Articolo di Valerio Macagnone, segretario ESC (2020-2021)
La società neoliberale è strutturata mediaticamente in modo da far credere che la libertà sia una sorta di prodotto assicurativo preconfezionato contro gli aleatori rischi di fascismo e che il securitarismo sia l’unica ambizione popolare possibile in un contesto dove gli squilibri nella distribuzione del reddito non vengono tenuti in minima considerazione se non come arma retorica priva di contenuto. La realtà storica, invece, ci dice che la libertà per i ceti più deboli è stata una conquista ottenuta dai partiti socialisti e popolari con una lotta intelligente che alla base aveva disciplina, conoscenza, divulgazione e difesa della coesione organizzativa. Il partito in ambito socialistico, durante il corso della Prima Repubblica, rappresentava il necessario mezzo di integrazione delle masse popolari nelle istituzioni politiche, dacché il passaggio dallo Stato monoclasse/liberale, a base sociale ristretta, allo Stato pluriclasse/sociale, richiedeva appunto la presenza di corpi intermedi che con un apparato organizzativo solido mantenevano la coesione di azione e intenti tra elettori ed eletti. La creazione di una identità collettiva di classe è stato, quindi, l’obiettivo a cui miravano i partiti a vocazione popolare che, dopo la fase di transizione totalitaria rappresentata dal fascismo, introdussero un nuovo quadro istituzionale/normativo democratico e nuovi istituti atti a garantire il progresso sociale e un benessere diffuso. La convergenza di ambizioni ha avuto la sua consacrazione nella Costituzione che prefigura una nuova forma di Stato il cui scopo era quello di superare definitivamente le criticità emerse nel corso dell’età liberale. Lo Stato sociale, dunque, conosciuto anche come Welfare state ovvero Stato del benessere, si distingue dallo Stato liberale, basato sul principio della libertà negativa, per l’enunciazione di una nuova formula di equilibrio in cui spetta proprio agli organi pubblici l’intervento nel campo economico. Tale intervento si manifesta principalmente in due modi: 1) governo del ciclo economico attraverso politiche di stampo keynesiano volte a contrastare gli effetti negativi del ciclo economico con incremento della spesa pubblica al fine di supportare la domanda interna ed evitare la disoccupazione; 2) adozione di norme giuridiche finalizzate a ottenere da una parte, sul piano regolativo, una sostanziale riduzione delle disuguaglianze di reddito tra individui e tra gruppi con una disciplina del rapporto di lavoro subordinato volta a tutelare il soggetto con minore potere contrattuale, ovvero il lavoratore, ad esempio con la limitazione della libertà di licenziamento o ancora con il diritto a un’equa retribuzione, e, d’altra parte, sul piano redistributivo, un sostanziale trasferimento di risorse finanziarie da determinate categorie ad altre attraverso il prelievo fiscale onde poter attuare politiche assistenziali e previdenziali in favore di inabili al lavoro, disoccupati e dei lavoratori infortunati o malati. La Costituzione, quindi, nella sua vocazione umanistica, mette proprio in evidenza la necessità di tutelare non soltanto le “libertà negative” (libertà dallo Stato) ovvero tutte quelle libertà per le quali è dovere da parte dello Stato omettere qualsiasi forma di intervento che crei ostacolo alla libertà individuale (ad esempio, l’art. 21 Cost: Libertà di espressione, o ancora, art. 33 Cost.: libertà di arte/scienza/insegnamento) ma, nell’intenzione di superare i limiti del liberalismo e di tutelare i diritti positivi, pone il principio fondamentale dell’eguaglianza sostanziale previsto dal secondo comma dell’art. 3 della Costituzione: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Tale principio, introdotto per volontà del socialista Lelio Basso, trasferisce sul piano sostanziale l’enunciazione formale di eguaglianza di cui al primo comma dello stesso articolo, ed esplicita il carattere interventista dello Stato sociale. L’esistenza dello Stato del benessere diventa quindi la condizione preliminare per la rivendicazione di entrambe le posizioni giuridiche attive: libertà e diritti positivi. Ma se da una parte le libertà negative, retaggio del costituzionalismo liberale, richiedono un’astensione dello Stato dalle scelte dell’individuo, i diritti positivi si caratterizzano per la pretesa di soddisfazione nei confronti dello Stato il quale si impegna a porre in essere tutti gli interventi opportuni a che sia garantiti i diritti sociali (lavoro, istruzione, casa, assistenza e salute). Si può dunque parlare, in quest’ultimo caso, di libertà mediante lo Stato, e come osserva Piero Calamandrei “Se si guarda alla loro finalità, è legittimo l’allineamento di questi nuovi diritti sociali accanto ai tradizionali diritti politici del cittadino in un’unica categoria di diritti di libertà; perché la loro proclamazione deriva, come si è visto, dall’aver riconosciuto che l’ostacolo alla libera esplicazione della persona morale nella vita della comunità può derivare non solo dalla tirannia politica, ma anche da quella economica: sicché i diritti che mirano ad affrancare l’uomo da queste due tirannie si pongono ugualmente come rivendicazioni di libertà”.
Dunque, appare evidente che mediante gli interventi correttivi del Welfare state vengono a realizzarsi delle compensazioni modificative dei risultati ottenuti dalle forze del mercato e di conseguenza l’individualismo liberale viene superato in favore di un sistema ad economia mista basato sulla solidarietà sociale. L’individuo e lo Stato non vengono più considerate come entità astratte in contrapposizione tra di loro, ma nel contesto della democrazia pluralista e sociale, l’individuo può definire la propria personalità pienamente partecipando alla vita sociale ed economica del Paese. Lo Stato interventista/keynesiano, pertanto, è stato il frutto di un compromesso politico dove accanto alle libertà liberali, si tengono in considerazione le disuguaglianze prodotte dalle dinamiche del mercato che vengono quindi corrette in funzione di un pieno equilibrio democratico tra le diverse istanze sociali e le diverse categorie presenti all’interno di una democrazia pluralista. Tuttavia, nonostante le nobili intenzioni dei costituenti abbiano trovato una valida ma parziale traduzione empirica nel trentennio postbellico, la narrazione attualmente dominante nel mondo mediatico, televisivo e letterario, tende a dare una rappresentazione erronea dello Stato e delle sue funzioni costituzionali, proiettando l’attenzione dell’opinione pubblica su dibattiti estremamente polarizzati e molto spesso irrazionali in cui lo sfondo comune, rappresentato dall’ordinamento giuridico sovranazionale, non viene messo minimamente in discussione se non attraverso proclami a cui non viene data alcuna parvenza di solidità. In questo scenario, dove i titoli inseguono la piazza (i social network) e si ha una prevalenza delle forze regressive (già profetizzate dal costituente socialista Gustavo Ghidini) il vero progressismo, ovvero quello che mira a ottenere l’avanzamento dei ceti più deboli della società in una cornice di dirigismo statale, è tuttora neutralizzato da una “sfilata cinematografica” di retoriche opposte e divisive ma solidamente unite dalla volontà di non mettere in discussione i capisaldi dell’ideologia neoliberale (Stato minimo, concorrenza e individualismo). Il concetto di libertà viene distorto e assolutizzato in maniera impropria, e d’altra parte prende campo la deriva punitivista della destra securitaria che, pur rivolgendo “prosaicamente” la propria offerta politica alla fasce sociali che più sono state colpite dalla crisi, continua ad adottare politiche regressive sotto il profilo economico. In questo contesto storico fortemente contrassegnato dalla crisi economica, culturale e sociale, la Costituzione può tornare ad essere la bussola con la quale orientarsi in futuro e rappresentare la base necessaria per un orizzonte di progresso materiale e spirituale, in cui può tornare in auge il concetto di democrazia progressiva in forza del quale l’antinomia tra individualismo e collettivismo viene definitivamente risolta in favore di un sistema in cui un regime giuridico di giustizia sociale è condizione preliminare e arricchimento della libertà individuale: come sosteneva il filosofo Bontadini “Il personalismo perciò deve evitare, se non vuole corrompersi speculativamente, di opporsi al “socialismo”, deve accettare l’eliminazione dell’antinomia”, e in tal senso, occorre necessariamente tornare a marciare nella direzione tracciata dalla nostra carta costituzionale.