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Costituzione

Licenziamenti: la consulta dichiara incostituzionale la modifica dell’art. 18 della “Fornero”

Articolo di Valerio Macagnone, Segretario di ESC

La Corte Costituzionale è intervenuta con una recente pronuncia a dichiarare l’illegittimità della previsione normativa contenuta nell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, così come riformata dalla Legge Fornero (n. 90/2012). In particolare, la consulta ha rilevato l’incostituzionalità per violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, della parte della norma in cui si prevede una differente disciplina in materia di reintegra nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e le differenti fattispecie di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo soggettivo.

Infatti, la censura evidenziata dalla Corte riguarda la previsione della facoltà di reintegra nel caso di licenziamento economico nella misura in cui il fatto posto alla base del licenziamento sia manifestamente insussistente, distinguendola dalla previsione di obbligatorietà di reintegrazione nei casi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo. Tale differenza di disciplina determina, ad avviso della Corte, una chiara violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 in virtù della irragionevole disparità di trattamento tra il licenziamento economico e quello per giusta causa, rimettendo alla discrezionalità dell’organo giudicante la scelta tra l’indennità e la reintegra senza alcun criterio direttivo.

Una pronuncia che si inserisce nel contesto degli orientamenti giurisprudenziali che avevano rilevato profili critici delle riforme del mercato del lavoro e delle tutele nel caso di licenziamento degli ultimi anni, tra cui è bene ricordare la sentenza n. 194 del 2018 con la quale la consulta aveva dichiarato l’illegittimità dell’art. 3, comma 1 del D. Lgs n. 23/2015 (Jobs Act) censurando la rigidità e la inadeguatezza del meccanismo di calcolo dell’indennità contro i licenziamenti ingiustificati che non realizzava né “un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro”, né un efficace strumento deterrente per i licenziamenti ingiusti da parte datoriale.

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Costituzione Economia

Draghi, il PUL e la democrazia che non ci possiamo permettere

Articolo scritto da Pietro Salemi, vice-presidente di ESC

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con Mario Draghi, Presidente della Banca Centrale Europea

Chi avesse perso gli ultimi giorni di politica, potrebbe stupirsi. Chi ne ha seguito, con occhio vigile e critico, gli ultimi 30 anni, prova molta amarezza e poco stupore. E’ bene, comunque ricapitolare le ultime convulsioni della Repubblica.

Conte ha definitivamente lasciato Chigi e ha tenuto una conferenza stampa su un tavolino in mezzo alla strada.

La Lega di Salvini offre il sostegno a Draghi, dichiarando che sull’Unione Europea e sull’Euro aveva scherzato.

I 5Stelle, come sempre, sono passati dal No, al ni, al Sí a Draghi e si accodano, perciò, non solo a Renzi, ma anche a Berlusconi, Salvini, Zingaretti, Bonino e Calenda ed altri centristi vari. Nel frattempo, si mette in scena un voto della base tramite la piattaforma Rousseau. Una consultazione a babbo morto, posto che l’ex-Goldman Sachs ha già ricevuto l’endorsment dall’intero gotha del MoVimento (ex-)populista.

LeU ci pensa: in realtà Speranza e Bersani scalpitano per entrare, mentre a Fratoianni non è piaciuto com’è iniziata la cosa e gli viene forte andare al governo con Salvini (mentre con Forza Italia, alla fine, non c’è problema).

Unica cosa davvero sconcertante: quasi tutte queste forze chiedono un governo politico (sic!), forse non capendo che la formula del governo “tecnico” serviva proprio da foglia di Fico per i casi, come questo, di commissariamento della politica.

Dicevo, “quasi”, perché in tutto quell’agglomerato che va da Forza Italia al PD, va bene davvero tutto purché si faccia il governo di San Mario Draghi da Goldman Sachs.

Non manca più nessuno, neanche i liocorni. Anzi no, manca Giorgia Meloni che nel frattempo nega l’appoggio a Draghi e si mette comoda in poltrona a mangiare i famosi “pop corn” di renziana memoria, offrendo eventualmente un’astensione benevola.

Dal punto di vista del profilo politico del Governo Draghi, si deve solo constatare che sarà semplicemente (e a gran richiesta) il governo dei mercati, presieduto da un banchiere, con un prestigioso curriculum nelle alte sfere della finanza mondiale. Per ciò stesso sarà un governo estremamente politico, anche al netto di qualsiasi distribuzione di dicasteri: si dovrà scegliere se confermare o abolire il reddito di cittadinanza, quota 100, il turn over nella P. A., la cassa integrazione covid, il divieto di licenziamento, le restrizioni alla libertà di circolazione e alle aperture delle attività commerciali, i ristori alla aziende colpite dalla pandemia e via di seguito. Al netto di ciò, dovranno anche effettuarsi scelte strategiche in merito al Recovery plan: non tanto e non solo nell’allocazione dei fondi del Recovery, quanto più nelle scelte più dolorose che dovranno compiersi per ottenere quei fondi, sia in termini di maggiore contribuzione dell’Italia al bilancio UE, sia in termini di riforme richieste dalla Commissione per l’erogazione delle tranche.

Non deve stupire che su tali questioni politiche dirimenti possano trovarsi convergenze tra tutte queste forze così apparentemente eterogenee. Infatti, eccettuati i temi etici e i diritti civili, su cui ancora esiste una certa contrapposizione (almeno di facciata e sempre a favore di telecamera) lungo l’ormai obsolescente crinale destra/sinistra, l’affinità delle ricette economiche e sociali è pressoché totale. Siamo di fronte a correnti di un medesimo partito (il Partito Unico Liberal-Liberista) che ben possono trovare la quadra attorno ad un leader carismatico come SuperMario Draghi, domatore di mercati.

Pur senza avere poteri di preveggenza, non è difficile immaginare il core dell’agenda di Draghi: accanto alle solite riforme richieste dalla UE (P. A., giustizia civile e fisco), si procederà allo sblocco dei licenziamenti e alla fine della cassa integrazione covid e della politica dei ristori alle imprese e, infine, alla rimozione delle misure simbolo della breve stagione populista del Governo Conte I (reddito di cittadinanza e quota 100). Se resterà tempo a sufficienza, Draghi procederà anche in prima persona a quello che viene visto come un efficientamento e snellimento della macchina pubblica, attraverso l’ulteriore privatizzazione dei servizi e del patrimonio pubblico. Più in generale, sotto il profilo politico e internazionale, il Governo Draghi è la plastica rappresentazione dell’abdicazione della classe politica italiana al “vincolo esterno”, in chiave atlantista ed europeista.

Proprio per la sua capacità di rappresentare meglio di chiunque altro i vincoli euroatlantici in Italia, Draghi ha già raccolto il placet dello spread, di Confindustria e della finanza tutta, mentre i giornalisti (dalla carta stampata alla TV), in totale sollucchero, si lanciano ormai in operazioni agiografiche e di culto della personalità talmente spericolate, da far apparire Chuck Norris come uno di noi.

Come tutti i più recenti epifenomeni covid, anche il PUL c’era già, solo che ora è più evidente.

Quest’orgia neoliberista attorno alla figura di chiaro profilo tecnocratico di Draghi ha, comunque, il merito di consegnarci un momento verità: è, infatti, proprio nei momenti di crisi più profonda che i vari attori politici rivelano la propria anima più profonda e la composizione di classe che rappresentano. In quest’ultimo senso, si può solamente registrare che il démos, il “fronte popolare”, quello dei lavoratori, di chi vive del proprio lavoro, non è della partita.

Non è purtroppo un’assenza casuale. L’aspetto, forse più preoccupante, è infatti la retorica anti-popolare e, in ultima istanza, anti-democratica che si registra in questi giorni. Da un lato, politica e media mainstream acclamano la nascita di un “governo dei migliori”, in greco aristocrazia; dall’altro, la narrazione dominante è permeata dalla perniciosa idea secondo la quale i fini pubblici sono pre-determinati rispetto al fluire di una politica che è chiamata alla semplice applicazione, tecnica appunto. Tali fini verrebbero così a essere liberamente determinati impersonalmente dai mercati ed esplicitati per bocca della istituzione UE (il cd. “Bruxelles consensus”), di guisa che non resterebbe che avere governanti abbastanza “competenti” da fare bene i compiti per casa.

Le stesse elezioni si rivelano, in quest’ottica, un ingombrante impaccio cui, talvolta, è necessario porre rimedio per vie traverse per evitare che mantenere la superstizione della democrazia diventi troppo costoso. Lo stesso svolgersi della democrazia rappresentativa, nelle sue forme elettorali e parlamentari, è oggetto del trascendente “giudizio dei mercati”, cui è necessario conformarsi, di dritto o di rovescio. Così, vuoi per non perdere la fiducia degli investitori, vuoi per lo spread, vuoi per rafforzare la lealtà alla UE, vuoi per la pandemia, il ritorno al voto e all’espressione della volontà popolare viene vista, nel discorso pubblico, come qualcosa da rifuggire come la peste.

Abbiamo toccato quello che è certamente un punto di minimo storico nell’intensità della democrazia-costituzionale italiana. Pur nel rispetto delle forme, si sono create smagliature sempre più ampie tanto a livello di rispetto della cd. Democrazia formale, quanto di quella sostanziale. Sotto il primo profilo, si pensi alla prassi dell’abuso delle decretazione d’urgenza, alla perdita di centralità del parlamento (di recente menomato persino nella sua composizione numerica), al fenomeno del trasformismo, al ricorso sempre più strutturale a governi tecnici e del Presidente, ad una fisarmonica dei poteri del Presidente della Repubblica ormai parecchio dilatata. Sotto l’aspetto sostanziale, basti tener presente che i diritti fondamentali (e segnatamente quelli sociali), nei quali la democrazia trova la sua linfa vitale, sono ad oggi validi solo a “bilancio invariato” ed entro i limiti del vincolo esterno.

L’avvento messianico di Mario Draghi al governo lascia presagire che lo sforzo di deformazione della democrazia che le élite del Paese stanno producendo da anni rischia di essere ormai anelastico: sembra proprio che la democrazia non ce la possiamo più permettere. Tutto ciò è ovviamente avvenuto anche e soprattutto per la compiacenza delle forze politiche che pretenderebbero di rappresentare gli interessi delle fasce più deboli della popolazione. Avendo perduto financo la capacità di leggere la conflittualità degli interessi in gioco, a queste forze non resta che unirsi al coro: “Draghi o muerte!”.

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Costituzione Economia

Stato, comunità e democrazia (consumatori o cittadini?)

Articolo di Valerio Macagnone, segretario ESC (2020-2021)

Nello scenario odierno ricorre con una certa metodicità l’appello progressista a nuovi processi di identificazione individuale e collettiva che mettano da parte parole come “Stato” e “comunità” viste come un retaggio di un passato anacronistico destinato a non vedere nuova luce. Si costruiscono e distruggono comunità virtuali a ritmi incessanti, si promuovono nuove identità al fine di rassicurare l’individuo e inserirlo in gruppi dove esiste un ancoraggio precario. Tuttavia, come sosteneva il sociologo Zygmunt Bauman “la fiducia è stata bandita dal luogo ove ha dimorato per la maggior parte della storia moderna. Ora vaga qua e là alla ricerca di nuovi approdi, ma nessuna delle alternative a disposizione è riuscita fino a questo momento a eguagliare la solidità e l’apparente naturalezza dello Stato-nazione”.[1]

A fronte di questa evidenza le forze progressiste in Italia e, in senso lato, nel “mondo occidentalizzato”, non riescono a offrire una soluzione allo scontro con le forze globali e stentano a riconoscere il patriottismo costituzionale come un’opzione realistica. Si esercitano forze di resistenza contro le rivendicazioni di sovranità con etichette calunniose e si ostenta snobismo per l’istintiva ricerca di comunità associandola a primitivismi intellettuali. Tuttavia, fin quando la sinistra liberale e antagonista continuerà ad utilizzare le categorie di resistenza (riferite esclusivamente ai rigurgiti neofascisti e non alla globalizzazione) per analizzare la realtà contingente nel continente europeo, andrà incontro a pesanti ridimensionamenti del proprio consenso elettorale, fornendo un assist, più o meno coscientemente, alle destre più reazionarie ed estreme, che, se da un lato parlano, ingannevolmente, di “sovranismo” dall’altro fanno l’occhiolino alle élite dominanti per la conservazione delle attuali relazioni di potere.

Fin quando non si capirà, dunque, che la dimensione privilegiata per le lotte sociali (redistribuzione della ricchezza, previdenza, assistenza e sanità pubbliche, nazionalizzazione delle fonti produttive) è rappresentata dalle istituzioni statali e quindi dallo Stato inteso come luogo in cui si cristallizza una tensione pluralistica e conflittuale e allo stesso tempo produttiva di un ordinamento in cui “libertà” e “uguaglianza” non si sopprimono reciprocamente, e fin quando non si capirà che difendere la “democrazia”, non significa semplicemente difenderne gli aspetti formali (elezioni, multipartitismo, ecc.) ma anche e soprattutto gli aspetti sostanziali (uguaglianza e sovranità popolare), si cadrà vittime di una rappresentazione strumentale e tendenziosa, che tende a svilire tutti i fenomeni politici dal “basso” che rivendicano un ruolo attivo dello Stato nei processi economici (finanza funzionale).

D’altra parte è proprio la Costituzione italiana del ‘48 a contemplare l’attuazione del principio di uguaglianza sostanziale (art. 3 comma 2) che richiede espressamente che lo Stato assolva un compito di indirizzo, coordinamento e programmazione al fine di realizzare un ordinamento orientato ai principi di utilità e benessere sociale, al contrario di quanto avviene nell’ordinamento ordoliberale dove lo Stato assolve una funzione di regolazione della concorrenza. È evidente, pertanto, che si tratta di due concezioni della sovranità che definiscono diverse funzioni dello Stato e che rispondono a due filosofie di organizzazione dei rapporti sociali ed economici in conflitto tra di loro: da una parte l’esercizio della sovranità popolare indirizzato al “Welfare”, dall’altra il modello ordoliberale europeista che tende a disciplinare lo Stato dissolvendone le funzioni sociali e a ridurlo all’incarico di intermediario coloniale e di terzo regolatore.

Non può eludersi quindi che la difesa della democrazia, non passa dal moralismo contabile o dal semplice formalismo dei meccanismi elettorali, ma tenendo conto dell’integrazione degli interessi popolari nell’arena delle contese elettorali. Fu proprio il filosofo del diritto Norberto Bobbio in una delle sue opere (“Il futuro della democrazia”) a mettere in evidenza l’obiettivo del neoliberalismo: dapprima la sconfitta del socialismo nella sua versione collettivistica, in seguito la sconfitta della socialdemocrazia keynesiana e in definitiva la sconfitta della democrazia tout court, il tutto con un’offensiva portata avanti con l’astuta arma retorica degli sprechi, della burocratizzazione, della corruzione e delle inefficienze. Un processo, quello dell’offensiva diffamatoria, che ricorda l’atteggiamento semplicistico con cui viene affrontata la questione meridionale in Italia, benché i dati offerti dai Conti pubblici territoriali ci rappresentano una realtà lontana dalla pretesa uniformità di trattamento in tema di investimenti pubblici, e che allontana dalla comprensione del fenomeno della “meridionalizzazione” dell’Italia nel contesto dell’Unione europea.

L’attacco allo Stato-benessere con la sua cornice giuridica di protezione sociale e di repressione delle rendite finanziarie, è in definitiva un attacco alla democrazia partecipativa, perché spoglia i cittadini delle rivendicazioni più radicali, fornendogli nello stesso tempo, l’anestetico sociale della libertà dei consumi e un habitus psicologico conservatore. Lo Stato sociale così si trasforma in una repubblica impoverita e depauperata dei suoi strumenti di intervento atti a garantire la democratizzazione degli interventi pubblici, e la democrazia rappresentativa si trasforma in una democrazia elettorale dove l’apatia politica non solo non è scoraggiata, ma è pienamente tollerata se non promossa. Eppure, se si osserva la storia d’Italia, nel contesto dello Stato liberale dell’ottocento le battaglie dei democratici e dei radicali, erano mirate alla realizzazione della democrazia all’interno della cornice statale con l’estensione del suffragio (“il suffragio universale è alla base della giustizia sociale” scrisse Garibaldi al repubblicano Giovanni Bovio[2]), le battaglie dei socialisti e comunisti nel dopoguerra, prendevano in considerazione paritaria la questione nazionale e la questione sociale rimarcando la necessità dell’indipendenza economica da monopoli e oligopoli. Tutte queste battaglie per la giustizia sociale muovevano da premesse strutturali opposte a quelle odierne: Sovranità popolare, socialismo e comunità (quindi partecipazione), d’altra parte l’attuale sistema ordoliberale europeo o neoliberale in senso ampio, costruisce i sistemi normativi a partire dalle seguenti premesse strutturali: individualismo, consumismo e filosofia della competizione. Ogni riferimento alla sovranità nazionale e popolare è stigmatizzato in nome di una non meglio precisata sovranità europea o globale in cui dovrebbero introdursi le istituzioni “europee o globali” di controllo democratico. L’unico esercizio di sovranità consentito è quello del consumatore, un attore svincolato da ingerenze nazionali il cui unico principio guida è la ricerca del “comfort” temporaneo.

D’altra parte, torna di rilievo il tema della comunità che, secondo il sociologo Ferdinand Tonnies, implica un rapporto di vicinanza dal punto di vista linguistico, sentimentale, storico e delle consuetudini che palesa come la struttura comunitaria, a differenza di quella societaria fondata sullo scambio di utilità, possa esistere solo nella misura in cui esistano questi vincoli di appartenenza e di partecipazione spontanea. Pertanto, alla domanda “esiste una comunità europea?” si può efficacemente rispondere che risulta difficile credere a un rapporto comunitario se è proprio il TUE all’articolo 3 a ricordarci che l’Unione instaura un mercato interno fondato sulla forte competitività. Uno stato di competizione costante che di fatto fa cadere in oblio il principio di comunità. È interessante quanto ci fa notare l’antropologo Marco Aime in tema: “Quando i governi si riferiscono all’UE come a una comunità, lo fanno in modo retorico, proiettando su un’alleanza politico-economica tratti e valori auspicati, tipici della comunità tradizionale. Quando gli abitanti di Lampedusa o di Canazei parlano della loro comunità, invece, si riferiscono a una realtà di fatto”[3].

Ebbene, al di là della ricostruzione fiabesca di un villaggio globale in cui, in virtù del semplice principio dell’interdipendenza economica (trascurando il fatto che il diritto internazionale è governato dai rapporti di forza) si verrebbe a instaurare la provvidenziale armonia universale, in nome di un sovranazionalismo democratico (trascurando il fatto le organizzazioni internazionali di carattere economico funzionano con una governance tipica delle società di capitali), resta un piano di analisi che mette in luce che una comunità esiste là dove è presente uno Stato nel cui ordinamento si segue una precisa idea di bene comune e di economia al servizio del bene comune. Non è un caso che la nostra Costituzione prefiguri un modello di Stato-comunità in contrapposizione allo Stato-apparato: un modello in cui il popolo è reso partecipe delle decisioni sovrane della politica attraverso le istituzioni rappresentative e i corpi intermedi, e in cui il popolo è votato al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 Cost.). Non è un caso che le limitazioni di sovranità di cui parla l’art. 11 della Costituzione siano preordinate esclusivamente (e in condizioni di parità con gli altri Stati) alla costituzione di organismi che tutelino la pace e non la “concorrenza”. Tutto ciò ci suggerisce che lo scontro tra Stato-comunità e organismi internazionali, non può essere banalizzato entro le categorie dialettiche post-moderne, ma deve essere posto sotto i riflettori di un’attenzione pubblica che metta in rilievo il conflitto tra una costruzione sociale che riconosce contemporaneamente l’iniziativa personale e un principio di comunità, e un ordinamento che tutela la concorrenza in funzione del “benessere del consumatore” e operare di conseguenza una scelta: una scelta che divide coloro che esistono solo come consumatori e coloro che, rievocando una meditazione di Marco Aurelio, decidono di essere cittadini dell’universale città umana.


[1] Zygmunt Bauman, “Intervista sull’identità”, cit., p. 51

[2] Giuseppe Garibaldi, “Lettere e proclami”, Edizioni librarie siciliane, cit., p. 159

[3] Marco Aime, “Comunità”, cit., p. 8

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Costituzione Storia

22 Dicembre 1947: l’approvazione della Costituzione

Articolo scritto da Valerio Macagnone, segretario ESC (2020-2021)

Il 22 Dicembre 1947 veniva approvata la Costituzione della repubblica italiana e si apriva così il trentennio glorioso, i trent’anni della ricostruzione di un Paese che aveva preso una decisione netta e inequivocabile rispetto al passato: serviva un taglio netto rispetto alle tendenze totalitarie ma soprattutto serviva un’”economia nuova”, come disse il comunista e costituente Renzo Laconi, in cui, a dispetto della concezione negativa dello Stato nel corso dell’età liberale, si assegnasse un ruolo attivo nello Stato nella riduzione delle disuguaglianze e nella difesa dell’individuo come centro di rapporti sociali.

Il primato assegnato alla dignità dell’individuo e alla centralità del lavoro, dunque, si accompagnano a una concezione dello Stato diversa sia dal Fascismo, in cui il fine dell’uomo è riassunto nell’espressione “Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”, una concezione finalistica che implica un’organizzazione totalitaria della vita collettiva in cui in cui la libertà e i fini della persona umana derivano dallo Stato stesso, e sia dal Liberalismo dove la contrapposizione tra Stato e individuo porta una delimitazione delle funzioni statali in modo da annularne le finalità sociali e redistributive (Stato minimo).

La continuità ideologica del momento resistenziale con la nascita della Costituzione si evince soprattutto da questo: la volontà di superamento tanto del modello di collettività elitario prefascista previsto dallo Statuto Albertino, quanto del modello totalitario.

Oggi ricorre un momento di memoria necessario: la rievocazione di un modello, quello costituzionale, dove il sodalizio tra le posizioni cattoliche-dossettiane e le posizioni social-comuniste, aveva realizzato una idea di Stato sociale che, sebbene non enunciato formalmente dalle norme costituzionali, emergeva sostanzialmente dalle norme che disciplinano i rapporti economici e dalle sedute dell’assemblea costituente. In tale contesto fu proprio Giuseppe Dossetti a dettare la linea di questa nuova forma di Stato quando affermava “la precedenza sostanziale della persona umana (intesa nella completezza dei suoi valori e dei suoi bisogni non solo materiali ma anche spirituali) rispetto allo Stato e la destinazione di questo al servizio di quella”.

Rivendicare la portata progressiva e democratica della Costituzione significa soprattutto questo: trascendere gli aspetti formali della democrazia e risaltarne gli aspetti sostanziali di conquista sociale in termini di difesa del lavoro e delle rivendicazioni delle classi popolari.

Esiste un’eredità culturale che ha donato benessere, libertà e pace. Un patrimonio di valore universale che aspetta soltanto di essere colto e portato a nuova vita.

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Costituzione

Riders: sentenza storica a Palermo

Articolo scritto da Valerio Macagnone, segretario ESC (2020-2021)

L’universo della “gig economy”, ovvero dell’economia dei lavoretti, ci offre un’adeguata rappresentazione della situazione in cui versa il mercato del lavoro italiano, sempre più caratterizzato da sacche di lavoro precario e sottopagato, e sempre più invischiato in una spirale deflazionistica al quale non corrisponde un’adeguata offerta politica in grado di costruire un’articolazione programmatica a tutela dei lavoratori, e a cui i sindacati, salvo rare eccezioni, non sanno reagire con i mezzi di difesa più opportuni.

Un esempio eclatante di “gig economy” su cui si sono sollevati interessanti contrasti giurisprudenziali in ordine alla qualificazione giuridica del rapporto di lavoro, è quello dei riders, ovvero dei fattorini che mediante mezzi di locomozione, come biciclette e motorini, si occupano di svolgere l’attività di consegna a domicilio dei prodotti offerti dagli esercizi commerciali attraverso un sistema che suddivide l’attività lavorativa in tre fasi (ritiro, tragitto e consegna), ognuna delle quali è procedimentalizzata seguendo dei comportamenti determinati dall’azienda food delivery.

Tale sistema prevede l’uso di parametri di valutazione dell’attività lavorativa del rider basato sugli algoritmi della piattaforma digitale utilizzata dalla società datoriale. In particolare, è previsto che i riders siano valutati sulla base di un “punteggio di eccellenza” che incide sulle scelte delle fasce orarie (“slot”) da parte del lavoratore il quale potrà avere accesso prioritariamente alle sessioni lavorative degli orari migliori in ragione di un maggiore punteggio. Ai fini della determinazione del punteggio l’efficienza incide nella misura del 35%, l’attività in ”alta domanda” nella misura del 35%, il feedback dell’utente nella misura del 15%, l’esperienza nella misura del 10% e infine il feedback dei partner nella misura del 5%. Chiaramente ci sono anche i parametri che concernono la valutazione negativa come nel caso di riscontro al ribasso degli ordini in “alta domanda” o di giudizio negativo da parte dei consumatori.

Inoltre i riders vengono assunti con contratti di lavoro autonomo, sono soggetti a basso reddito e le loro prestazioni di lavoro seguono dei meccanismi ripetitivi che li porta a incrementare la quantità delle loro prestazioni per ottenere un miglior giudizio di produttività ed accedere a fasce di orario migliori. Un meccanismo assillante di competizione al ribasso che ricorda molto quanto ci diceva Gaber in uno dei suoi brani:

“Questo ingranaggio così assurdo e complicato/ così perfetto e

travolgente/ quest’ingranaggio fatto di ruote misteriose/ così spietato e massacrante/quest’ingranaggio come un mostro sempre in moto/

che macina le cose che macina la gente”.

Dopo la recente presa di posizione da parte della Suprema Corte Tedesca che ha esteso la disciplina del lavoro subordinato ai riders della multinazionale “Foodora”, la giurisprudenza italiana ha segnato un passo in avanti nel percorso interpretativo riguardante il rapporto di lavoro tra le aziende di food delivery e i fattorini: il Tribunale di Palermo in una recente pronuncia (sezione lavorosentenza 20 novembre 2020n3570),dove il lavoratore ricorrente, in sede di impugnazione del licenziamento chiedeva una diversa qualificazione del rapporto di lavoro, ha statuito che in relazione alle concrete modalità di prestazione dell’attività lavorativa, emerge chiaramente che il lavoro svolto dal rider è da considerarsi fittiziamente autonomo, dal momento che l’organizzazione e la gestione produttiva è unicamente effettuata dalla parte datoriale nell’interesse esclusivo dell’azienda: risulta decisivo, alla luce di quanto esposto dal giudice di primo grado, il fatto che, è proprio la piattaforma, sulla scorta dell’algoritmo, a determinare le assegnazioni delle consegne in modo del tutto indipendente dalla volontà del lavoratore, e sulla base della geolocalizzazione del rider che, per poter essere selezionato, dovrà trovarsi nei pressi dei luoghi di ritiro della merce. Inoltre, in base a suddetto orientamento giurisprudenziale, poiché il punteggio può subire delle riduzioni nelle ipotesi di rifiuto di turni lavorativi, l’eventuale riduzione può essere annoverata come una sanzione atipica che sottoporrebbe il rider al potere latamente disciplinare del datore di lavoro. Alla luce di ciò e sulla scorta del carattere continuativo del rapporto di lavoro e dell’intento punitivo col quale la società ha disposto disattivazione dell’account in seguito alle rivendicazioni sindacali da parte del lavoratore riguardanti precedenti blocchi dell’account e la mancata fornitura dei DPI (dispositivi di protezione individuale), il giudice, ha riconosciuto la presenza del vincolo di subordinazione ai sensi dell’art. 2094 c.c., e ha stabilito l’inefficacia del licenziamento essendo del tutto assimilabile a un licenziamento orale, condannando la società alla reintegrazione del rider e al pagamento delle differenze retributive.

Una pronuncia che permetta al lavoratore di tornare al lavoro a tempo pieno e indeterminato e con il riconoscimento della retribuzione prevista per la mansione di ciclofattorino di cui al VI livello del CCLN Terziario.

Una sentenza, dunque, che può essere un apripista interessante per un settore segnato dalla precarietà esistenziale, ma che ci offre la cifra di come la digitalizzazione del lavoro possa avere effetti alienanti per i lavoratori e per una società che ha bisogno di un urgente recupero del principio lavorista della nostra Costituzione.

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Costituzione

IL MODELLO NEOLIBERISTA: OLIGOPOLIZZARE IL PRIVATO E PRIVATIZZARE IL PUBBLICO

Articolo scritto da Giuseppe Matranga, socio fondatore di ESC e coordinatore del gruppo tematico Economia

“A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca” era solito dire una vecchia volpe democristiana come Giulio Andreotti. Noi siamo qui per pensar male, raccogliere gli indizi e supporre nefandezze, commettiamo peccato, ma spesso ci azzecchiamo. Se due indizi fanno un sospetto e tre fanno una prova, qui stiamo proprio a esagerare, perché essi sono infiniti e reiterati nel tempo e portano tutti alla medesima conclusione: “Oligopolizzare il privato e privatizzare il pubblico”, questa sembra la linea guida di fondo della nostra classe dirigente a tutti i livelli e da qualsiasi schieramento di appartenenza. I recenti avvenimenti susseguitisi negli ultimi mesi, ovvero dalla scoppio della crisi da coronavirus, hanno comportato forti modifiche e mutazioni, veri e propri shock alla nostra economia nazionale, che ha visto paralizzati per lunghe settimane interi comparti industriali e commerciali; il processo ahinoi è ancora in corso e non fa presagire alcun ottimismo nella ristabilizzazione delle normali condizioni di mercato. Non essendo di nostra competenza la materia virologica, epidemiologica e scientifica in questi ambiti, non ci pronunceremo sulla valutazione della esigenza e sulla necessarietà di tali misure ma ci limitiamo a commentarne gli effetti.

Il lockdown, nelle sue varie forme e misure, ha prodotto e continua a produrre forti shock simmetrici (sia dal lato dell’offerta che della domanda), causando gravi problemi economici e finanziari per svariate categorie d’impresa e lanciando l’intero paese in una profonda recessione economica ad oggi stimata in un intorno di -10% PIL annuo rispetto al 2019. Le misure intraprese dal governo nel corso degli scorsi mesi, in origine minimizzando ottusamente l’entità del problema e successivamente attraverso la cattiva gestione dell’ingente quantità di fondi reperiti nei mercati finanziari, ha di fatto solo minimamente ammortizzato l’effetto del lockdown, portando specialmente a soffrire tutto il segmento della piccola e media impresa, ovvero quella fascia composta dalla singola partita iva (il cosiddetto imprenditore di se stesso), fino a tutte le attività che coinvolgono meno di 250 occupati; a tal proposito ci duole ricordare che l’Italia è per eccellenza, e tutta la letteratura lo conferma, il paese maggiormente caratterizzato dalla frammentazione aziendale tra tutti i paesi sviluppati. Volendo fare cenno più nel dettaglio l’entità di tale frammentazione possiamo menzionare alcuni dati: – il valore aggiunto del comparto PMI (piccole e medie imprese) contribuisce per il 12,5 del PIL;- le microimprese (meno di 10 addetti) contribuiscono per il 30,4 % della produzione di valore complessiva;- le piccole e medie imprese contribuiscono per il 38,7% della produzione,- le grandi imprese (più di 250 dipendenti o più di 50 mln di euro di fatturato) producono solo il 30,9% del valore aggiunto totale.*rapporto Cerved 2018

A totale differenza della realtà italiana negli altri paesi economicamente sviluppati, con cui ha senso confrontarci, le proporzioni sono del tutto inverse in favore delle grandi aziende, che coinvolgono la grande maggioranza della popolazione attiva, suddividendola principalmente in macro-classi composte da impiegati ed operai che si contrappongono nettamente per dimensioni a quelle dei liberi professionisti e degli imprenditori. L’oligopolizzazione del mercato può facilmente definirsi come il processo di assottigliamento e distruzione del substrato composto dalle piccole aziende, tra le quali vanno intese anche la panetteria, la piccola bottega o il negozio di abbigliamento, le stesse che hanno permesso al nostro paese di svilupparsi nei decenni passati, nonché quelle che coinvolgono la maggioranza dei lavoratori italiani.

Annientando una larga fetta di piccole imprese si genererà una forte e diffusa disoccupazione, già prevista dagli istituti di statistica tra 2,8 e 4 milioni nell’arco dei prossimi mesi , ovvero all’incirca un raddoppio della quota di disoccupazione pre-covid19; ciò nell’arco del breve e medio periodo produrrà un aumento dell’emigrazione in uscita, coinvolgendo specialmente le fasce più specializzate della popolazione (fuga dei cervelli), inoltre abbasserà notevolmente il potere contrattuale dei lavoratori rendendoli più propensi e disponibili ad accettare offerte sottoretribuite sul piano economico e perciò accelerando il già in corso fenomeno della “diminuzione del saggio di salario”; come se non bastasse il problema interno, le attuali politiche sull’immigrazione non fanno altro che sollecitare ancor più l’ingresso di potenziale manodopera a basso costo, indi premere maggiormente su una ferita già aperta come quella del mercato del lavoro.

Se non vuol credersi alla versione delle strane coincidenze difficilmente prevedibili, balza all’occhio l’idea che tale processo possa essere un vero e proprio obiettivo da parte della nostra classe dirigente, obiettivo descrivibile in pochi semplici passaggi, uno conseguente all’altro: tra i prossimi mesi e i prossimi due anni si genererà un “deserto economico” fatti di milioni di disoccupati, saracinesche abbassate, edifici abbandonati; ciò comporterà la deflazione salariale, l’abbassamento del valore immobiliare degli edifici residenziali ma anche di quelli industriali, a cui si aggiungono quelli dei grandi uffici largamente abbandonati a seguito dell’implementazione dello smart working, il nostro Paese si renderà perciò facilmente depredabile da parte di grandi investitori internazionali, gruppi finanziari che avranno l’opportunità di acquisire i nostri asset strategici a basso costo.

Se vi sembra uno scenario pessimistico, sappiate che tale processo era già in corso da prima in Italia seppur a velocità meno sostenuta, e se volete invece un esempio drastico di una realtà a noi vicina e amica eccovi presentata “la Grecia” , che forse sarebbe il caso di appellare nuovamente Magna Grecia, non tanto per la sua grandezza quanto per il fatto che, proprio come la Grecia, “ se la sono magnata nel giro di pochi mesi”.

Privatizzazione del Pubblico significa andare ad estraniare il ruolo dello Stato quale fornitore di servizi pubblici in favore di aziende private, il tutto in virtù di una becera quanto falsa narrativa liberista quale quella che “ il libero mercato favorisce la concorrenza e perciò va a vantaggio dei consumatori”. Vi siete mai posti la questione di quanto ciò potesse essere vero? Come è possibile che le forniture energetiche siano sempre costantemente rincarate nonostante la loro liberalizzazione, non ha funzionato la concorrenza nonostante ci siano ormai svariate aziende fornitrici?

Forse poche volte in merito si considera che proprio riguardo all’energia, qualsiasi sia il nostro fornitore di energia, il cavo elettrico che essa porta nelle nostre case è sempre e solo uno, così come tutta la rete dalla quale essa viene trasportata, ma come se non bastasse, vi siete chiesti chi ha costruito tale rete elettrica? Non sarà forse stata l’Enel grazie a ingenti investimenti pubblici nel corso di svariati decenni?

È così che stiamo definendo i cosiddetti monopoli naturali, categoria alla quale possiamo aggiungere la rete stradale e autostradale, quella ferroviaria, la rete idrica e del gas, internet e altri svariati esempi. Viene meno così la logica di Stato quale prestatore di servizi, che può chiederci un contributo monetario sotto forma di recupero dei costi sostenuti per l’erogazione, e viene sostituita da quella che prevede il dispensamento di remunerazioni e perciò di guadagni tra aziende private le quali approfittano di infrastrutture pubbliche e non garantiscono neppure una fornitura egualitaria tra i cittadini, che divengono così esclusivamente consumatori/clienti.

Per decenni tali processi sono stati portati avanti da ideologi di stampo liberale a cominciare dall’economista austriaco Friedrich von Hayek, passando poi a una versione più moderna quale quella della cosiddetta scuola di Boston che istituisce di fatto il pensiero neoliberista. Tali ideologie sembra vengano accolte tout Court indistintamente da tutti gli schieramenti politici italiani e conseguentemente dall’intera classe dirigente senza che alcuna alternativa venga presa in considerazione, e così nonostante esso sia un paradosso da destra a sinistra si parla di “rivoluzione liberale”.Dimostrazioni di tali processi sono ormai annosi e cominciano sin dalla privatizzazione del settore bancario, dalla privatizzazione dell’ENI, la dismissione dell’IRI, la privatizzazione della compagnia telefonica, delle autostrade, etc., resta ancora da chiarire quali siano stati i vantaggi finora apportati, o forse la domanda andrebbe posta diversamente e dovremmo bensì chiederci “a chi abbia portato vantaggi”.Problemi analoghi si verificano quando alcune di tali aziende monopolistiche o oligopolistiche presentino dei problemi finanziari, e sia lo Stato, in questo caso in veste paternalistica, ad elargire fondi di danaro pubblico per risollevarne le sorti, andando a fomentare quel pensiero controcorrente che si riassume in “privatizzare gli utili e socializzare le perdite”.Sembra che si vada sempre più verso un proseguo accelerato di tale percorso privatistico, in settori fondamentali quali la sanità, l’istruzione, i beni demaniali, i siti monumentali e i beni artistici.Tutti gli avvenimenti sopramenzionati, nonché quelli ipotizzati e non ancora del tutto verificatisi in Italia, ci riportano anch’essi alle vicende della vicina magna grecia: in merito, basta poco per scoprire quanto nel paese ellenico, il luogo in cui nacque la nostra civiltà, nonché la democrazia, a seguito della crisi finanziaria – indotta a nostro parere – siano stati ceduti a multinazionali private gran parte del patrimonio artistico, degli assets strategici quali porti e aeroporti, intere spiagge; molti servizi pubblici essenziali siano divenuti in gran parte a gestione privata, quali l’università, l’acqua, la sanità; i prezzi di tali servizi siano lievitati notevolmente e di contro si siano assottigliati grandemente gli stipendi e le pensioni, oltre a questo, resta da sottolineare l’emigrazione di circa 500.000 abitanti, pari al 4% dell’intera popolazione ellenica di cui la metà giovani laureati, negli anni successivi alla crisi finanziaria. Un film purtroppo già visto.Ci aspettiamo adesso nel prossimo futuro una prosecuzione accelerativa di tali processi autodistruttivi, contornata da una narrativa a reti unificate che descrive lo Stato come un ente sempre più indebitato, corrotto, sprecone, spendaccione, incapace di allocare correttamente le risorse, al fine di giustificarne la totale dismissione e la successiva trasformazione del suo popolo in meri consumatori inerti/operai sottopagati simil-servi.Di fatto sta per restaurarsi una sorta di rivisitato ancien regime in stile finanziario, in cui non saranno i nobili ad ergersi al di sopra della società bensì una classe di borghesi miliardari, rentiers, uomini di potere che conteranno diritti di gran lunga superiori alla gente comune; una realtà in cui tutti saranno egualmente diseguali dai pochi che reggono le fila del gioco, ma non saranno minimamente in gradi di giudicarne ne i protagonisti ne le azioni.“per la libertà e affinché siamo popolo pensante e non gregge inerme”

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Costituzione

Libertà è partecipazione: il partito e lo Stato sociale

Articolo di Valerio Macagnone, segretario ESC (2020-2021)

La società neoliberale è strutturata mediaticamente in modo da far credere che la libertà sia una sorta di prodotto assicurativo preconfezionato contro gli aleatori rischi di fascismo e che il securitarismo sia l’unica ambizione popolare possibile in un contesto dove gli squilibri nella distribuzione del reddito non vengono tenuti in minima considerazione se non come arma retorica priva di contenuto. La realtà storica, invece, ci dice che la libertà per i ceti più deboli è stata una conquista ottenuta dai partiti socialisti e popolari con una lotta intelligente che alla base aveva disciplina, conoscenza, divulgazione e difesa della coesione organizzativa. Il partito in ambito socialistico, durante il corso della Prima Repubblica, rappresentava il necessario mezzo di integrazione delle masse popolari nelle istituzioni politiche, dacché il passaggio dallo Stato monoclasse/liberale, a base sociale ristretta, allo Stato pluriclasse/sociale, richiedeva appunto la presenza di corpi intermedi che con un apparato organizzativo solido mantenevano la coesione di azione e intenti tra elettori ed eletti. La creazione di una identità collettiva di classe è stato, quindi, l’obiettivo a cui miravano i partiti a vocazione popolare che, dopo la fase di transizione totalitaria rappresentata dal fascismo, introdussero un nuovo quadro istituzionale/normativo democratico e nuovi istituti atti a garantire il progresso sociale e un benessere diffuso. La convergenza di ambizioni ha avuto la sua consacrazione nella Costituzione che prefigura una nuova forma di Stato il cui scopo era quello di superare definitivamente le criticità emerse nel corso dell’età liberale. Lo Stato sociale, dunque, conosciuto anche come Welfare state ovvero Stato del benessere, si distingue dallo Stato liberale, basato sul principio della libertà negativa, per l’enunciazione di una nuova formula di equilibrio in cui spetta proprio agli organi pubblici l’intervento nel campo economico. Tale intervento si manifesta principalmente in due modi: 1) governo del ciclo economico attraverso politiche di stampo keynesiano volte a contrastare gli effetti negativi del ciclo economico con incremento della spesa pubblica al fine di supportare la domanda interna ed evitare la disoccupazione; 2) adozione di norme giuridiche finalizzate a ottenere da una parte, sul piano regolativo, una sostanziale riduzione delle disuguaglianze di reddito tra individui e tra gruppi con una disciplina del rapporto di lavoro subordinato volta a tutelare il soggetto con minore potere contrattuale, ovvero il lavoratore, ad esempio con la limitazione della libertà di licenziamento o ancora con il diritto a un’equa retribuzione, e, d’altra parte, sul piano redistributivo, un sostanziale trasferimento di risorse finanziarie da determinate categorie ad altre attraverso il prelievo fiscale onde poter attuare politiche assistenziali e previdenziali in favore di inabili al lavoro, disoccupati e dei lavoratori infortunati o malati. La Costituzione, quindi, nella sua vocazione umanistica, mette proprio in evidenza la necessità di tutelare non soltanto le “libertà negative” (libertà dallo Stato) ovvero tutte quelle libertà per le quali è dovere da parte dello Stato omettere qualsiasi forma di intervento che crei ostacolo alla libertà individuale (ad esempio, l’art. 21 Cost: Libertà di espressione, o ancora, art. 33 Cost.: libertà di arte/scienza/insegnamento) ma, nell’intenzione di superare i limiti del liberalismo e di tutelare i diritti positivi, pone il principio fondamentale dell’eguaglianza sostanziale previsto dal secondo comma dell’art. 3 della Costituzione: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Tale principio, introdotto per volontà del socialista Lelio Basso, trasferisce sul piano sostanziale l’enunciazione formale di eguaglianza di cui al primo comma dello stesso articolo, ed esplicita il carattere interventista dello Stato sociale. L’esistenza dello Stato del benessere diventa quindi la condizione preliminare per la rivendicazione di entrambe le posizioni giuridiche attive: libertà e diritti positivi. Ma se da una parte le libertà negative, retaggio del costituzionalismo liberale, richiedono un’astensione dello Stato dalle scelte dell’individuo, i diritti positivi si caratterizzano per la pretesa di soddisfazione nei confronti dello Stato il quale si impegna a porre in essere tutti gli interventi opportuni a che sia garantiti i diritti sociali (lavoro, istruzione, casa, assistenza e salute). Si può dunque parlare, in quest’ultimo caso, di libertà mediante lo Stato, e come osserva Piero Calamandrei “Se si guarda alla loro finalità, è legittimo l’allineamento di questi nuovi diritti sociali accanto ai tradizionali diritti politici del cittadino in un’unica categoria di diritti di libertà; perché la loro proclamazione deriva, come si è visto, dall’aver riconosciuto che l’ostacolo alla libera esplicazione della persona morale nella vita della comunità può derivare non solo dalla tirannia politica, ma anche da quella economica: sicché i diritti che mirano ad affrancare l’uomo da queste due tirannie si pongono ugualmente come rivendicazioni di libertà”.

Piero Calamandrei

Dunque, appare evidente che mediante gli interventi correttivi del Welfare state vengono a realizzarsi delle compensazioni modificative dei risultati ottenuti dalle forze del mercato e di conseguenza l’individualismo liberale viene superato in favore di un sistema ad economia mista basato sulla solidarietà sociale. L’individuo e lo Stato non vengono più considerate come entità astratte in contrapposizione tra di loro, ma nel contesto della democrazia pluralista e sociale, l’individuo può definire la propria personalità pienamente partecipando alla vita sociale ed economica del Paese. Lo Stato interventista/keynesiano, pertanto, è stato il frutto di un compromesso politico dove accanto alle libertà liberali, si tengono in considerazione le disuguaglianze prodotte dalle dinamiche del mercato che vengono quindi corrette in funzione di un pieno equilibrio democratico tra le diverse istanze sociali e le diverse categorie presenti all’interno di una democrazia pluralista. Tuttavia, nonostante le nobili intenzioni dei costituenti abbiano trovato una valida ma parziale traduzione empirica nel trentennio postbellico, la narrazione attualmente dominante nel mondo mediatico, televisivo e letterario, tende a dare una rappresentazione erronea dello Stato e delle sue funzioni costituzionali, proiettando l’attenzione dell’opinione pubblica su dibattiti estremamente polarizzati e molto spesso irrazionali in cui lo sfondo comune, rappresentato dall’ordinamento giuridico sovranazionale, non viene messo minimamente in discussione se non attraverso proclami a cui non viene data alcuna parvenza di solidità. In questo scenario, dove i titoli inseguono la piazza (i social network) e si ha una prevalenza delle forze regressive (già profetizzate dal costituente socialista Gustavo Ghidini) il vero progressismo, ovvero quello che mira a ottenere l’avanzamento dei ceti più deboli della società in una cornice di dirigismo statale, è tuttora neutralizzato da una “sfilata cinematografica” di retoriche opposte e divisive ma solidamente unite dalla volontà di non mettere in discussione i capisaldi dell’ideologia neoliberale (Stato minimo, concorrenza e individualismo). Il concetto di libertà viene distorto e assolutizzato in maniera impropria, e d’altra parte prende campo la deriva punitivista della destra securitaria che, pur rivolgendo “prosaicamente” la propria offerta politica alla fasce sociali che più sono state colpite dalla crisi, continua ad adottare politiche regressive sotto il profilo economico. In questo contesto storico fortemente contrassegnato dalla crisi economica, culturale e sociale, la Costituzione può tornare ad essere la bussola con la quale orientarsi in futuro e rappresentare la base necessaria per un orizzonte di progresso materiale e spirituale, in cui può tornare in auge il concetto di democrazia progressiva in forza del quale l’antinomia tra individualismo e collettivismo viene definitivamente risolta in favore di un sistema in cui un regime giuridico di giustizia sociale è condizione preliminare e arricchimento della libertà individuale: come sosteneva il filosofo Bontadini “Il personalismo perciò deve evitare, se non vuole corrompersi speculativamente, di opporsi al “socialismo”, deve accettare l’eliminazione dell’antinomia”, e in tal senso, occorre necessariamente tornare a marciare nella direzione tracciata dalla nostra carta costituzionale.