della democrazia, tra il serio e il faceto, propone l’abolizione del suffragio universale]. Da questo punto di vista, la proposta della Super-League calcistica non rappresenta che la testa di ariete di un neoliberismo sempre più selvaggio, contraddistinto da delocalizzazione, finanziarizzazione e oligopolizzazione.

I soliti fedeli del pensiero unico e della Chiesa Mercatista, per non bestemmiare il dio denaro, faranno presto a dire che hanno tutto il diritto di farlo, che la grande qualità dello spettacolo offerto guiderà “come una mano invisibile” i tifosi verso una nuova normalità calcistica, che è giusto che, come ogni società di capitale, anche i Top club perseguano i propri interessi e la massimizzazione dei profitti.

Non essendo parrochiano della stessa chiesa, mi permetto di sostenere una visione forse romantica. Dovremmo intendere l’elenco dei club fondatori della Super-lega come una lista di proscrizione e procedere alla radiazione di questi club e dei loro dirigenti da tutte le competizioni, nazionali e internazionali, di ogni ordine e grado, per insanabile incompatibilità con i valori dello Sport.

Agli attuali miti del pallone multimilionario, mi piace contrapporre le leggende umane del calcio di provincia, come, ad esempio, Ezio Vendrame, calciatore, scrittore e poeta, genio e sregolatezza. Diversi sono gli aneddoti legati al “George Best italiano”, ex del Padova e della Lanerossi Vincenza. Particolarmente significativo nell’offrire la diversa dimensione di quel calcio anni ‘70, ancora a misura d’uomo, riguarda il tentativo da parte dell’Udinese (sua ex squadra) di comprare per 7 milioni di Lire una sua cattiva prestazione in Udinese-Padova. Il Padova, in cui militava Vendrame all’epoca, navigava economicamente in cattive acque e in quella stagione pagava i suoi giocatori al minimo sindacale di 22.000 Lire, così Vendrame inizialmente accettò la ghiotta proposta di vendersi la partita per una così lauta cifra (“avevo giocato male molte altre volte… e gratis”, racconterà anni dopo in una sua autobiografia ‘Se mi mandi in tribuna, godo’). Tuttavia, una volta entrato in campo, fu a tal punto irritato dai fischi ricevuti all’ingresso in campo dal suo vecchio pubblico friulano da cambiare idea, decidendo di “punire quel pubblico di ingrati”: Vendrame condusse il Padova alla vittoria per 3-2 con una sua doppietta di cui leggendario fu il secondo gol, segnato direttamente da calcio d’angolo: prima di tirare fece il gesto di soffiarsi il naso sulla bandierina del corner e indicò a gesti ai tifosi avversari che da lì avrebbe segnato direttamente, come puntualmente accadde.

Parafrasando Vendrame, “fanculo ai vostri milioni, viva le 22.000 lire”.


[1] https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/02/07/usa-new-york-times-jp-morgan-sapeva-da-tempo-dei-rischi-sui-mutui/492802/

Categorie
Economia Storia

Maastricht e tutto il resto

Articolo di Wynne Godley, ottobre 1992

segnalato da Valerio Macagnone, segretario ESC (2020-2021)

Moltissime persone in Europa si sono rese conto improvvisamente di quanto il Trattato di Maastricht potrebbe interessare direttamente le loro vite e quanto poco ne conoscano i contenuti. La loro legittima ansia ha spinto Jacques Delors a fare una dichiarazione secondo la quale il punto di vista della gente comune, in futuro, dovrebbe essere consultato. Avrebbe potuto pensarci prima.
Sebbene io sostenga il passaggio verso l’integrazione politica in Europa, credo che le proposte di Maastricht, così come sono, presentino gravi carenze, e inoltre credo che la discussione pubblica di queste proposte sia stata curiosamente, se non quasi completamente, limitata. Con il rifiuto danese, il quasi rifiuto della Francia, e la sopravvivenza del meccanismo di cambio messa in questione a causa dei saccheggi da parte dei mercati valutari, credo sia giunto il momento di fare alcune riflessioni.

L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i Paesi della CE dovrebbero muoversi verso l’unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma qual è il resto della politica economica da approntare? Poiché il trattato non propone alcuna nuova istituzione eccetto quella di una banca europea, chi sponsorizza tale trattato probabilmente crede che non occorra fare di più. Ma questo sarebbe corretto solamente nel caso in cui le economie moderne fossero dei sistemi soggetti ad una auto-regolazione i quali, di conseguenza, non avrebbero assolutamente bisogno di alcuna gestione.
Sono spinto a concludere che tale punto di vista – cioè che le economie siano organismi che si auto-regolano e che quindi mai e in nessun caso ci sia la necessità di una gestione di quest’ultime – ha effettivamente determinato la modalità con la quale è stato inquadrato il Trattato di Maastricht. Stiamo parlando della visione estrema ed esplicita, che da qualche tempo costituisce la “saggezza convenzionale” in Europa (ma non negli Stati Uniti o in Giappone), per cui i governi non siano in grado di raggiungere, e quindi non dovrebbero cercare di raggiungere, nessuno dei tradizionali obiettivi di sviluppo di una politica economica, come ad esempio la crescita e la piena occupazione. Tutto ciò che si può legittimamente fare, secondo quel punto di vista, è controllare l’offerta della moneta e il pareggio del bilancio. C’è voluto un gruppo in gran parte composto da banchieri (il Comitato Delors), per giungere alla conclusione che una banca centrale indipendente è l’unica istituzione sovranazionale necessaria per gestire una Europa integrata e sovranazionale.
Ma c’è molto di più. Bisognerebbe sottolineare fin da subito che la creazione di una moneta unica in Europa, a queste condizioni, porrebbe fine alle sovranità dei suoi Stati membri e quindi al loro legittimo diritto di agire indipendentemente sulle rispettive questioni principali del proprio Paese.
Come l’onorevole Tim Congdon ha sostenuto in modo molto convincente, il potere di emettere la propria moneta, attraverso la propria banca centrale, è ciò che principalmente definisce l’indipendenza di una nazione. Se un Paese rinuncia o perde questo potere, acquisisce lo status di un ente locale o colonia. Quest’ultimi, ovviamente, non subiscono una svalutazione ma non hanno, allo stesso tempo, il potere di finanziare il proprio disavanzo attraverso la creazione di denaro, devono rispettare la regolamentazione imposta da un organo centrale per ottenere altri metodi di finanziamento e non possono cambiare i tassi di interesse. Dato che gli enti locali non sono, quindi, in possesso di nessuno degli strumenti di politica macroeconomica, la loro scelta politica è limitata a questioni minori e puramente enfatiche. Penso che quando Jacques Delors pone enfasi sul principio di ‘sussidiarietà’, in realtà vuol dire che ci sarà consentito prendere decisioni in merito a un “maggior numero” di questioni relativamente importanti, più di quanto avremmo mai potuto immaginare. Forse ci permetterà di avere i “cetrioli con i capelli ricci”, dopo tutto. Come saremo fortunati!
Quel governo dovrebbe anche determinare il punto fino a dove qualsiasi “buco” tra la spesa e la tassazione è finanziato facendo intervenire la banca centrale e quanto verrebbe finanziato mediante un prestito e a quali condizioni. Come i governi decidono circa le sopracitate (e altre) questioni e la qualità della leadership che possono implementare, renderà possibile, in interazione con le decisioni degli individui, delle imprese e degli stranieri, determinare per esempio: i tassi di interesse, il tasso di cambio, il tasso di inflazione, il tasso di crescita e il tasso di disoccupazione. Il governo centrale di quello Stato sovrano potrà anche profondamente influenzare la distribuzione del reddito e della ricchezza, non solo tra individui ma anche tra intere regioni e assistere, si spera, quelle colpite dai cambiamenti strutturali.
Semplificare il discorso quando parliamo dell’uso dei suddetti strumenti è quasi impossibile e questo per via di tutte loro inter-dipendenze atte a promuovere il benessere di una nazione e a proteggerlo dagli attacchi di varia natura a cui sarà inevitabilmente sottoposto. Avrebbe difatti solo un significato limitato, per esempio, dire che i bilanci devono essere sempre in pareggio. Un bilancio in pareggio, per esempio con la  spesa e la tassazione entrambe al 40 per cento del PIL, avrebbe un impatto completamente diverso (e molto più espansivo) di un bilancio in pareggio al 10 per cento del PIL. Per farsi un’idea della complessità e dell’importanza delle decisioni macroeconomiche di un governo, uno potrebbe ad esempio domandarsi quale sia la proposta più adeguata circa la politica fiscale, monetaria e dei tassi di scambio di un Paese in procinto di produrre una grande quantità di petrolio e che deve confrontarsi con una quadruplicazione del prezzo del petrolio stesso. Sarebbe giusto non fare nulla? E non bisognerebbe mai dimenticare che nei periodi di crisi profonda, potrebbe anche essere adeguato per un governo centrale commettere un peccato contro lo Spirito Santo di tutte le banche centrali e invocare la ‘tassa da inflazione’ – deliberatamente appropriandosi di risorse riducendo, attraverso l’inflazione, il valore reale della ricchezza monetaria di una nazione. È stato, dopo tutto, per mezzo del tasso d’inflazione che Keynes propose di pagare la guerra.
Dico questo non per suggerire che la sovranità non dovrebbe essere ceduta per la nobile causa dell’integrazione europea, ma per affermare che se tutte le funzioni precedentemente descritte sono estranee ai singoli governi queste funzioni devono semplicemente essere assunte da qualche altra autorità. L’incredibile lacuna nel programma di Maastricht è che, sì contiene un progetto per l’istituzione e il modus operandi di una banca centrale indipendente ma, non esiste alcun progetto analogo, in termini comunitari, di un governo centrale. Eppure, ci dovrebbe semplicemente essere un sistema di istituzioni che soddisfi tutte quelle funzioni a livello comunitario e che sono attualmente esercitate dai governi centrali dei singoli Paesi membri.
La controparte per la rinuncia alla sovranità dovrebbe essere che le nazioni componenti dell’UE si costituiscano in una federazione a cui è affidata la loro sovranità. E il sistema federale, o di governo, come sarebbe meglio denominarlo, eserciterebbe tutte quelle funzioni, che ho brevemente descritto sopra, in relazione ai suoi Stati membri e con il mondo esterno.
Consideriamo due esempi importanti di ciò che un governo federale, responsabile di un bilancio federale, dovrebbe fare.
I Paesi europei sono attualmente bloccati in una grave recessione. Allo stato attuale, se consideriamo anche che le economie di Stati Uniti e Giappone stanno anch’esse vacillando, è molto poco chiaro quando avrà luogo un significativo recupero. Le responsabilità politiche di questa situazione stanno diventando evidenti. Tuttavia, l’interdipendenza delle economie europee è già così grande che nessun singolo Paese, con l’eccezione della Germania, si sente in grado di perseguire politiche espansive per proprio conto, perché ogni Paese che cercasse di espandersi dovrà presto confrontarsi con i vincoli di un bilancio dei pagamenti. La situazione attuale sta gridando ad alta voce per un rilancio economico coordinato, ma non esistono né le istituzioni, né un quadro di pensiero concordato che porterebbe a questo risultato, ovviamente, desiderabile. Si deve francamente riconoscere che se la depressione davvero volgesse al peggio – ad esempio, se il tasso di disoccupazione tornasse al 20-25 per cento degli anni Trenta – gli Stati membri dell’UE prima o poi eserciteranno il loro diritto sovrano di dichiarare il periodo di transizione verso un’integrazione, un disastro, e ricorreranno allo scambio reciproco di protezione e controlli – una economia di assedio, se vuoi. Ma questo equivarrebbe a un ritorno al periodo intercorso tra le due guerre.
Se ci fosse una vera unione economica e monetaria, dove il potere di agire in modo indipendente degli Stati membri fosse stato effettivamente abolito, una reflazione ‘coordinata’, di cui c’è così urgente bisogno ora, potrebbe solo essere intrapresa da un governo federale europeo. Senza tale governo, l’UEM impedirebbe un’azione efficace da parte dei singoli Paesi e non cercherebbe assolutamente di mettere a posto le cose.
Un altro ruolo importante che un governo centrale deve svolgere è quello di procurare una rete di sicurezza per il sostentamento delle regioni che si trovino in difficoltà a causa di problemi strutturali – a causa del declino di alcune industrie, per esempio, o a causa di qualche negativo cambiamento economico-demografico. Attualmente questo avviene nel corso naturale degli eventi, senza che nessuno se ne accorga, perché gli standard comuni dei servizi pubblici (per esempio, la sanità, l’istruzione, le pensioni e i sussidi per la disoccupazione) e un comune (si spera, progressivo) onere di tassazione sono entrambi generalmente istituiti da governi con sovranità monetaria. Di conseguenza, se una regione subisse un insolito grado di declino strutturale, il sistema fiscale genererebbe automaticamente i trasferimenti netti a favore di essa. In extremis, una regione che produrrebbe nulla non morirebbe di fame perché sarebbe titolare di pensioni, indennità di disoccupazione e il reddito dei dipendenti pubblici.

Ma cosa succederebbe, se un intero Paese – una potenziale ‘regione’, in una comunità completamente integrata – subisse una grave battuta d’arresto strutturale? Finché è uno Stato sovrano, potrebbe svalutare la propria moneta. Potrebbe quindi comunque implementare con successo politiche di piena occupazione se i cittadini accettassero il taglio necessario ai loro redditi reali. Con una unione economica e monetaria, questa strada sarebbe ovviamente sbarrata, e questa prospettiva sarebbe gravissima a meno che ci fosse la possibilità di adottare disposizioni federali di bilancio che abbiano una funzione redistributiva. Come è stato chiaramente riconosciuto nella relazione MacDougall, pubblicata nel 1977, ci deve essere un quid pro quo (controcambio) per abbandonare la possibilità di svalutare in termini di redistribuzione fiscale. Alcuni scrittori (come Samuel Brittan e Sir Douglas Hague) hanno fortemente suggerito che l’UEM, abolendo il problema della bilancia dei pagamenti nella sua forma attuale, risolverebbe davvero il problema, qualora esistesse, della persistente incapacità di competere con successo nei mercati mondiali. Ma, come il professor Martin Feldstein ha sottolineato in un importante articolo dell’Economist (13 giugno), questo argomento è alquanto pericoloso e sbagliato. Se un Paese o una regione non ha alcun potere di svalutare, e se questo Paese non è il beneficiario di un sistema di perequazione fiscale allora, un processo di declino cumulativo e terminale sarebbe inevitabile e condurrebbe, alla fine, all’emigrazione come unica alternativa alla povertà e fame. Sono d’accordo con la posizione di coloro (come Margaret Thatcher) che, di fronte a una perdita di sovranità, desiderano immediatamente scendere dal treno UEM (Unione Economica Monetaria). Simpatizzo anche con coloro che cercano l’integrazione europea ma, sotto la giurisdizione di una Costituzione federale, con un bilancio federale molto più grande di quello di un bilancio comunitario. Quello che trovo assolutamente sconcertante è la posizione di coloro che mirano a una unione economica e monetaria senza la creazione di nuove istituzioni politiche (a parte una nuova banca centrale), e che alzano con orrore le mani quando le parole ‘federale’ o ‘federalismo ‘ vengono pronunciate. Quest’ultima è la posizione attualmente adottata dal governo e dalla maggior parte di coloro che prendono parte alla discussione pubblica.


Fonte: Maastricht and All That di Wynne Godley articolo dell’ottobre 1992, Tradotto da Davide Provenzale

Categorie
Economia

Dai “ristori” ai “sostegni”: cambia il governo, restano gli “avanzi”

Articolo scritto da Pietro Salemi, vice-presidente di ESC

Il decreto “sostegno”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 22 marzo, rappresenta certamente il primo, vero banco di prova del governo Draghi, almeno per ciò che concerne le misure di sostegno all’economia necessarie a causa del protrarsi delle restrizioni anti-Covid. Prima di addentrarsi in una pur succinta analisi del decreto “sostegno”, è utile ripercorrere una breve cronistoria delle misure già predisposte nel corso del (già tragico) 2020 dal governo Conte II. Per ragioni di economia espositiva, l’approccio si concentra particolarmente sulle misure economiche a sostegno dei lavoratori: intendendo inclusi in questa macro-categoria (come contrapposta a quello dei cd. rentiers), sia i lavoratori dipendenti in senso stretto, sia le partita IVA e i piccoli imprenditori.

Il 17 marzo 2020 venne varato il decreto “cura Italia” con cui furono stanziati i primi 25 miliardi di Euro come risposta al divampare della pandemia che costringeva gran parte degli italiani a restare a casa, sospendendo ogni attività lavorativa “non essenziale”. Le principali risposte offerte dal “cura Italia” riguardavano blocco dei licenziamenti e varo della cassa integrazione in deroga, accesso agevolato al credito bancario garantito (in tutto o in parte dallo Stato), sospensione di alcune scadenze fiscali per le piccole imprese ed un primo stanziamento di risorse (invero, piuttosto blando) per il potenziamento del sistema sanitario nazionale.

I primi “ristori” a fondo perduto furono varati il 20 maggio 2020 con il Decreto “rilancio” in cui furono stanziati 55 miliardi complessivi, di cui 16 miliardi, appunto, per il fondo perduto alle imprese colpite dalla pandemia e dalle restrizioni anti-Covid (20% della perdita di fatturato tra aprile 2019 e aprile 2020). Inoltre, il decreto “rilancio” metteva sul piatto bonus per le partite IVA di 600 € per aprile e 1000 € per maggio destinati ai professionisti, crediti d’imposta al 60% per gli affitti degli immobili commerciali e per adeguamento locali e acquisto DPI, riduzione oneri sulle bollette, oltre al rifinanziamento della cassa integrazione, unito alla proroga del blocco ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. Il sito del MEF le battezza come le “misure per rimettere in moto il Paese”: il seguito si preoccupò di mostrarci quanto potesse invecchiare male tale locuzione propagandistica.

Alla vigilia del Ferragosto, il Decreto “Agosto” stanziava ulteriori 25 miliardi di Euro per contributo sulle forniture della filiera italiana, per il contributo centri storici e per l’ulteriore estensione della cassa integrazione fino al 31 dicembre (9+9 settimane).

Si arriva, così, alla “seconda ondata”, con il Decreto Ristori I di fine ottobre (5 miliardi totali di aiuti) con cui si provvede ad una riparametrazione (al 100%, 150%, 200% o 400%, a seconda del codice ATECO e del grado di invasività delle restrizioni anti-Covid) dei contributi a fondo perduto già erogati con il decreto “rilancio”. I coefficienti furono, in effetti, riaggiustati (al rialzo) anche con i successivi “ristori bis” e “ristori ter”, emanati rispettivamente ad inizio e a fine novembre 2020. Quest’ultimo decreto si preoccupava, inoltre, di estendere per i mesi di ottobre, novembre e dicembre i crediti d’imposta sugli affitti di immobili commerciali. Com’è tristemente noto, tali decreti “ristori” furono anche aspramente criticati, non solo per l’insufficienza complessiva dei fondi perduti messi a disposizione, ma anche per aver tagliato fuori, con criteri di ammissibilità ai benefici eccessivamente stringenti e restrittivi, svariate attività, lasciate ingiustamente senza alcun ristoro (o per ragioni di codice ATECO o perché start-up, effettivamente avviate dopo il maggio 2019, quindi con fatturato nullo ad aprile 2019).

Si chiude così l’anno 2020 dal bilancio catastrofico sia per le imprese e le famiglie, sia per il governo Conte, chiamato a sostenerle. Si consideri, infatti, che per ammontare complessivo dei sussidi, contributi a fondo perduto, cassa integrazione e sgravi fiscali, elargiti causa Covid, siamo, assieme alla Spagna, coloro che hanno ‘aiutato’ in misura più contenuta i propri cittadini/imprese nel confronto con i principali paesi dell’Unione, nonostante, al contempo, siamo stati la nazione che in Europa ha registrato il più alto numero di vittime a causa del Covid (dopo il Belgio) e, contestualmente, abbiamo subito il crollo del Pil più rovinoso di tutta l’Ue.

L’anno scorso ogni cittadino italiano ha ipoteticamente ricevuto 1.979 euro dallo Stato per fronteggiare gli effetti negativi provocati dalla pandemia, contro una media dei paesi dell’Area Euro che si stima in 2.518 euro pro capite (+539 euro rispetto alla media Italia). L’Austria, ad esempio, ha erogato 3.881 euro per ogni abitante (+1.902 euro rispetto a noi), il Belgio 3.688 euro (+1.709 euro), i Paesi Bassi 3.443 euro (+1.464 euro), la Germania 2.938 (+ 959 euro) e la Francia 2.455 euro (+476 euro rispetto all’Italia)[1].

Giungiamo così al recente “decreto sostegno”, con cui il cosiddetto “governo dei migliori” era chiamato ad offrire risposta non solo a tutte le carenze dei precedenti provvedimenti a firma Conte-Gualtieri, ma anche a oltre 4 mesi di totale abbandono di imprese e lavoratori al loro triste destino di chiusure a singhiozzo.  

Tale decreto riserva circa 12 miliardi in contributi a fondo perduto per imprese e lavoratori autonomi. Altri 10 miliardi andranno alla Cassa integrazione e altre forme di sostegno al lavoro, 2 miliardi alle infrastrutture e trasporti 1 miliardo per il reddito di cittadinanza e reddito di emergenza e infine 6 miliardi per sanità e vaccini, per un totale complessivo di 32 miliardi di Euro. Si tratta, dunque, di uno sostegno all’economia in linea, almeno in valori assoluti, con quanto già fatto in precedenza dalla premiata ditta Conte-Gualtieri, ma che, se spalmato sul periodo più ampio da ristorare (4 mesi, invece di 2), risulta ancor più esiguo e insufficiente.

Entrando nel merito sul tema ristori, cambia il metodo di calcolo, ma la sostanza resta pressoché la stessa, se non peggiore. Il ristoro a fondo perduto non si calcola più sulla base di un raffronto secco tra aprile 2019 e aprile 2020, bensì sulla base della perdita di fatturato media mensile tra il 2019 e il 2020. Così come disposto nei precedenti decreti, il contributo spetta a condizione che “l’ammontare medio mensile del fatturato e dei corrispettivi dell’anno 2020 sia inferiore almeno del 30 per  cento  rispetto  all’ammontare medio mensile del fatturato 2019” (art .1 comma 4 del Dl ‘sostegni’). Non devono, però, abbagliare le nuove percentuali di fondo perduto da applicare perdite di fatturato medio mensile: esse vanno dal 60% al 20% a seconda del volume d’affari dell’impresa in questione, ma sono, allo stesso tempo, calcolate su un singolo mese “medio” e destinate a coprire un periodo di almeno quattro mensilità (che va almeno da gennaio a fine aprile 2021, nella più ottimistica ipotesi). Lascio al lettore le operazioni aritmetiche di divisione di tali percentuali di ristoro spalmate su tali mesi da ristorare (con i relativi costi fissi) e le valutazioni del caso.

Tuttavia, per facilitare i conti riferiti all’intero anno 2020 da ristorare, possiamo affidarci al recente studio della FIPE[2], secondo cui con il decreto Sostegni il ristorante tipo che nel 2019 fatturava 550mila euro e che nel 2020, a causa degli oltre 160 giorni di chiusura imposti dalle misure di contenimento della pandemia da Covid, ha perso il 30% del proprio fatturato, 165mila euro, beneficerà di un contributo una tantum di 5.500 euro. Poco cambia per un bar tipo. Chi nel 2019 fatturava 150mila euro e ne ha persi 25mila a causa delle restrizioni, avrà diritto a un bonus di 1.875 euro, il 4,7% della perdita media annuale. Con i vari decreti Ristori prima, e il nuovo decreto Sostegni oggi, sono stati erogati – osserva lo studio FIPE- in tutto 22 miliardi di euro. Una cifra che non consente neanche la copertura dei costi fissi. Servirebbero, sempre secondo i calcoli FIPE, altri 18 miliardi per arrivare alla copertura di solo il 10% delle spese fisse che, nonostante tutto, una piccola impresa si trova comunque ad affrontare.

Non va certo meglio, se si guarda alla cassa integrazione e al blocco ai licenziamenti. Com’è noto, le due misure viaggiano a braccetto, seguendo il medesimo destino, e con il decreto “sostegno” si prevede la proroga degli ammortizzatori sociali, come segue: per una durata massima di 13 settimane nel periodo compreso tra l’1 aprile e il 30 giugno 2021 in relazione al trattamento di Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria (CIGO); per una durata massima di 28 settimane nel periodo compreso tra l’1 aprile e il 31 dicembre 2021 a titolo di assegno ordinario e cassa integrazione in deroga, destinati a piccole imprese artigianato e terziario. Se da un lato, la proroga di tali misure è da accogliersi favorevolmente quando la si compari con l’ipotesi di staccare immediatamente la spina a questi lavoratori, dall’altro, l’aver cominciato a tracciare una rimozione selettiva e progressiva di tale sostegni, lascia implicitamente intravedere già il momento in cui la situazione sarà lasciata alle sapienti cure della mano invisibile del mercato: 30 giugno per le CIGO e fine ottobre per la CIG in deroga.

Gli apologeti delle doti taumaturgiche del “governo dei migliori”, capitanato da Draghi, potrebbero rimanere delusi: al netto dello stralcio delle cartelle esattoriali fino a 5000€ della decade 2000-2010, i “sostegni” all’economia finiscono praticamente qui. Il decreto ‘sostegno’ risponde, in effetti, alla medesima logica di fondo già assunta con i precedenti ristori: non partire da ciò di cui ci sarebbe davvero bisogno per poi reperire i fondi necessari (un “what ever it takes”, si direbbe), bensì distribuire quel poco che è consentito rimediare senza mettere in discussione il sistema (del debito).

Con un calo del PIL del 9% nel 2020, con stime di crescita 2021 in continuo calo e con il virus che ancora divampa al ritmo di 400 morti  e 20.000 contagi al giorno, con 5,6 milioni di persone in povertà assoluta (record dal 2005, con un aumento di ben un milione nell’ultimo anno solare)[3], con una proiezione di disoccupazione 2021 che sfonda la doppia cifra (11%)[4] e con una quota sempre maggiore di lavoratori scoraggiati, con il 21% di tutte le PMI d’Italia a rischio fallimento e 544 piccole imprese fallite ogni giorno (!) nel 2020[5], della “distruzione creatrice del mercato”, profetizzata da Draghi, la “distruzione” non necessita altre didascalie.

La parte creativa? La distruzione del tessuto delle piccole e medie imprese italiane “crea” la predazione di tali attività (o per via acquisitiva o per semplice cattura delle quote di mercato) da parte di realtà di grandi dimensioni e possibilmente con struttura multinazionale (come ad esempio le mafie). Si tratterà di un’accelerazione dei processi di oligopolizzazione dei mercati, già in atto anche prima del Covid, che unito all’aumento della povertà assoluta “crea” un ulteriore e drammatico aumento delle disuguaglianze (economiche, politiche, culturali) di non poco momento anche per la tenuta democratica. Mercati (anche del lavoro, sempre più) oligopolizzati, povertà diffusa e disoccupazione crescente (soprattutto giovanile) “creano” maggiore ricattabilità da parte del datore di lavoro (ancora una volta, anche mafioso) e maggiore spinta al ribasso su diritti e salari.

Chi sperava in una miracolosa moltiplicazione di pani e di pesci, dovrà accontentarsi di una divisione di briciole e avanzi. Sarebbe meglio abbandonare la fiduciosa resilienza per passare alla resistenza.


[1] Fonte Ufficio Studi CGIA Mestre: cdhttps://www.adnkronos.com/covid-bonus-e-aiuti-a-cittadini-e-imprese-italia-ultima-in-ue_3steQqL51B1szvVUwH9KD

[2] https://www.fipe.it/comunicazione/note-per-la-stampa/item/7697-dl-sostegni-5-500-euro-ai-locali-che-ne-hanno-persi-165mila-fipe-confcommercio-una-fragile-stampella.html

[3] Fonte ISTAT:

https://www.huffingtonpost.it/entry/istat-la-poverta-assoluta-torna-a-crescere-e-tocca-il-record-dal-2005_it_6040b43fc5b617a7e412f0ae

[4] Fonte ISTAT: https://www.istat.it/it/archivio/251214

[5] Fonte Rapporto CERVED PMI: https://know.cerved.com/wp-content/uploads/2020/11/RAPPORTO-CERVED-PMI-2020-2.pdf

Categorie
Economia Geopolitica

Dominio di Marco D’Eramo

Recensione di Valerio Macagnone, segretario ESC (2020-2021)

“Non sarai tanto ingenuo da credere che viviamo in una democrazia, vero Buddy? È il libero mercato.”

L’esito della rivoluzione neoliberale può essere perfettamente compreso alla luce di questa battuta di Gordon Gekko nel film “Wall street” di Oliver Stone. Un esito che nasce da una storia abilmente narrata con la spinta suggestiva di nuove idee e di parole d’ordine vecchie e nuove, con la capacità strategica di usare a proprio vantaggio le elaborazioni teoriche avversarie, con la capacità di camuffamento verbale e con la forza finanziaria e mediatica di plasmare un immaginario collettivo che, in preda all’amnesia permanente dell’evoluzione storica della democrazie occidentali, non possiede gli strumenti culturali per poter operare i paragoni tra le diverse fasi della storia del pensiero umano e dei poteri costituiti. Marco d’Eramo, nel suo ultimo lavoro, mette in evidenza la forza delle idee, la straordinaria macchina di egemonizzazione del pensiero globale, ovvero la forza necessaria di legittimazione dei poteri statuali che operano nella nostra contemporaneità che se da un lato, intonano le dolci note della liberaldemocrazia nelle sue forme istituzionali e nell’esaltazione dell’individualità dei singoli, dall’altro lavorano incessantemente per forgiare la mente e imbolsire il carico di vita gregaria dell’Homo consumericus di cui il genio acuminato di Frank Zappa tesseva le “lodi”: “Il nostro sistema scolastico cresce ragazzi ignoranti e lo fa con stile: ignorantoni funzionali. Non forniscono loro gli elementi per studiare la logica e non danno alcun criterio per giudicare la differenza tra il bene e il male in qualsiasi prodotto o situazione. Vengono preparati per funzionare come macchine acquirenti senza testa, a favore dei prodotti e dei concetti di un complesso multinazionale che per sopravvivere ha bisogno di un mondo di fessi.”

La storia degli 8248 “think tanks” ovvero degli apparati ideologici che fungono da serbatoi di pensiero e la loro azione combinata coi finanziamenti delle fondazioni (Olin, Bradley, Heritage, Koch, ecc.) che con le loro raccomandazioni hanno influenzato l’azione politica di una ampia fetta della politica conservatrice a stelle e strisce dagli anni ’50 in poi, è la storia di una controrivoluzione che, al campanello d’allarme del comunismo sovietico e della sua poderosa forza d’ispirazione nelle democrazie semi-sovrane dell’Europa post-bellica, ha reagito con studio, pazienza e progressivo infiacchimento delle forze protagoniste dell’avanzamento socialdemocratico. L’impressionante movimento di denaro che ha sconvolto la democrazia statunitense agevolando e sostenendo le teorie neoliberiste negli ambienti accademici e mediatici, è un movimento che interessa e influenza la politica occidentale con il preciso scopo di instillare la statofobia presso gli ambienti culturali di rilievo onde poterne neutralizzare la capacità di influenza progressiva e riconfigurare i poteri pubblici verso nuovi fini (accumulazione di capitale e redistribuzione in senso regressivo). Uno Stato minimo e forte nella misura in cui la sua azione è diretta alla tutela degli interessi dominanti. Naturalmente il “dominio” aveva bisogno delle sue leggi, ma soprattutto aveva bisogno che queste leggi fossero ammantate da un’aura di imparzialità scientifica e di apparente impermeabilità alle ideologie. In definitiva, l’epoca della restaurazione neoliberale doveva apparire post-ideologica e lontana dalle zavorre del “pensiero”: “È quindi un’ideologia che, al pari di tutte le ideologie, si presenta come non-ideologica, a-ideologica, scientifica, a colpi di equazioni e formule matematiche.”[1]È un dominio che applica l’analisi costi-benefici sia ai rapporti economici, sia ai rapporti sociali, e che sperimenta una rivoluzione antropologica in cui la società è vista come un immenso gioco non cooperativo in cui gli individui-agenti razionali hanno come solo scopo la massimizzazione dei profitti.

La rivoluzione (da “revolutio” che indica il moto di ritorno di un pianeta alla sua posizione d’origine) dunque necessitava di nuovi dispositivi culturali e, nello stesso tempo, di un certo rigurgito di anti-democraticismo che rievocasse taluni aspetti retrivi dello Stato liberale, dei suoi schemi concettuali e dei suoi corollari di visione censitaria del vivere sociale, e nello stesso tempo se ne discostasse generando nuovi paradigmi come il target ideale della libera concorrenza e del governo per il mercato. Una rivoluzione invisibile, lontana dalla percezione collettiva che nel frattempo è stata anestetizzata dagli aspetti più teatrali e risibili dei mantra neoliberisti (il “get rich or die tryin’” del self-made man) e che ha introiettato il retroterra culturale di questo dominio alla stessa stregua dell’accettazione di una legge naturale. Dunque, negli States, mentre Christopher Lasch, autore de “La cultura del narcisismo”, organizzava convegni di divulgazione del pensiero di Antonio Gramsci dando un’originale interpretazione del populismo (“Il populismo è la voce autentica della democrazia”), d’altra parte, e con intenti finalisticamente opposti a quelli di Lasch, Michael Joyce, l’attivista conservatore a capo della Olin Foundation, tesaurizzava il pensiero gramsciano sull’egemonia finanziando l’accademico Alan Bloom come testa di ponte del pensiero conservatore/neoliberale all’interno dell’Università di Chicago. Un’operazione che mirava a contrastare e abbattere l’influenza della “New Left” negli ambienti accademici e che apriva la strada alle teorie neoliberiste di Milton Friedman, mentre in Italia, Federico Caffè, “l’ultimo baluardo” del keynesismo Italiano ammoniva il PCI sulle scelte di politica economica operate dal partito nel corso degli anni ’70 che, al tramonto del XX secolo, fecero colare a picco l’obiettivo economico-sociale dei costituenti e quanto fu sostenuto in sede di assemblea costituente dal demolaburista Meuccio Ruini, il quale replicando a Luigi Einaudi e alle ipotesi di “terza via”, disse: “Non pochi vanno affannosamente alla ricerca della terza strada. La troveranno? Non lo so. Questo so: che si avanza la forza storica del lavoro.”[2]

Nel contesto operativo della strategia portata avanti dai “Chicago boys”, le cui consulenze economiche furono particolarmente gradite al Cile di Pinochet, era necessario procedere al reclutamento di esponenti delle forze avversarie che, nell’arena agonistica della socialdemocrazia, portavano avanti le istanze della classe lavoratrice, e indebolire i residui retaggi di keynesismo nei partiti di centro-sinistra, per cui se negli States Jimmy Carter riteneva inopportuno l’intervento pubblico ai fini della risoluzione dei problemi sociali, dall’altro lato, la “Lady di ferro”, Margaret Thatcher, poteva tranquillamente sostenere che il suo più grande successo era il “New Labour” di Tony Blair. In effetti, ciò che accadde alle “sinistre” del mondo occidentale, si può spiegare alla luce dell’applicazione di un antico stratagemma bellico cinese: “Se vuoi fare qualcosa, fa in modo che il tuo avversario lo faccia per te (ovvero uccidere con una spada presa a prestito)”.

Il libro di Marco d’Eramo, dunque, ci spiega che i marines studiano l’ideologia e la sua forza rappresentativa e narrativa, mentre nelle sedi dei partiti riformisti e negli ambienti del ceto artistico-intellettuale del nostro Paese (ma non solo, ovviamente) il solo riferimento al vocabolario di classe, tanto in voga nel ‘900, e al suo tentativo impervio di contestualizzazione alla post-modernità, fa piovere accuse di paleo-socialismo su chi si azzarda a utilizzare le categorie del pensiero marxiano, socialista o cattolico-sociale in senso ampio, perché si sa: alla fine conveniva buttare via l’acqua sporca col bambino. Dunque, serviva un nuovo linguaggio culturale che riflettesse l’aziendalizzazione dei vari rami dell’amministrazione pubblica e che, attraverso anglicismi e neologismi mettesse in evidenza le nuove necessità da parte degli organismi pubblici di essere competitivi e all’altezza della sfida globale, e servivano i toni fatalistici utili a corroborare il sentimento di ineluttabilità dell’unico mondo unito dalle complesse reti di connessione economica. Il campo della politica viene così egemonizzato dalle logiche mercatistiche, tanto che come osservava acutamente Lasch “I partiti politici sono ormai specializzati nel pubblicizzare e vendere i loro uomini perché il pubblico li consumi, e persino la disciplina di partito si è gravemente allentata”[3] e ciò determina nuove modalità operative fondate sulle indagini di mercato atte a registrare, manipolare e banalizzare le opinioni del consumatore-elettore.

Di fronte alla lucida analisi retrospettiva dell’autore di “Dominio”, alla descrizione della trasformazione dei rapporti di forza e alla finanziarizzazione dell’economia che acuiscono la loro accelerazione in tempi pandemici (la “guerra invisibile” di cui parla l’autore), il discorso politico attende con la consueta lentezza una riorganizzazione delle forze popolari private delle loro “élite”, sapientemente reclutate al fine di aumentare la potenza di fuoco dei dominanti, i quali sanno dell’importanza strategica di creare vuoti e spazi invisibili. Invero, sanno dell’importanza delle parole e del silenzio, della guerra visibile e di quella invisibile e sanno cogliere il suggerimento che arriva dalla storia, ovvero sanno perfettamente che, come direbbe il re di Prussia Federico il Grande, “il cittadino non deve accorgersi che il re fa la guerra”. L’invisibilità e la proiezione inconscia degli schemi ideologici neolib sono quindi stati il “cavallo di Troia” delle nuove élite globaliste (“gli americani hanno colonizzato il nostro subconscio” direbbe uno dei protagonisti del film “Nel corso del tempo” di Wim Wenders) che agevolmente hanno potuto introiettare l’idea del credito al consumo, dei mutui trentennali e dell’uomo in quanto capitale umano che rivendica a sé il titolo di proprietà.

Un lavoro certosino di ripescaggio delle idee, che correttamente l’autore definisce “armi”, citando William Simon, non può restare indifferente alla capacità dei dominanti di creare una strategia “leninista” a sostegno dei loro interessi di classe, perché è solo in questo modo che ci si avvede della funzione della cultura in chiave contro-egemonica e della sua capacità di elaborare nuove frontiere di competizione politica e un nuovo immaginario simbolico a connotazione marcatamente popolare. D’altronde se è possibile scegliere diversamente dal dominio della libertà, allora è possibile essere eretici (dal greco “haìresis” che significa scelta) fino ad allora, per citare il Signor G, “ognuno suona come vuole e tutti suonano come vuole la libertà”[4].


[1] Marco D’Eramo, “Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi”, cit., p. 57

[2] Meuccio Ruini, Discussione generale del progetto di Costituzione della Repubblica Italiana, 12 Marzo 1947

[3] Christopher Lasch, “L’io minimo, Politica come consumo”, cit., p. 32

[4] Giorgio Gaber, “L’America” dall’album “E pensare che c’era il pensiero”

Categorie
Costituzione Economia

Draghi, il PUL e la democrazia che non ci possiamo permettere

Articolo scritto da Pietro Salemi, vice-presidente di ESC

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con Mario Draghi, Presidente della Banca Centrale Europea

Chi avesse perso gli ultimi giorni di politica, potrebbe stupirsi. Chi ne ha seguito, con occhio vigile e critico, gli ultimi 30 anni, prova molta amarezza e poco stupore. E’ bene, comunque ricapitolare le ultime convulsioni della Repubblica.

Conte ha definitivamente lasciato Chigi e ha tenuto una conferenza stampa su un tavolino in mezzo alla strada.

La Lega di Salvini offre il sostegno a Draghi, dichiarando che sull’Unione Europea e sull’Euro aveva scherzato.

I 5Stelle, come sempre, sono passati dal No, al ni, al Sí a Draghi e si accodano, perciò, non solo a Renzi, ma anche a Berlusconi, Salvini, Zingaretti, Bonino e Calenda ed altri centristi vari. Nel frattempo, si mette in scena un voto della base tramite la piattaforma Rousseau. Una consultazione a babbo morto, posto che l’ex-Goldman Sachs ha già ricevuto l’endorsment dall’intero gotha del MoVimento (ex-)populista.

LeU ci pensa: in realtà Speranza e Bersani scalpitano per entrare, mentre a Fratoianni non è piaciuto com’è iniziata la cosa e gli viene forte andare al governo con Salvini (mentre con Forza Italia, alla fine, non c’è problema).

Unica cosa davvero sconcertante: quasi tutte queste forze chiedono un governo politico (sic!), forse non capendo che la formula del governo “tecnico” serviva proprio da foglia di Fico per i casi, come questo, di commissariamento della politica.

Dicevo, “quasi”, perché in tutto quell’agglomerato che va da Forza Italia al PD, va bene davvero tutto purché si faccia il governo di San Mario Draghi da Goldman Sachs.

Non manca più nessuno, neanche i liocorni. Anzi no, manca Giorgia Meloni che nel frattempo nega l’appoggio a Draghi e si mette comoda in poltrona a mangiare i famosi “pop corn” di renziana memoria, offrendo eventualmente un’astensione benevola.

Dal punto di vista del profilo politico del Governo Draghi, si deve solo constatare che sarà semplicemente (e a gran richiesta) il governo dei mercati, presieduto da un banchiere, con un prestigioso curriculum nelle alte sfere della finanza mondiale. Per ciò stesso sarà un governo estremamente politico, anche al netto di qualsiasi distribuzione di dicasteri: si dovrà scegliere se confermare o abolire il reddito di cittadinanza, quota 100, il turn over nella P. A., la cassa integrazione covid, il divieto di licenziamento, le restrizioni alla libertà di circolazione e alle aperture delle attività commerciali, i ristori alla aziende colpite dalla pandemia e via di seguito. Al netto di ciò, dovranno anche effettuarsi scelte strategiche in merito al Recovery plan: non tanto e non solo nell’allocazione dei fondi del Recovery, quanto più nelle scelte più dolorose che dovranno compiersi per ottenere quei fondi, sia in termini di maggiore contribuzione dell’Italia al bilancio UE, sia in termini di riforme richieste dalla Commissione per l’erogazione delle tranche.

Non deve stupire che su tali questioni politiche dirimenti possano trovarsi convergenze tra tutte queste forze così apparentemente eterogenee. Infatti, eccettuati i temi etici e i diritti civili, su cui ancora esiste una certa contrapposizione (almeno di facciata e sempre a favore di telecamera) lungo l’ormai obsolescente crinale destra/sinistra, l’affinità delle ricette economiche e sociali è pressoché totale. Siamo di fronte a correnti di un medesimo partito (il Partito Unico Liberal-Liberista) che ben possono trovare la quadra attorno ad un leader carismatico come SuperMario Draghi, domatore di mercati.

Pur senza avere poteri di preveggenza, non è difficile immaginare il core dell’agenda di Draghi: accanto alle solite riforme richieste dalla UE (P. A., giustizia civile e fisco), si procederà allo sblocco dei licenziamenti e alla fine della cassa integrazione covid e della politica dei ristori alle imprese e, infine, alla rimozione delle misure simbolo della breve stagione populista del Governo Conte I (reddito di cittadinanza e quota 100). Se resterà tempo a sufficienza, Draghi procederà anche in prima persona a quello che viene visto come un efficientamento e snellimento della macchina pubblica, attraverso l’ulteriore privatizzazione dei servizi e del patrimonio pubblico. Più in generale, sotto il profilo politico e internazionale, il Governo Draghi è la plastica rappresentazione dell’abdicazione della classe politica italiana al “vincolo esterno”, in chiave atlantista ed europeista.

Proprio per la sua capacità di rappresentare meglio di chiunque altro i vincoli euroatlantici in Italia, Draghi ha già raccolto il placet dello spread, di Confindustria e della finanza tutta, mentre i giornalisti (dalla carta stampata alla TV), in totale sollucchero, si lanciano ormai in operazioni agiografiche e di culto della personalità talmente spericolate, da far apparire Chuck Norris come uno di noi.

Come tutti i più recenti epifenomeni covid, anche il PUL c’era già, solo che ora è più evidente.

Quest’orgia neoliberista attorno alla figura di chiaro profilo tecnocratico di Draghi ha, comunque, il merito di consegnarci un momento verità: è, infatti, proprio nei momenti di crisi più profonda che i vari attori politici rivelano la propria anima più profonda e la composizione di classe che rappresentano. In quest’ultimo senso, si può solamente registrare che il démos, il “fronte popolare”, quello dei lavoratori, di chi vive del proprio lavoro, non è della partita.

Non è purtroppo un’assenza casuale. L’aspetto, forse più preoccupante, è infatti la retorica anti-popolare e, in ultima istanza, anti-democratica che si registra in questi giorni. Da un lato, politica e media mainstream acclamano la nascita di un “governo dei migliori”, in greco aristocrazia; dall’altro, la narrazione dominante è permeata dalla perniciosa idea secondo la quale i fini pubblici sono pre-determinati rispetto al fluire di una politica che è chiamata alla semplice applicazione, tecnica appunto. Tali fini verrebbero così a essere liberamente determinati impersonalmente dai mercati ed esplicitati per bocca della istituzione UE (il cd. “Bruxelles consensus”), di guisa che non resterebbe che avere governanti abbastanza “competenti” da fare bene i compiti per casa.

Le stesse elezioni si rivelano, in quest’ottica, un ingombrante impaccio cui, talvolta, è necessario porre rimedio per vie traverse per evitare che mantenere la superstizione della democrazia diventi troppo costoso. Lo stesso svolgersi della democrazia rappresentativa, nelle sue forme elettorali e parlamentari, è oggetto del trascendente “giudizio dei mercati”, cui è necessario conformarsi, di dritto o di rovescio. Così, vuoi per non perdere la fiducia degli investitori, vuoi per lo spread, vuoi per rafforzare la lealtà alla UE, vuoi per la pandemia, il ritorno al voto e all’espressione della volontà popolare viene vista, nel discorso pubblico, come qualcosa da rifuggire come la peste.

Abbiamo toccato quello che è certamente un punto di minimo storico nell’intensità della democrazia-costituzionale italiana. Pur nel rispetto delle forme, si sono create smagliature sempre più ampie tanto a livello di rispetto della cd. Democrazia formale, quanto di quella sostanziale. Sotto il primo profilo, si pensi alla prassi dell’abuso delle decretazione d’urgenza, alla perdita di centralità del parlamento (di recente menomato persino nella sua composizione numerica), al fenomeno del trasformismo, al ricorso sempre più strutturale a governi tecnici e del Presidente, ad una fisarmonica dei poteri del Presidente della Repubblica ormai parecchio dilatata. Sotto l’aspetto sostanziale, basti tener presente che i diritti fondamentali (e segnatamente quelli sociali), nei quali la democrazia trova la sua linfa vitale, sono ad oggi validi solo a “bilancio invariato” ed entro i limiti del vincolo esterno.

L’avvento messianico di Mario Draghi al governo lascia presagire che lo sforzo di deformazione della democrazia che le élite del Paese stanno producendo da anni rischia di essere ormai anelastico: sembra proprio che la democrazia non ce la possiamo più permettere. Tutto ciò è ovviamente avvenuto anche e soprattutto per la compiacenza delle forze politiche che pretenderebbero di rappresentare gli interessi delle fasce più deboli della popolazione. Avendo perduto financo la capacità di leggere la conflittualità degli interessi in gioco, a queste forze non resta che unirsi al coro: “Draghi o muerte!”.

Categorie
Economia

Biden lancia “Buy American”

Articolo di Giuseppe Matranga, socio fondatore ESC

In tutto il Paese troppe aziende stanno per chiudere i battenti a causa della crisi che dobbiamo affrontare. Hanno bisogno di un aiuto urgente. Ecco perchè oggi agirò per sostenere loro e i loro lavoratori”, ha cinguettato su Twitter il presidente Usa.

Foto tratta da Affaritaliani.it

A quanto sembra, anche il lato più arcobaleno della politica d’oltreoceano, quella cosiddetta antisovranista e noborder, si è accorta che favorire il mercato dei prodotti interni non è poi così male. Qualcuno provi a spiegarlo alla nostra geniale quanto progressista classe politica che, anche in ottemperanza alle regole altrettanto vantaggiose di matrice europea, investe i fondi pubblici in forniture di beni stranieri o in infrastrutture costruite con beni e macchine straniere. Certo una qualche differenza ci sarà. Nel caso americano, quello perseguito da Biden, e in perfetta continuità con l’atteggiamento del suo predecessore Trump, la spesa pubblica viene immessa nel territorio nazionale fornendo sí beni e servizi a vantaggio della collettività, ma anche la parte finanziaria, ovvero il denaro, rimane dentro il territorio nazionale, favorendo la creazione di ricchezza, l’aumento dei salari e di lavoro nei territori di spesa e arricchendo, così, più volte l’intera economia nazionale attraverso quello che viene chiamato “moltiplicatore”. Nel caso nostrano, ahi noi, la spesa pubblica troppo spesso viene direzionata verso beni e servizi di importazione, conseguentemente la collettività ottiene si dei benefici, ma la componente finanziaria va a disperdersi immediatamente fuori dai nostri confini nazionali, senza generare ricchezza e senza moltiplicarsi. Beh ci sarà da chiedersi come mai ad esempio la “Police” americana utilizza solo automobili Ford e Dodge, mentre noi, obbligati dalle generose norme europee, vediamo le nostre forze dell’ordine a bordo di Seat, BMW, Toyota, etc. e non più Fiat, Alfa Romeo, come accadeva una volta.

Autarchia? No, semplice buon senso e volontà di aiutare i lavoratori.

Categorie
Costituzione Economia

Stato, comunità e democrazia (consumatori o cittadini?)

Articolo di Valerio Macagnone, segretario ESC (2020-2021)

Nello scenario odierno ricorre con una certa metodicità l’appello progressista a nuovi processi di identificazione individuale e collettiva che mettano da parte parole come “Stato” e “comunità” viste come un retaggio di un passato anacronistico destinato a non vedere nuova luce. Si costruiscono e distruggono comunità virtuali a ritmi incessanti, si promuovono nuove identità al fine di rassicurare l’individuo e inserirlo in gruppi dove esiste un ancoraggio precario. Tuttavia, come sosteneva il sociologo Zygmunt Bauman “la fiducia è stata bandita dal luogo ove ha dimorato per la maggior parte della storia moderna. Ora vaga qua e là alla ricerca di nuovi approdi, ma nessuna delle alternative a disposizione è riuscita fino a questo momento a eguagliare la solidità e l’apparente naturalezza dello Stato-nazione”.[1]

A fronte di questa evidenza le forze progressiste in Italia e, in senso lato, nel “mondo occidentalizzato”, non riescono a offrire una soluzione allo scontro con le forze globali e stentano a riconoscere il patriottismo costituzionale come un’opzione realistica. Si esercitano forze di resistenza contro le rivendicazioni di sovranità con etichette calunniose e si ostenta snobismo per l’istintiva ricerca di comunità associandola a primitivismi intellettuali. Tuttavia, fin quando la sinistra liberale e antagonista continuerà ad utilizzare le categorie di resistenza (riferite esclusivamente ai rigurgiti neofascisti e non alla globalizzazione) per analizzare la realtà contingente nel continente europeo, andrà incontro a pesanti ridimensionamenti del proprio consenso elettorale, fornendo un assist, più o meno coscientemente, alle destre più reazionarie ed estreme, che, se da un lato parlano, ingannevolmente, di “sovranismo” dall’altro fanno l’occhiolino alle élite dominanti per la conservazione delle attuali relazioni di potere.

Fin quando non si capirà, dunque, che la dimensione privilegiata per le lotte sociali (redistribuzione della ricchezza, previdenza, assistenza e sanità pubbliche, nazionalizzazione delle fonti produttive) è rappresentata dalle istituzioni statali e quindi dallo Stato inteso come luogo in cui si cristallizza una tensione pluralistica e conflittuale e allo stesso tempo produttiva di un ordinamento in cui “libertà” e “uguaglianza” non si sopprimono reciprocamente, e fin quando non si capirà che difendere la “democrazia”, non significa semplicemente difenderne gli aspetti formali (elezioni, multipartitismo, ecc.) ma anche e soprattutto gli aspetti sostanziali (uguaglianza e sovranità popolare), si cadrà vittime di una rappresentazione strumentale e tendenziosa, che tende a svilire tutti i fenomeni politici dal “basso” che rivendicano un ruolo attivo dello Stato nei processi economici (finanza funzionale).

D’altra parte è proprio la Costituzione italiana del ‘48 a contemplare l’attuazione del principio di uguaglianza sostanziale (art. 3 comma 2) che richiede espressamente che lo Stato assolva un compito di indirizzo, coordinamento e programmazione al fine di realizzare un ordinamento orientato ai principi di utilità e benessere sociale, al contrario di quanto avviene nell’ordinamento ordoliberale dove lo Stato assolve una funzione di regolazione della concorrenza. È evidente, pertanto, che si tratta di due concezioni della sovranità che definiscono diverse funzioni dello Stato e che rispondono a due filosofie di organizzazione dei rapporti sociali ed economici in conflitto tra di loro: da una parte l’esercizio della sovranità popolare indirizzato al “Welfare”, dall’altra il modello ordoliberale europeista che tende a disciplinare lo Stato dissolvendone le funzioni sociali e a ridurlo all’incarico di intermediario coloniale e di terzo regolatore.

Non può eludersi quindi che la difesa della democrazia, non passa dal moralismo contabile o dal semplice formalismo dei meccanismi elettorali, ma tenendo conto dell’integrazione degli interessi popolari nell’arena delle contese elettorali. Fu proprio il filosofo del diritto Norberto Bobbio in una delle sue opere (“Il futuro della democrazia”) a mettere in evidenza l’obiettivo del neoliberalismo: dapprima la sconfitta del socialismo nella sua versione collettivistica, in seguito la sconfitta della socialdemocrazia keynesiana e in definitiva la sconfitta della democrazia tout court, il tutto con un’offensiva portata avanti con l’astuta arma retorica degli sprechi, della burocratizzazione, della corruzione e delle inefficienze. Un processo, quello dell’offensiva diffamatoria, che ricorda l’atteggiamento semplicistico con cui viene affrontata la questione meridionale in Italia, benché i dati offerti dai Conti pubblici territoriali ci rappresentano una realtà lontana dalla pretesa uniformità di trattamento in tema di investimenti pubblici, e che allontana dalla comprensione del fenomeno della “meridionalizzazione” dell’Italia nel contesto dell’Unione europea.

L’attacco allo Stato-benessere con la sua cornice giuridica di protezione sociale e di repressione delle rendite finanziarie, è in definitiva un attacco alla democrazia partecipativa, perché spoglia i cittadini delle rivendicazioni più radicali, fornendogli nello stesso tempo, l’anestetico sociale della libertà dei consumi e un habitus psicologico conservatore. Lo Stato sociale così si trasforma in una repubblica impoverita e depauperata dei suoi strumenti di intervento atti a garantire la democratizzazione degli interventi pubblici, e la democrazia rappresentativa si trasforma in una democrazia elettorale dove l’apatia politica non solo non è scoraggiata, ma è pienamente tollerata se non promossa. Eppure, se si osserva la storia d’Italia, nel contesto dello Stato liberale dell’ottocento le battaglie dei democratici e dei radicali, erano mirate alla realizzazione della democrazia all’interno della cornice statale con l’estensione del suffragio (“il suffragio universale è alla base della giustizia sociale” scrisse Garibaldi al repubblicano Giovanni Bovio[2]), le battaglie dei socialisti e comunisti nel dopoguerra, prendevano in considerazione paritaria la questione nazionale e la questione sociale rimarcando la necessità dell’indipendenza economica da monopoli e oligopoli. Tutte queste battaglie per la giustizia sociale muovevano da premesse strutturali opposte a quelle odierne: Sovranità popolare, socialismo e comunità (quindi partecipazione), d’altra parte l’attuale sistema ordoliberale europeo o neoliberale in senso ampio, costruisce i sistemi normativi a partire dalle seguenti premesse strutturali: individualismo, consumismo e filosofia della competizione. Ogni riferimento alla sovranità nazionale e popolare è stigmatizzato in nome di una non meglio precisata sovranità europea o globale in cui dovrebbero introdursi le istituzioni “europee o globali” di controllo democratico. L’unico esercizio di sovranità consentito è quello del consumatore, un attore svincolato da ingerenze nazionali il cui unico principio guida è la ricerca del “comfort” temporaneo.

D’altra parte, torna di rilievo il tema della comunità che, secondo il sociologo Ferdinand Tonnies, implica un rapporto di vicinanza dal punto di vista linguistico, sentimentale, storico e delle consuetudini che palesa come la struttura comunitaria, a differenza di quella societaria fondata sullo scambio di utilità, possa esistere solo nella misura in cui esistano questi vincoli di appartenenza e di partecipazione spontanea. Pertanto, alla domanda “esiste una comunità europea?” si può efficacemente rispondere che risulta difficile credere a un rapporto comunitario se è proprio il TUE all’articolo 3 a ricordarci che l’Unione instaura un mercato interno fondato sulla forte competitività. Uno stato di competizione costante che di fatto fa cadere in oblio il principio di comunità. È interessante quanto ci fa notare l’antropologo Marco Aime in tema: “Quando i governi si riferiscono all’UE come a una comunità, lo fanno in modo retorico, proiettando su un’alleanza politico-economica tratti e valori auspicati, tipici della comunità tradizionale. Quando gli abitanti di Lampedusa o di Canazei parlano della loro comunità, invece, si riferiscono a una realtà di fatto”[3].

Ebbene, al di là della ricostruzione fiabesca di un villaggio globale in cui, in virtù del semplice principio dell’interdipendenza economica (trascurando il fatto che il diritto internazionale è governato dai rapporti di forza) si verrebbe a instaurare la provvidenziale armonia universale, in nome di un sovranazionalismo democratico (trascurando il fatto le organizzazioni internazionali di carattere economico funzionano con una governance tipica delle società di capitali), resta un piano di analisi che mette in luce che una comunità esiste là dove è presente uno Stato nel cui ordinamento si segue una precisa idea di bene comune e di economia al servizio del bene comune. Non è un caso che la nostra Costituzione prefiguri un modello di Stato-comunità in contrapposizione allo Stato-apparato: un modello in cui il popolo è reso partecipe delle decisioni sovrane della politica attraverso le istituzioni rappresentative e i corpi intermedi, e in cui il popolo è votato al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 Cost.). Non è un caso che le limitazioni di sovranità di cui parla l’art. 11 della Costituzione siano preordinate esclusivamente (e in condizioni di parità con gli altri Stati) alla costituzione di organismi che tutelino la pace e non la “concorrenza”. Tutto ciò ci suggerisce che lo scontro tra Stato-comunità e organismi internazionali, non può essere banalizzato entro le categorie dialettiche post-moderne, ma deve essere posto sotto i riflettori di un’attenzione pubblica che metta in rilievo il conflitto tra una costruzione sociale che riconosce contemporaneamente l’iniziativa personale e un principio di comunità, e un ordinamento che tutela la concorrenza in funzione del “benessere del consumatore” e operare di conseguenza una scelta: una scelta che divide coloro che esistono solo come consumatori e coloro che, rievocando una meditazione di Marco Aurelio, decidono di essere cittadini dell’universale città umana.


[1] Zygmunt Bauman, “Intervista sull’identità”, cit., p. 51

[2] Giuseppe Garibaldi, “Lettere e proclami”, Edizioni librarie siciliane, cit., p. 159

[3] Marco Aime, “Comunità”, cit., p. 8

Categorie
Economia

Negazionismo economico

Articolo scritto da Pietro Salemi, Vice Presidente di ESC

Negazionismo economico. Il 2021 inizia con due notizie: una bella e una brutta. Cominciando da quella buona, la narrazione neoliberista è culturalmente in crisi, il mito del deficit si sta sgretolando e l’intervento dello Stato nell’economia non è più un tabù. La brutta notizia è che l’appartenenza all’Unione Europea ci costringe ad un negazionismo economico, non meno pericoloso di quello sanitario.
Ora, persino l’OCSE riesce a mostrare quanto i trattati dell’Unione Europea siano insensati e inadeguati alle grandi sfide del presente.
Laurence Boone, capo economista dell’OCSE, nella sua ultima intervista al Financial Times, suggerisce che in futuro non sarà più giustificabile politicamente il concetto di scarsità di moneta: “le banche centrali e i governi di tutti i paesi avanzati hanno messo in campo livelli senza precedenti di stimoli economici con l’obiettivo di alleggerire il pesante impatto economico che il Covid-19 ha sull’economia. […] Dopo la crisi le persone chiederanno da dove sono arrivati tutti questi soldi, i governi faranno fatica a rispondere a questa domanda e a giustificare un loro disimpegno economico su le tante altre crisi che affliggono la nostra società come ad esempio, i cambiamenti climatici e i costi sociali per le fasce lasciate indietro dalla crisi del covid-19. […] Il problema nel 2008/2009 non è stato il poco stimolo iniziale ma l’aver fatto politiche di austerità nei successivi anni post crisi”.

Il Governo italiano, invece, nella Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza -presentata pubblicamente dal Premier Giuseppe Conte, dal Ministro Gualtieri e deliberata dal Consiglio dei Ministri il 5 Ottobre, scrive: “Nel biennio successivo l’intonazione espansiva della politica di bilancio si attenuerà gradualmente fino a raggiungere un avanzo primario di 0,1 punti percentuali e un indebitamento netto in rapporto al PIL del tre per cento. Nel 2022 verrà quindi recuperato il livello del PIL registrato nell’anno precedente la pandemia. Nell’arco del prossimo triennio il rapporto debito pubblico/PIL sarà collocato su un sentiero significativamente e credibilmente discendente.”

Ciò significa che nell’arco del prossimo triennio torneremo a far registrare forti avanzi primari. detto più chiaramente lo stato tasserà più di quello che restituisce in servizi e trasferimenti ai cittadini, come ormai avviene ogni anno degli ultimi 30, salvo il 2020 della pandemia globale.
Cosa vuol dire? Nell’arco del prossimo triennio, il moltiplicarsi di povertà, disoccupazione, criminalità, chiusura di moltissime piccole e imprese, decadimento dei servizi pubblici essenziali. Al sud sarà il solito bivio: briganti o emigranti.

Perchè il Governo lascia accadere ciò?
E’ la gabbia austeritaria dell’Unione Europea, proprio così come disegnata dai trattati: parametri di Maastricht, pareggio di bilancio, MES ecc. Tutto ciò è, ovviamente, accompagnato dall’acquiescenza di una classe politica servile agli interessi transfrontalieri della finanza e ostile al lavoro e ai diritti sociali fondamentali.
La pandemia ha cambiato molte cose, ma i trattati restano (beffardamente) gli stessi di sempre, nonostante il panorama politico sia da anni affollato da sedicenti “altreuropeisti”.

Categorie
Economia

Se il Governo cerca soldi, non ha che da guardarsi allo specchio

Articolo scritto da Giuseppe Matranga, socio fondatore ESC e Coordinatore gruppo di lavoro Economia

Ci sono oltre 60 mld di “soldi freschi” e il governo non li usa.

Meno 10% ė la perdita di PIL italiano nel solo 2020, chiunque millanti un rimbalzo nel prossimo anno è un illuso o un mentitore, il rapporto debito pubblico su PIL cresce a circa il 160%, ovvero quasi 30 punti percentuali in un solo anno. Niente di buono tra queste prime poche righe.

Tra fine marzo e aprile c’erano già alcuni sognatori come me (si fa per dire), che auspicavano a gran voce una forte esposizione dello Stato affinché intervenisse prontamente con una immissione positiva di denaro pubblico, in modo da sostenere la perdita di investimenti e consumi tramite la spesa pubblica, imploravamo una grande emissione di titoli sostenendo peraltro che il sopracitato rapporto debito/pil sarebbe cresciuto in egual misura sia per effetto della diminuzione del denominatore della frazione , sia per effetto di crescita del numeratore.

In grave ritardo, dopo mesi, a poco a poco, il governo è intervenuto attraverso i vari “scostamenti”, ovvero l’autorizzazione ad aumenti di deficit via via più consistenti, grazie anche alla sospensione momentanea di tutti i parametri imposti da Maastricht,  dal Fiscal compact e da un cambio drastico sulla linea di governance della BCE, che tanto graziosamente, dopo anni di austerità anti-inflazione (in realtà veniamo da anni di deflazione ) ha iniziato a fare il normale lavoro di una banca centrale.

Mentre il confronto politico tra forze di governo e di opposizione si concentrava tra banchi a rotelle, monopattino e altre idiozie, molti dei sognatori come me però, nel corso di questi ultimi mesi, si arrovellavano su una questione tanto accademica quanto pratica, i conti aggregati non ci quadravano, e i nostri convincimenti basati su solide conoscenze letterarie – ci riferiamo a letteratura strettamente economica – non era chiaro come mai all’interno di una somma elementare, quella del calcolo aggregato del PIL non si verificasse la “proprietà dissociativa”, sostituendo con la spesa pubblica il valore perso dai consumi e investimenti il saldo restava comunque negativo.

Ci sono voluti alcuni mesi affinché ci fosse risposta al nostro quesito e la risposta e tutta qui:

I soldi c’erano ma non sono stati spesi e immessi nel mercato

Viene fuori che dei circa 110 miliardi di euro raccolti tramite l’emissione di nuovi titoli, più della metà sono ancora ben saldamente fermi all’interno del conto cassa del Tesoro.

Come se non bastasse,  la presa in giro aumenta quando sai che fino a cinque giorni fa il parlamento ha votato quasi all’unanimità un ulteriore scostamento di 8 miliardi, e contestualmente invece viene pubblicata una nota del Ministero Economia e Finanze in cui si comunica che “in considerazione dell’ampia disponibilità di cassa e delle ridotte esigenze di finanziamento … alcune aste di titoli fissate per il mese di Dicembre sono sospese, in particolare quelle dei BTP a 10 anni, invece si terranno quelle di titoli con scadenza a più breve termine come 3-7 anni e BOT”.

*In allegato il comunicato del Ministero Economia e Finanze

Che dire, sembra quasi che con la mano destra il governo abbia proteso la mano all’elemosina della BCE e dei mercati, e con l’altra abbia ben nascosto queste enormi somme per non spenderle in favore della propria economia e dei cittadini, tutto ciò per ben sette mesi, ora con la cintola sciolta per far spazio a una pancia ben piena ritira persino la mano che elemosinava, dichiarando di avere le tasche piene.

Più volte ci siamo chiesti se i continui errori in campo economico posti in essere da questo governo fossero frutto di ignoranza e incapacità o se invece fossero frutto di dolo e di una espressa volontà,  ancora una volta non abbiamo risposte certe a questo quesito però possiamo fare delle brevi quanto chiare considerazioni: quando in origine era chiaro che ci fosse bisogno di ingenti somme di denaro, essi dichiaravano con non era affatto così,  quando poi si decisero a recuperarle una buona parte è stata sperperata in provvedimenti inutili e forse anche dannosi, un’altra ancor più grande non è neppure stata spesa, per finire con una chicca

tecnica, adesso che i tassi d’interesse sono ai minimi storici si preferisce emettere titoli a breve termine, più volatili per chiare caratteristiche temporali e si evitano quelli a lunga scadenza che garantirebbero lunghi anni di maggiore solidità.

Chiudiamo facendo cenno ad un’ultima quanto breve considerazione: in un momento in cui migliaia di aziende abbassano inesorabilmente la saracinesca o portano i libri in tribunale, la disoccupazione aumenta a ritmi vertiginosi, la povertà e la fame stringono le spira catturando sempre più larghe fette di popolazione,  ci sono più di 60 miliardi di euro fermi nelle casse dello Stato ma sembra che tutto il nostro futuro sia legato ai fantomatici spiccioli europei del “Recovery Fund”/ “Recovery Plan” / “ Next Generation UE” o come diavolo si chiama che conta tutt’ al più in 29 miliardi l’anno.