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Economia

37 miliardi di tagli alla sanità: non siamo stati noi

Articolo scritto il 22 novembre 2020, da Vincenzo Randazzo e Andrea Casabona, soci fondatori ESC

“Tutti dobbiamo fare dei sacrifici”, “Siamo in emergenza sanitaria”. Questi sono solo due esempi delle frasi che il popolo italiano si sente ripetere quotidianamente a reti unificate da mesi. Sì, un nuovo virus è entrato nelle nostre vite e ci ha colti impreparati. Anche se, evidentemente, la colpa non è nostra. Non siamo stati noi italiani a tagliare 37 miliardi di euro alla sanità pubblica negli ultimi 10 anni in nome del “Ce lo chiede l’Europa” e “Ce lo impone lo spread”.

I tagli alla sanità operati dai governi in carica dal 2012 al 2019.

Non siamo stati noi a dire, il 27 gennaio 2020, in un’intervista, che eravamo pronti all’eventuale arrivo del Coronavirus in Italia.

Non siamo stati noi, dopo la “prima ondata”, quando la situazione era più gestibile e non si registravano affollamenti negli ospedali (5 mesi di tempo), a stare con le mani in mano ed elargire bonus monopattino e bonus vacanza, invece di attuare un serio piano di potenziamento della sanità pubblica, dalla rete ospedaliera, assumendo nuovo personale sanitario e ampliando i posti letto nelle terapie intensive e nei reparti ordinari, ai servizi di medicina territoriale.

A quanto pare, però, siamo stati noi. A detta del Governo e dei suoi lacchè, la colpa del nuovo aumento dei casi è solamente ascrivibile all’irresponsabilità dei cittadini, quegli stessi cittadini che, dopo quasi tre mesi di reclusione forzata in casa, naturalmente avevano voglia di tornare a vivere, di tornare alle millenarie abitudini umane, quelle per cui ci è stata affibbiata la definizione di “animali sociali”.

Quello stesso governo che, proprio lunedì scorso, ha reso disponibile un altro bonus: quello per l’acquisto di nuovi pc.

Tutto ciò farebbe ridere se non facesse piangere.

Tuttavia non basta. Continuano le minacce di una nuova chiusura totale del Paese, giusto per dare il colpo di grazia al tessuto socio-economico italiano, e la caccia agli “untori”, ai “colpevoli” di voler essere umani.

È evidente che la colpa non è nostra, almeno non questa. L’unica colpa, probabilmente, è aver permesso a certi individui di andare al governo e prendere decisioni di tale importanza per il Paese.

Una cosa, però, la vogliamo dire.

Non siete Stato voi, che chiudete in casa i vostri concittadini innocenti a causa della vostra incompetenza.

Non siete Stato voi, che permettete che i vostri figli si tolgano la vita perché non siete in grado di garantire loro il giusto sostegno.

Non siete Stato voi, che cancellate tutte le libertà raccontando di voler tutelare il diritto alla salute, di cui, negli ultimi anni, quando chiudevate reparti o interi ospedali su tutto il territorio nazionale e annunciavate che si poteva tagliare ancora in nome della “spending review”, non vi è mai importato nulla.

A ciò si aggiunga poi il fatto che, mai come in questo periodo, in cui l’emergenza sanitaria sta aggravando ulteriormente la situazione economica del Paese, l’Unione Europea ha mostrato la sua natura matrigna. A parte l’elemosina (si fa per dire, sono sempre prestiti) del SURE, la più volte offerta mela avvelenata del MES e il tanto paventato Recovery Fund, che non si sa se e quando arriverà, nient’altro. Su gentile concessione, ci è stato permesso di sforare il vincolo del 3% del rapporto deficit/PIL, aumentando così il nostro debito pubblico ulteriormente.

Un incremento di debito che la BCE, finalmente facendo davvero la banca centrale, sta monetizzando procedendo all’acquisto dei nostri titoli di Stato. Purtroppo, però, questo non accadrà per molto e, come abbiamo visto in passato, alla fine dell’emergenza torneranno a chiederci di tagliare, tagliare e tagliare e a dirci che il debito non può essere monetizzato.

Le ultime dichiarazioni del 19 novembre di Christine Lagarde (“La BCE non può finire in bancarotta né rimanere senza denaro. In qualità di unico emittente di euro, l’Eurosistema sarà sempre in grado di generare liquidità supplementare”) non lasciano più spazio a dubbi sul fatto che questa sia solo una scelta politica, figlia dell’ideologia neoliberista alla base dell’Unione Europea.

Un Governo che non fosse diretta espressione di questa ideologia e che avesse veramente a cuore l’interesse nazionale e la tutela della salute pubblica, dovrebbe immediatamente rompere i vincoli della gabbia europea, destinando ingenti risorse alla sanità e ai settori colpiti dai provvedimenti restrittivi. Solo così il Paese potrebbe tornare a respirare. Solo così si rispetterebbero davvero i diritti sanciti dalla Costituzione. Solo così si ridarebbe dignità e sovranità a un popolo, ormai stanco di essere additato come colpevole e di rinunciare alle proprie libertà.

Ci dispiace constatare, però, che probabilmente nulla o quasi di quanto proposto sarà fatto. Hanno scelto di stare dalla parte sbagliata della storia.

Noi continueremo a stare dalla parte giusta.

Per la nostra dignità di popolo.

Per la sovranità, che solo al popolo appartiene.

Per la Costituzione.

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Economia

Critica socio-economica alla teoria AVO, fondamento dell’Unione Monetaria Europea

Articolo scritto da Giuseppe Matranga, membro di ESC e coordinatore del gruppo di lavoro su Economia e Finanza

Nel corso degli anni Sessanta del secolo scorso venne prodotta e perfezionata la cosiddetta teoria AVO (Aree Valutarie Ottimali); iniziata da Mundell nel 1961 e completata da McKinnon e Kenen tra il 1963 e il 1969, essa rappresentò la prima vera base scientifica all’istaurazione dell’Eurozona e al conseguente abbandono delle monete nazionali dei singoli paesi per sostituirli con la nuova moneta unica, l’Euro. 

Lo stesso relatore Mundell per più di dieci anni interpretò la sua teoria in modo critico riguardo alla sua realizzabilità tra i paesi europei, concentrandosi più sui costi che esse avrebbe potuto gravare sulle singole economie nazionali che non sui potenziali benefici, e solo nel 1973 all’interno del suoi celebri articoli  (“Uncommon arguments for common currencies” e “A plan for a European currency”) egli mostrò  un’inversione di tendenza dimostrando il suo nuovo ottimismo sulla realizzabilità delle stessa. 

La teoria AVO valse all’economista Mundell il premio Nobel nel 1999, lo stesso anno in cui di fatto si determinò l’introduzione definitiva dell’Euro come valuta unica europea.  

Entrando nel merito soltanto parziale dei fondamenti mundelliani sull’efficienza degli aggiustamenti automatici in relazione ai potenziali shock asimmetrici che possono verificarsi all’interno delle economie nazionali è di fondamentale importanza considerare il movimento dei fattori produttivi all’interno dell’AVO, segnatamente lo spostamento del fattore lavoro. 

La teoria AVO, come mostrato nella figura 1, analizza all’interno di un sistema a due paesi (casualmente scelti Francia e Germania), nei quali è sottintesa la libera mobilità delle merci,  gli effetti di un casuale shock di domanda verificatosi nel Paese Francia dettato da un mutamento di preferenze dei consumatori nazionali (i consumatori francesi preferiscono maggiormente i prodotti tedeschi a quelli nazionali), detto shock asimmetrico – in quanto colpisce al ribasso la domanda di beni francesi ma non quelli tedeschi – esso provoca un immediato spostamento verso sinistra della curva di domanda aggregata nel paese Francia e un opposto spostamento verso destra della medesima curva di domanda nel paese Germania, i suddetti spostamenti provocano il contestuale disallineamento dei punti di equilibrio nei relativi mercati nazionali, generando di fatto un abbassamento del livello dei prezzi in Francia (deflazione) e un aumento del livello dei prezzi in Germania (inflazione), contestualmente la minor domanda di prodotti francesi genererà una minor necessità di forza lavoro per le industrie nazionali e il conseguente aumento della disoccupazione, effetti del tutto opposti si verificano invece nel paese Germania, in cui la crescente domanda spingerà le industrie tedesche ad aumentare il livello di produzione e perciò ad assumere nuovi lavoratori.  

Come espresso nella figura 2, in una logica di monete nazionali il disequilibrio può essere facilmente risolto nel breve periodo grazie ad una svalutazione della moneta francese in relazione alla moneta tedesca, essa provoca un’immediato aumento di appetibilità dei prodotti francesi in Germania, i quali grazie alla svalutazione monetaria diventano meno costosi e conseguentemente più convenienti per i consumatori tedeschi; questa semplice scelta riporta le curve di domanda aggregata dei due paesi in una situazione analoga all’origine, riportando i rispettivi punti di equilibrio di mercato alla situazione antecedente lo shock e riassestando immediatamente gli squilibri venutisi a creare nei mercati del lavoro e riportando l’inflazione al suo valore iniziale. 

La teoria AVO applicata alle unioni monetarie, getta le basi dell’efficientamento dei mercati comuni considerando come pilastri fondamentali due caratteristiche imprescindibili: la libera circolazione dei capitali e la libera circolazione delle persone, presupposta al libero movimento dei lavoratori . 

Se il primo pilastro sia realmente stato eretto all’interno dell’Eurozona, e probabilmente il suo funzionamento resta tutt’ora imperfetto e soggetto ad una molteplicità di fattori scatenanti svariati problemi, l’interesse della trattazione ricade sul secondo, concentrandosi sui reali presupposti venutisi a creare nel corso degli anni affinché ci sia una reale libertà di movimento dei lavoratori all’interno del mercato unico europeo. 

Ritornando alla logica mundelliana, una totale libertà di movimento dei lavoratori unita ad una forte flessibilità dei salari, permetterebbe di raggiungere gli stessi effetti auspicati a una svalutazione monetaria all’interno di un’unione valutaria grazie al semplice spostamento dei soggetti lavoratori tra un paese e l’altro.  

Gettando nuovamente lo sguardo alla figura 1 possiamo facilmente immaginare come: in risposta ad una caduta di domanda aggregata in Francia e ad un conseguente aumento di domanda in Germania, i lavoratori francesi potrebbero facilmente scegliere di spostarsi in Germania per andare ad arricchire la forza lavoro tedesca, riequilibrando automaticamente il mercato del lavoro e contemporaneamente le curve relative a domanda e offerta aggregate. 

Affinché la mobilità dei lavoratori si verifichi con tale condizioni di automatismo sono necessari però alcuni presupposti non propriamente trascurabili, in quanto il solo diritto di trasferire liberamente la propria residenza da un paese all’altro (concetto di <<cittadinanza europea>> “Trattato di Maastricht”) non sembra di per se affatto sufficiente. 

Anzitutto, come lo stesso McKinnon (1963) sostiene, è necessario che i disoccupati provenienti dai settori colpiti da shock negativi siano disposti e capaci di spostarsi nei settori colpiti da shock positivi, in quanto in virtù della legge dello sfruttamento dei vantaggi competitivi, col passare del tempo i settori produttivi dei diversi paesi hanno sempre più optato per la specializzazione piuttosto che per la diversificazione. 

Le difficoltà che possono incontrarsi all’interno del suddetto processo sono però da considerarsi in funzione della sempre più marcata formazione e specializzazione di cui i lavoratori necessitano per approcciarsi ai sempre più moderni e integrati processi produttivi; a tal proposito è facile immaginare come sia improbabile se non addirittura impossibile che un metalmeccanico possa in breve tempo inserirsi nel settore tessile così come in quello chimico. 

Eppure esiste un limite ancor più grande alla mobilità dei lavoratori, e risiede tutto nelle profonde differenze culturali e storiche che separano i 512 milioni di abitanti che risiedono nei 27 paesi dell’Unione europea: la lingua, quelle ufficiali all’interno della UE sono addirittura 24 a cui si aggiungono più di 60 lingue autoctone regionali parlate da circa 40 milioni di abitanti, tra cui il catalano il basco, il frisone, il gallese e lo yiddish.  

Quella linguistica di certo rappresenta la barriera più difficile da superare affinché un lavoratore possa decidere di spostarsi dal suo paese di origine verso un altro paese dell’Unione europea, soprattutto considerando che proprio le classi sociali più basse, quelle meno preparate dal punto di vista istruttivo, sono solite conoscere e utilizzare uno sola lingua; e quand’anche la seconda lingua fosse più o meno conosciuta, essa nella stragrande maggioranza dei casi è l’inglese, ovvero una lingua ampiamente conosciuta, ma pur sempre  una lingua secondaria in 25 dei 27 paesi che compongono l’intera comunità, ovvero tutti ad esclusione di Irlanda e la piccola Malta. 

È facile immaginare quindi come di fatto siano pesantemente svantaggiate alla possibilità di spostamento ampie fette di popolazione, segnatamente la popolazione meno istruita e specializzata, che rappresenta invece la popolazione atta a ricoprire il ruolo di classe operaia; al contrario risulta meno svantaggiata da potenziali problemi linguistici la fetta di popolazione con preparazione accademica, che di fatto nel corso degli ultimi anni ha rivestito la maggioranza delle migrazioni, seppur andando a ricoprire esclusivamente ruoli professionali di maggior rilievo. 

Possiamo quindi concludere che la barriera linguistica di certo rappresenta la più ardua da superare per la forza lavoro semplice e non specializzata, che risulta pertanto la più sofferente in caso di shock asimmetrici e conseguentemente non in grado di soddisfare i presupposti richiesti dalla teoria AVO.  

Alle sopra elencate possiamo aggiungere inoltre altre due importanti caducità del sistema (dis)integrato europeo: la marcata difformità del livello dei salari e degli stipendi nelle diverse regioni intraeuropee e la totale mancanza di un sistema integrato pensionistico e di previdenza sociale. 

La differenza tra la retribuzione del lavoro in Europa è forse il dato più marcato in assoluto (come riporta Eurostat 2019), esso varia dai minimi di Bulgaria e Romania, in cui la retribuzione lorda è rispettivamente di 1,67 €/h e 2,03 €/h, fino ai massimi di Danimarca e Irlanda, rispettivamente di 25,5 €/h e 20,16 €/h.  

Questo è un dato fortemente scoraggiante perfino per le visioni più ottimistiche della mobilità intrauropea, in quanto è praticamente ovvio comprendere come un cittadino abbia ben poco interesse a trasferirsi da un paese all’altro dal momento in cui la sua speranza di retribuzione rischia di decrescere fino a 15 volte (se sceglie il posto sbagliato), ciò dimostra due cose fondamentali:  

 – indipendentemente dal livello di disoccupazione e quindi dalla reale possibilità di trovare più o meno facilmente un’occupazione, difficilmente un lavoratore sceglierà di trasferirsi in una regione europea in cui la sua retribuzione rischia di diminuire;  

– lo shock asimmetrico che può verificarsi aumentando la domanda aggregata di un paese dai bassi livelli salariali, purché possa influire sul livello interno dei prezzi e aumentare il livello dei salari medi, inverosimilmente potrà mai raggiungere un aumento tanto marcato da recuperare le circa 15 distanze che differenziano la paga oraria bulgara da quella danese; perciò risulta chiaro che anche osservata da un punto di vista ottimistico la reale relazione auspicata da Mundell sia realizzabile solo tra paesi con un livello di salario similare, cosa ben lontana dalla realtà europea. 

In ultimo, la mancanza di un sistema previdenziale comune o comunque integrato non permette ai lavoratori che nel corso della loro vita svolgono professioni e attività in diversi paesi europei di attendersi e perciò sperare in una pensione congrua alle retribuzioni accumulate nel corso del tempo. 

Di fatto tale grave mancanza impedisce al lavoratore qualsiasi calcolo e previsione sull’importo pensionistico che otterrà una volta smesso di lavorare, per di più essendo ogni sistema previdenziale nazionale profondamente diverso dall’altro sia per limiti di età che per modalità di calcolo contributivo, ed essendo tra l’altro tutti continuamente suscettibili di profonde mutazioni nel corso del tempo, il lavoratore corre il rischio di iniziare ad avere il diritto di ricevere una prima indennità previdenziale da un paese nella quale ha svolto attività lavorativa in passato, nello stesso momento in cui egli svolge ancora attività lavorativa. Per esempio un lavoratore francese che all’età di 62 anni svolge un attività in Italia, ha già diritto alla pensione francese quando in Italia lo acquisisce solo 5 anni più tardi. 

Allo stesso tempo la mancanza di una “previdenza europea” esponendo i lavoratori dell’impossibilità di previsioni future, spinge essi stessi verso forme di previdenza aggiuntiva privata, che dal suo canto però mostra almeno due importanti criticità:  

  • La previdenza privata sempre più spesso viene affidata a fondi di investimento, i quali non sono in alcun modo garantiti dallo Stato e quindi sono suscettibili dell’aleatorietà degli investimenti speculativi e perciò esposti a rischio di insolvenza; 
  • Essendo essa stessa aggiuntiva alla previdenza obbligatoria perciò volontaria, richiede al lavoratore di dover rinunciare oggi ad una parte della propria retribuzione per avere in futuro una indennità maggiorata al momento della pensione, ma questa volontarietà espone maggiormente le classi lavoratrici meno abbienti , che con maggiori difficoltà possono permettersi di privarsi di parte dello stipendio, a non poter di fatto scegliere liberamente se rivolgersi o meno a detti enti previdenziali e conseguentemente li espone maggiormente all’incertezza del futuro nell’età della vecchiaia. 

“Quello con gli Stati Uniti d’America è forse il paragone che viene citato maggiormente dai fautori e dai sostenitori del processo di integrazione europea, ma esistono differenze ben marcate tra le due realtà che di fatto le pongono su due piani del tutto diversi e rendono lo stesso paragone del tutto inappropriato. 

Gli Stati Uniti esistono dal 1776 ovvero dal giorno della Dichiarazione di Indipendenza, sono passati quasi 250 anni da quando essi hanno deciso di racchiudersi dentro ad un’unica bandiera, e da allora quello che era un agglomerato di immigrati provenienti da ogni parte del mondo ha maturato una storia comune di Popolo “americano”. Per contro i nostri nonni più anziani ancora hanno ben impresso nella loro memoria il fragore delle bombe e dei proiettili del nemico che veniva da oltre confine. 

È vero, negli Stati Uniti si parlano più di otto lingue ma l’inglese è lingua ufficiale parlata, o almeno compresa, dalla quasi totalità della popolazione statunitense.  

Il loro sistema pensionistico pubblico è quasi del tutto inesistente da decenni, ciò comporta che in ogni caso i cittadini americani sono ben coscienti di dover destinare parte del loro reddito ad una assicurazione previdenziale privata indipendentemente da dove si trovino a vivere entro il territorio nazionale. 

La frammentazione del livello medio di retribuzione negli Stati Uniti nonostante sia presente non è affatto paragonabile alle misure di grandezza che si riscontrano tra i paesi europei nei quali abbiamo già citato la differenza di 15 volte tra gli estremi di dette retribuzioni. Per un approfondimento sulle differenze Stato per Stato nei salari medi orari statunitensi, si veda al seguente link: https://www.governing.com/gov-data/wage-average-median-pay-data-for-states.html. 

In ultimo, è importante considerare come a livello sociale, e ciò riguarda la maggioranza delle famiglie statunitensi, è socialmente accettato e del tutto normale che i componenti delle famiglie debbano spostarsi da un luogo all’altro della nazione, si comincia sin da giovani nella ricerca delle università più prestigiose e si continua durante gli sviluppi della carriera; in Europa invece per motivi prettamente culturali e sociologici le famiglie tendono molto di più a rimanere nei pressi dei luoghi di nascita, tutt’al più a migrare all’interno delle proprie aree regionali e nazionali. 

Per tutte queste ragioni, le realtà statunitense ed europea sono profondamente dissimili e del tutto inadatte ad essere rapportate e prese in considerazione per paragoni riguardanti il mercato del lavoro e la relativa mobilità dei lavoratori. 

Conclusioni 

Considerate le sopra elencate criticità del mercato del lavoro intraeuropeo possiamo definire quindi la “mobilità dei lavoratori” come il pilastro maggiormente caduco della struttura portante del mercato unico dell’Eurozona, definendosi del tutto inappropriata la considerazione del territorio dell’odierna UE come Area Valutaria Ottimale e perciò come esperimento del tutto fallito nel corso degli ultimi decenni del processo di integrazione europea, che di fatto non lascia alcuna speranza e prospettiva futura verso un ipotesi di maggiore diffusione del benessere economico e perciò sociale tra i paesi facenti parte dell’Unione. 

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Economia

Quale futuro per la piccola impresa agroalimentare in tempi di covid-19?

Articolo scritto da Giuseppe Matranga, membro di ESC e Coordinatore Gruppo di lavoro su Economia e Finanza

La crisi creatasi dell’epidemia covid-19 ha interessato l’argomento della salute pubblica ma oltre ad aver scosso la nazione nell’ambito della santità ha colpito l’intera economia e creato alcune profonde distorsioni perfino in quei settori che all’apparenza non sono stati toccati dalle misure restrittive e appaiono ancora produttivi e pienamente attivi, stiamo parlando del settore agroalimentare.

L’agroalimentare è chiaramente ritenuto un settore strategico sul piano nazionale , e come è chiaro che sia, di primaria importanza per l’autosostentamento del paese, questo è il motivo per il quale il governo, all’interno dei decreti che si sono succeduti, non ha mai impedito la produzione e la commercializzazione dei prodotti che ne fanno parte; si sono però venute a creare alcune situazioni di difficoltà all’interno del settore che da un lato hanno colpito la domanda, segnatamente di alcuni segmenti di prodotto, e dall’altro l’offerta, costituendo di fatto uno shock simmetrico che sta creando non pochi problemi ad intere filiere.

– Lo shock di domanda

(Spostamento dei consumi)

Nonostante i supermercati e i negozi al dettaglio di generi alimentari siano sempre rimasti aperti col passare delle settimane è reso sempre più chiaro che i consumi delle famiglie si vadano spostando da un segmento all’altro di prodotto in funzione dei redditi disponibili che si abbassano di giorno in giorno fino ad arrivare a zero nelle situazioni più disperate, è ovvio quindi che i consumi si spostino via via più sugli alimenti di prima necessità piuttosto che su quelli superflui e che la scelta stessa tra un negozio e l’altro si sposti più verso il discount che non sulla bottega a chilometro zero, che per antonomasia ha i prodotti migliori ma anche i più costosi. Questo calo di reddito disponibile ha fatto si che molti piccoli negozi così come anche le catene di supermercati che trattano prodotti di prima fascia abbiano subìto un forte calo di domanda, in alcuni casi tanto profondo che alcuni esercenti hanno già scelto di abbassare autonomamente la saracinesca in quanto le entrate di cassa non arrivano a coprire le stesse spese d’esercizio.

Chi ne fa le spese sono tutte le piccole aziende che producono prodotti di nicchia e le cosiddette eccellenze del territorio, in quanto i loro articoli sono in gran parte fuoriusciti dal paniere d’acquisto di molti consumatori.

Come se non bastasse molti degli articoli alimentari di base ( frutta e verdura freschi, farina, pasta, etc.) hanno subìto un forte aumento dei prezzi al dettaglio generati da diverse concause tra cui principalmente la difficoltà di approvvigionamento e l’aumento di markup del venditore finale, cosa che ovviamente come normale effetto di mercato provoca un’ennesima diminuzione di domanda.

– Lo shock di offerta

Ben più grosso è il problema sul lato dell’offerta in quanto se da una parte manca la manodopera nei campi per la raccolta dei prodotti agricoli, gli stessi stanno accusando un’impennata di prezzo in media di circa il 45%.

L’aumento di prezzo delle materie prime, essendo probabilmente di natura puramente momentanea e destinata a ristabilirsi nell’arco di poche settimane non permette alle piccole aziende di trasformazione di riversare sui prezzi dei prodotti finiti il maggior costo sostenuto per l’approvvigionamento della materia prima.

Le piccole imprese di trasformazione, per dimensione e capacità produttiva, usano trasformare le materie prime soltanto in certi periodi dell’anno, prediligendo i prodotti locali e chiaramente non sempre disponibili sul mercato, inoltre usualmente essi operano la trasformazione proprio durante il momento immediatamente successivo alla raccolta, essendo esso anche il momento in cui il prodotto ha il miglior prezzo di mercato; al contempo questa stessa produzione difficilmente viene

immediatamente piazzata sul mercato andando in gran parte a costituire scorte di magazzino che vengono vendute via via nel corso dei mesi a seguire. La pesante distorsione del normale prezzo di mercato dei prodotti agricoli di stagione provoca nelle piccole industrie una difficile scelta cui ottemperare:

-acquistare oggi a un prezzo esorbitante le materie prime, pur sapendo che nei mesi a seguire i prezzi degli alimentari torneranno ad essersi normalizzati e rischiando di proporre un prodotto finito dal prezzo troppo alto rispetto al mercato futuro, con conseguenti alti rischi di mancate vendite o mancati margini di profitto;

-attendere che il mercato delle materie prime torni a normalizzarsi prima che sia troppo tardi per andare a produrre quegli articoli che saranno richiesti nei mesi a venire al solito prezzo dello scorso anno, correndo così anche il rischio di restare senza prodotto se la crisi di prezzo dovesse perdurare oltre le loro aspettative.

Lo stesso problema invece non riguarda la maggior parte delle grandi aziende di trasformazione, che si rivolgono alla grande distribuzione, le quali sono già abituate a lavorare prodotti provenienti dall’estero, gran parte dei quali disponibili lungo più archi dell’anno.

Nei prossimi mesi, a causa della distorsione odierna, potrebbe venire a crearsi un problema di competitività delle piccole aziende, in quanto potrebbe diminuire sensibilmente la quantità della loro offerta e vederle ancora più distanziate nel prezzo rispetto ai prodotti di massa, senza che ci sia un contestuale aumento di markup; i prodotti di nicchia destinati alla piccola distribuzione di eccellenza potrebbero vedersi identificati dai consumatori sempre più come “prodotti di lusso” e perciò difficilmente accessibili, e ciò potrebbe causare a sua volta un forte crollo di domanda degli stessi.

Praticamente come se non bastasse il lockdown a danneggiare la nostra piccola impresa, a cui lo Stato centrale sta destinando ben poche risorse (se non nessuna), affinché essa non sprofondi nel baratro del fallimento, ci stanno mettendo lo zampino anche delle naturali distorsioni di mercato dettate dell’epidemia del coronavirus.

La piccola e spesso la micro-impresa rappresentano un fiore all’occhiello della manifattura italiana, specialmente quella del settore agroalimentare, e tutto al momento non fa ben sperare per la sua (r)esistenza in un prossimo futuro alquanto vicino.

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Economia

Decreto ‘ristori’ o decreto ‘avanzi’?

Articolo scritto da Pietro Salemi, vice-presidente di ESC

Dopo mesi passati a programmare un risposta efficace alla seconda ondata, dopo mesi impiegati a varare protocolli, linee guida e regole di condotta anti-contagio per tutte le attività economiche, eccoci nuovamente catapultati indietro nel tempo, a marzo. Direttamente in “prigione” senza passare dal via.

Molto si è discusso degli errori, delle incongruenze o talvolta delle vere e proprie mancanze nella predisposizione delle rete di sicurezza (sanitaria ed economica) che il Governo avrebbe dovuto costruire per salvaguardare il Paese intero dal rischio di una seconda e devastante ondata di contagi.

Intendiamoci, era chiaro sin dall’inizio della vicenda che si dovesse trovare un delicato equilibrio nel difficile trade-off tra salute ed economia. Un bilanciamento ragionevole poteva, ad esempio, essere il “congelamento” delle attività chiamate al sacrificio per contenere i contagi: ossia salvaguardare le posizioni economiche penalizzate per evitare fallimenti a catena e, conseguentemente, disoccupazione dilagante.  Il punto è che, ad oggi, siamo al contempo ad un passo da un nuovo lock down totale e dal tracollo dell’economia.

Al riguardo, è ovvio che il Governo dovrebbe assumersi l’incommensurabile responsabilità politica e la (forfettariamente) quantificabile responsabilità economica. Tuttavia, il Governo sembra voler fare orecchie da mercante tanto sulla prima quanto sulla seconda responsabilità. Nel primo caso, continua a barricarsi dietro all’inaccettabile retorica del generico “sacrificio necessario” e al non più accettabile “provateci voi, al posto nostro” (che, in realtà, non fa che mostrare la totale insipienza dell’esecutivo nella gestione della situazione). Nel secondo caso, è il cd. ‘decreto ristori’ ad essere chiamato a indennizzare i lavoratori e le attività penalizzate dal nuovo lock down. E’ il caso di dirlo senza troppi giri di paroli: le misure economiche previste in quest’ultimo decreto sono assolutamente insufficienti, ancora una volta irragionevoli e, a tratti, ai limite dell’offesa alla dignità del lavoro.

Entriamo nel dettaglio. Dato che le attività coinvolte dalle ultime restrizioni anti-contagio sono molte e molto eterogenee, sarebbe impossibile in questa sede esaminare tutte le specifiche criticità che il decreto ‘Ristori’ presenta. Possiamo, però, procedere ad una simulazione assumendo la prospettiva di un’immaginaria piccola impresa: ad esempio, una start up di tipo pub gestito in forma societaria, con codice Ateco 56.30.00, che abbia iniziato la propria attività nel giugno 2019 che chiameremo per comodità “Chicelohafattofare s.r.l.”.

Partiamo proprio dall’articolo 1, che disciplina i tanto decantati contributi settoriali a fondo perduto. Il sistema previsto dalla disposizione calibra l’ammontare del fondo perduto in base ad un coefficiente correlato al codice Ateco dell’attività coinvolta da restrizioni causa covid-19. Si prevedono quattro fasce di coefficiente che, almeno nelle migliori intenzioni del legislatore, variano a seconda del grado di invasività e durata nel tempo delle restrizioni: 100% (taxi e trasporto a noleggio), 150% (pub, alberghi, villaggi turistici, bar, centri benessere, organizzazione eventi ecc.), 200% (ristoranti, palestre, centri sportivi, piscine, stadi ecc.) e, infine, 400% per discoteche e sale da ballo (chiuse ormai da mesi). Tale coefficiente si applica sul contributo a fondo perduto già percepito con il cd. decreto rilancio, ossia commisurato alla perdita di fatturato tra il mese d’aprile 2020 e lo stesso mese del 2019.

Qui la prima macroscopica anomalia per la nostra “Chicelohafattofare s.r.l.”: in quanto start up, essa non aveva fatturato alcunchè nell’aprile 2019, così da rendere nulla la differenza di fatturato tra 2020 (chiusura causa covid) e 2019 (apertura successiva dell’attività). Così, il combinato disposto dei commi 4 e 6 dell’art.1 del decreto ‘ristori’ prova a risolvere il problema ammettendo le start up (imprese attivate dopo l’1 gennaio 2019), all’accesso al contributo, ma con il minimo: soli 1000€ per le persone fisiche, 2000€ per persone giuridiche. La situazione che ne deriva è paradossale: proprio le imprese di recente attivazione, con minor avviamento e posizionamento di mercato meno solido, vengono addirittura penalizzate rispetto ad imprese di lungo corso già avviate e magari con un cuscinetto di risparmi aziendali da cui attingere. La situazione non è solo paradossale, è probabilmente anche incostituzionale per violazione del principio di ragionevolezza ex art. 2 comma 3 della Cost, soprattutto ove si pensi che sarebbe bastato prevedere un contributo legato alla perdita di fatturato media mensile dei mesi di attività (pre-covid e post-covid) o, ancor più semplicemente, sullo stesso mese di settembre (e non più su aprile, come nel caso del decreto ‘Rilancio’ emanato a maggio).

Sempre in merito a questo ai coefficienti per il contributo a fondo perduto dell’art. 1, c’è anche un’altro aspetto che quasi offende la dignità del lavoro della “Chicelohafattofare s.r.l.”: ai pub, attività che solitamente aprono al pubblico dopo le 18, viene riservato un coefficiente solo del 150% insieme ad attività che oggettivamente possono continuare a restare aperte nonostante un fisiologico calo di fatturato dovuto alla crisi covid. Tra le righe, il messaggio del governo è chiaro e provocatorio: i pub possono restare aperti…basta vendere gin tonic o un aperitivo dalle 10 del mattino alle 18, facile, no?!

Passiamo ad esaminare ora un altro articolo meno sponsorizzato: l’art. 8, che estende le previsioni sul credito d’imposta (al 60%) per gli immobili commerciali anche ai mesi di ottobre, novembre e dicembre. Almeno due sono le criticità generali, che non riguardano solo la nostra “Chicelohafattofare s.r.l.” ma tutte le imprese beneficiare. In primo luogo, è del tutto evidente che per attività di fatto chiuse ex lege, una percentuale del 60% non è per nulla sufficiente: al fine di “congelare” la posizione economica di queste attività serviva una vera e propria moratoria sugli affitti commerciali unita ad un blocco degli sfratti per morosità per tutto il periodo di durata dell’emergenza. In secondo luogo, nei fatti non si tratta neanche di un vero e proprio aiuto in termini di liquidità, giacché per essere fruito l’affittuario deve prima corrispondere al proprietario dell’immobile l’intera mensilità come pattuita nel contratto di locazione. Sarebbe stato anche molto semplice, oltre che costituzionalmente conforme, prevedere il credito d’imposta direttamente a favore del proprietario dell’immobile locato. Sarebbe stato anche questo un modo per spostare parte del costo della crisi covid dal lavoro al capitale.

C’è, infine, una terza macroscopica “svista” che riguarda le start up (come la “Chicelohafattofare s.r.l.”): le start up che non possono dimostrare una perdita di fatturato rispetto ad aprile 2019 (ad esempio, perché non erano ancora attive) sarebbero tagliate fuori. Tale criticità era già riscontrabile nel decreto ‘Rilancio’, salvo, fortunatamente, essere poi stata sanata in via interpretativa con circolare dell’Agenzia dell’Entrate, per salvare la norma dalla censura di incostituzionalità.

Andiamo, quindi, alle famose misure a sostegno dei livelli occupazionali e del reddito dei lavoratori dipendenti: l’art. 12 disciplina l’estensione della Cassa integrazione (ordinaria e in deroga). Vengono previste ulteriori 6 settimane di Cassa Integrazione tra il 16 di novembre e il 31 gennaio. Non serve la calcolatrice, né avere particolare intuito per capire chi pagherà la differenza tra le 6 settimane fruibili e le oltre 10 totali del periodo di emergenza (dal 16 novembre al 31 gennaio). Non è, infine, possibile comprendere perché il periodo non sia stato fatto decorrere dalla data dell’ultimo Dpcm o almeno dal 1 novembre. 

In effetti, è forse possibile rinvenire la risposta a tutte queste criticità all’art. 34 che chiude l’articolato sulle fonti di finanziamento adoperate: al contrario delle solite roboanti dichiarazioni di ‘potenza di fuoco’ da “oltre 5 miliardi” [1], ben 4 miliardi di quei 5,4 non sono altro che risorse derivanti da riduzioni di spese già previste nel “Cura Italia” (d.l. 17 marzo 2020 n. 18, conv. con mod.dalla legge 24 aprile 2020, n. 27) e nel “Decreto Rilancio” (d.l. 19 maggio 2020, n. 34, conv., con mod., dalla legge 17 luglio 2020, n. 77).

Dunque risorse già stanziate in precedenza, non utilizzate, ‘avanzi’ riclicati nel d.l. “Ristori” che non sono per nulla sufficienti a “congelare” le attività chiamate al sacrificio, in vista di una quanto mai incerta piena riapertura.

Ma ogni buon ristoratore si accorge quando gli vengono serviti degli ‘avanzi’.

Ci vediamo in piazza.

[1] Ex multis, si vedano i seguenti link: https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/10/27/dl-ristori-gualtieri-per-i-piccoli-ristoranti-contributo-medio-di-5-173-euro-per-i-grandi-25mila-euro-ai-teatri-da-5mila-a-30mila-euro/5981963/

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/10/27/dl-ristori-gualtieri-per-i-piccoli-ristoranti-contributo-medio-di-5-173-euro-per-i-grandi-25mila-euro-ai-teatri-da-5mila-a-30mila-euro/5981963/