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Dai “ristori” ai “sostegni”: cambia il governo, restano gli “avanzi”

Articolo scritto da Pietro Salemi, vice-presidente di ESC

Il decreto “sostegno”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 22 marzo, rappresenta certamente il primo, vero banco di prova del governo Draghi, almeno per ciò che concerne le misure di sostegno all’economia necessarie a causa del protrarsi delle restrizioni anti-Covid. Prima di addentrarsi in una pur succinta analisi del decreto “sostegno”, è utile ripercorrere una breve cronistoria delle misure già predisposte nel corso del (già tragico) 2020 dal governo Conte II. Per ragioni di economia espositiva, l’approccio si concentra particolarmente sulle misure economiche a sostegno dei lavoratori: intendendo inclusi in questa macro-categoria (come contrapposta a quello dei cd. rentiers), sia i lavoratori dipendenti in senso stretto, sia le partita IVA e i piccoli imprenditori.

Il 17 marzo 2020 venne varato il decreto “cura Italia” con cui furono stanziati i primi 25 miliardi di Euro come risposta al divampare della pandemia che costringeva gran parte degli italiani a restare a casa, sospendendo ogni attività lavorativa “non essenziale”. Le principali risposte offerte dal “cura Italia” riguardavano blocco dei licenziamenti e varo della cassa integrazione in deroga, accesso agevolato al credito bancario garantito (in tutto o in parte dallo Stato), sospensione di alcune scadenze fiscali per le piccole imprese ed un primo stanziamento di risorse (invero, piuttosto blando) per il potenziamento del sistema sanitario nazionale.

I primi “ristori” a fondo perduto furono varati il 20 maggio 2020 con il Decreto “rilancio” in cui furono stanziati 55 miliardi complessivi, di cui 16 miliardi, appunto, per il fondo perduto alle imprese colpite dalla pandemia e dalle restrizioni anti-Covid (20% della perdita di fatturato tra aprile 2019 e aprile 2020). Inoltre, il decreto “rilancio” metteva sul piatto bonus per le partite IVA di 600 € per aprile e 1000 € per maggio destinati ai professionisti, crediti d’imposta al 60% per gli affitti degli immobili commerciali e per adeguamento locali e acquisto DPI, riduzione oneri sulle bollette, oltre al rifinanziamento della cassa integrazione, unito alla proroga del blocco ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. Il sito del MEF le battezza come le “misure per rimettere in moto il Paese”: il seguito si preoccupò di mostrarci quanto potesse invecchiare male tale locuzione propagandistica.

Alla vigilia del Ferragosto, il Decreto “Agosto” stanziava ulteriori 25 miliardi di Euro per contributo sulle forniture della filiera italiana, per il contributo centri storici e per l’ulteriore estensione della cassa integrazione fino al 31 dicembre (9+9 settimane).

Si arriva, così, alla “seconda ondata”, con il Decreto Ristori I di fine ottobre (5 miliardi totali di aiuti) con cui si provvede ad una riparametrazione (al 100%, 150%, 200% o 400%, a seconda del codice ATECO e del grado di invasività delle restrizioni anti-Covid) dei contributi a fondo perduto già erogati con il decreto “rilancio”. I coefficienti furono, in effetti, riaggiustati (al rialzo) anche con i successivi “ristori bis” e “ristori ter”, emanati rispettivamente ad inizio e a fine novembre 2020. Quest’ultimo decreto si preoccupava, inoltre, di estendere per i mesi di ottobre, novembre e dicembre i crediti d’imposta sugli affitti di immobili commerciali. Com’è tristemente noto, tali decreti “ristori” furono anche aspramente criticati, non solo per l’insufficienza complessiva dei fondi perduti messi a disposizione, ma anche per aver tagliato fuori, con criteri di ammissibilità ai benefici eccessivamente stringenti e restrittivi, svariate attività, lasciate ingiustamente senza alcun ristoro (o per ragioni di codice ATECO o perché start-up, effettivamente avviate dopo il maggio 2019, quindi con fatturato nullo ad aprile 2019).

Si chiude così l’anno 2020 dal bilancio catastrofico sia per le imprese e le famiglie, sia per il governo Conte, chiamato a sostenerle. Si consideri, infatti, che per ammontare complessivo dei sussidi, contributi a fondo perduto, cassa integrazione e sgravi fiscali, elargiti causa Covid, siamo, assieme alla Spagna, coloro che hanno ‘aiutato’ in misura più contenuta i propri cittadini/imprese nel confronto con i principali paesi dell’Unione, nonostante, al contempo, siamo stati la nazione che in Europa ha registrato il più alto numero di vittime a causa del Covid (dopo il Belgio) e, contestualmente, abbiamo subito il crollo del Pil più rovinoso di tutta l’Ue.

L’anno scorso ogni cittadino italiano ha ipoteticamente ricevuto 1.979 euro dallo Stato per fronteggiare gli effetti negativi provocati dalla pandemia, contro una media dei paesi dell’Area Euro che si stima in 2.518 euro pro capite (+539 euro rispetto alla media Italia). L’Austria, ad esempio, ha erogato 3.881 euro per ogni abitante (+1.902 euro rispetto a noi), il Belgio 3.688 euro (+1.709 euro), i Paesi Bassi 3.443 euro (+1.464 euro), la Germania 2.938 (+ 959 euro) e la Francia 2.455 euro (+476 euro rispetto all’Italia)[1].

Giungiamo così al recente “decreto sostegno”, con cui il cosiddetto “governo dei migliori” era chiamato ad offrire risposta non solo a tutte le carenze dei precedenti provvedimenti a firma Conte-Gualtieri, ma anche a oltre 4 mesi di totale abbandono di imprese e lavoratori al loro triste destino di chiusure a singhiozzo.  

Tale decreto riserva circa 12 miliardi in contributi a fondo perduto per imprese e lavoratori autonomi. Altri 10 miliardi andranno alla Cassa integrazione e altre forme di sostegno al lavoro, 2 miliardi alle infrastrutture e trasporti 1 miliardo per il reddito di cittadinanza e reddito di emergenza e infine 6 miliardi per sanità e vaccini, per un totale complessivo di 32 miliardi di Euro. Si tratta, dunque, di uno sostegno all’economia in linea, almeno in valori assoluti, con quanto già fatto in precedenza dalla premiata ditta Conte-Gualtieri, ma che, se spalmato sul periodo più ampio da ristorare (4 mesi, invece di 2), risulta ancor più esiguo e insufficiente.

Entrando nel merito sul tema ristori, cambia il metodo di calcolo, ma la sostanza resta pressoché la stessa, se non peggiore. Il ristoro a fondo perduto non si calcola più sulla base di un raffronto secco tra aprile 2019 e aprile 2020, bensì sulla base della perdita di fatturato media mensile tra il 2019 e il 2020. Così come disposto nei precedenti decreti, il contributo spetta a condizione che “l’ammontare medio mensile del fatturato e dei corrispettivi dell’anno 2020 sia inferiore almeno del 30 per  cento  rispetto  all’ammontare medio mensile del fatturato 2019” (art .1 comma 4 del Dl ‘sostegni’). Non devono, però, abbagliare le nuove percentuali di fondo perduto da applicare perdite di fatturato medio mensile: esse vanno dal 60% al 20% a seconda del volume d’affari dell’impresa in questione, ma sono, allo stesso tempo, calcolate su un singolo mese “medio” e destinate a coprire un periodo di almeno quattro mensilità (che va almeno da gennaio a fine aprile 2021, nella più ottimistica ipotesi). Lascio al lettore le operazioni aritmetiche di divisione di tali percentuali di ristoro spalmate su tali mesi da ristorare (con i relativi costi fissi) e le valutazioni del caso.

Tuttavia, per facilitare i conti riferiti all’intero anno 2020 da ristorare, possiamo affidarci al recente studio della FIPE[2], secondo cui con il decreto Sostegni il ristorante tipo che nel 2019 fatturava 550mila euro e che nel 2020, a causa degli oltre 160 giorni di chiusura imposti dalle misure di contenimento della pandemia da Covid, ha perso il 30% del proprio fatturato, 165mila euro, beneficerà di un contributo una tantum di 5.500 euro. Poco cambia per un bar tipo. Chi nel 2019 fatturava 150mila euro e ne ha persi 25mila a causa delle restrizioni, avrà diritto a un bonus di 1.875 euro, il 4,7% della perdita media annuale. Con i vari decreti Ristori prima, e il nuovo decreto Sostegni oggi, sono stati erogati – osserva lo studio FIPE- in tutto 22 miliardi di euro. Una cifra che non consente neanche la copertura dei costi fissi. Servirebbero, sempre secondo i calcoli FIPE, altri 18 miliardi per arrivare alla copertura di solo il 10% delle spese fisse che, nonostante tutto, una piccola impresa si trova comunque ad affrontare.

Non va certo meglio, se si guarda alla cassa integrazione e al blocco ai licenziamenti. Com’è noto, le due misure viaggiano a braccetto, seguendo il medesimo destino, e con il decreto “sostegno” si prevede la proroga degli ammortizzatori sociali, come segue: per una durata massima di 13 settimane nel periodo compreso tra l’1 aprile e il 30 giugno 2021 in relazione al trattamento di Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria (CIGO); per una durata massima di 28 settimane nel periodo compreso tra l’1 aprile e il 31 dicembre 2021 a titolo di assegno ordinario e cassa integrazione in deroga, destinati a piccole imprese artigianato e terziario. Se da un lato, la proroga di tali misure è da accogliersi favorevolmente quando la si compari con l’ipotesi di staccare immediatamente la spina a questi lavoratori, dall’altro, l’aver cominciato a tracciare una rimozione selettiva e progressiva di tale sostegni, lascia implicitamente intravedere già il momento in cui la situazione sarà lasciata alle sapienti cure della mano invisibile del mercato: 30 giugno per le CIGO e fine ottobre per la CIG in deroga.

Gli apologeti delle doti taumaturgiche del “governo dei migliori”, capitanato da Draghi, potrebbero rimanere delusi: al netto dello stralcio delle cartelle esattoriali fino a 5000€ della decade 2000-2010, i “sostegni” all’economia finiscono praticamente qui. Il decreto ‘sostegno’ risponde, in effetti, alla medesima logica di fondo già assunta con i precedenti ristori: non partire da ciò di cui ci sarebbe davvero bisogno per poi reperire i fondi necessari (un “what ever it takes”, si direbbe), bensì distribuire quel poco che è consentito rimediare senza mettere in discussione il sistema (del debito).

Con un calo del PIL del 9% nel 2020, con stime di crescita 2021 in continuo calo e con il virus che ancora divampa al ritmo di 400 morti  e 20.000 contagi al giorno, con 5,6 milioni di persone in povertà assoluta (record dal 2005, con un aumento di ben un milione nell’ultimo anno solare)[3], con una proiezione di disoccupazione 2021 che sfonda la doppia cifra (11%)[4] e con una quota sempre maggiore di lavoratori scoraggiati, con il 21% di tutte le PMI d’Italia a rischio fallimento e 544 piccole imprese fallite ogni giorno (!) nel 2020[5], della “distruzione creatrice del mercato”, profetizzata da Draghi, la “distruzione” non necessita altre didascalie.

La parte creativa? La distruzione del tessuto delle piccole e medie imprese italiane “crea” la predazione di tali attività (o per via acquisitiva o per semplice cattura delle quote di mercato) da parte di realtà di grandi dimensioni e possibilmente con struttura multinazionale (come ad esempio le mafie). Si tratterà di un’accelerazione dei processi di oligopolizzazione dei mercati, già in atto anche prima del Covid, che unito all’aumento della povertà assoluta “crea” un ulteriore e drammatico aumento delle disuguaglianze (economiche, politiche, culturali) di non poco momento anche per la tenuta democratica. Mercati (anche del lavoro, sempre più) oligopolizzati, povertà diffusa e disoccupazione crescente (soprattutto giovanile) “creano” maggiore ricattabilità da parte del datore di lavoro (ancora una volta, anche mafioso) e maggiore spinta al ribasso su diritti e salari.

Chi sperava in una miracolosa moltiplicazione di pani e di pesci, dovrà accontentarsi di una divisione di briciole e avanzi. Sarebbe meglio abbandonare la fiduciosa resilienza per passare alla resistenza.


[1] Fonte Ufficio Studi CGIA Mestre: cdhttps://www.adnkronos.com/covid-bonus-e-aiuti-a-cittadini-e-imprese-italia-ultima-in-ue_3steQqL51B1szvVUwH9KD

[2] https://www.fipe.it/comunicazione/note-per-la-stampa/item/7697-dl-sostegni-5-500-euro-ai-locali-che-ne-hanno-persi-165mila-fipe-confcommercio-una-fragile-stampella.html

[3] Fonte ISTAT:

https://www.huffingtonpost.it/entry/istat-la-poverta-assoluta-torna-a-crescere-e-tocca-il-record-dal-2005_it_6040b43fc5b617a7e412f0ae

[4] Fonte ISTAT: https://www.istat.it/it/archivio/251214

[5] Fonte Rapporto CERVED PMI: https://know.cerved.com/wp-content/uploads/2020/11/RAPPORTO-CERVED-PMI-2020-2.pdf

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Decreto ‘ristori’ o decreto ‘avanzi’?

Articolo scritto da Pietro Salemi, vice-presidente di ESC

Dopo mesi passati a programmare un risposta efficace alla seconda ondata, dopo mesi impiegati a varare protocolli, linee guida e regole di condotta anti-contagio per tutte le attività economiche, eccoci nuovamente catapultati indietro nel tempo, a marzo. Direttamente in “prigione” senza passare dal via.

Molto si è discusso degli errori, delle incongruenze o talvolta delle vere e proprie mancanze nella predisposizione delle rete di sicurezza (sanitaria ed economica) che il Governo avrebbe dovuto costruire per salvaguardare il Paese intero dal rischio di una seconda e devastante ondata di contagi.

Intendiamoci, era chiaro sin dall’inizio della vicenda che si dovesse trovare un delicato equilibrio nel difficile trade-off tra salute ed economia. Un bilanciamento ragionevole poteva, ad esempio, essere il “congelamento” delle attività chiamate al sacrificio per contenere i contagi: ossia salvaguardare le posizioni economiche penalizzate per evitare fallimenti a catena e, conseguentemente, disoccupazione dilagante.  Il punto è che, ad oggi, siamo al contempo ad un passo da un nuovo lock down totale e dal tracollo dell’economia.

Al riguardo, è ovvio che il Governo dovrebbe assumersi l’incommensurabile responsabilità politica e la (forfettariamente) quantificabile responsabilità economica. Tuttavia, il Governo sembra voler fare orecchie da mercante tanto sulla prima quanto sulla seconda responsabilità. Nel primo caso, continua a barricarsi dietro all’inaccettabile retorica del generico “sacrificio necessario” e al non più accettabile “provateci voi, al posto nostro” (che, in realtà, non fa che mostrare la totale insipienza dell’esecutivo nella gestione della situazione). Nel secondo caso, è il cd. ‘decreto ristori’ ad essere chiamato a indennizzare i lavoratori e le attività penalizzate dal nuovo lock down. E’ il caso di dirlo senza troppi giri di paroli: le misure economiche previste in quest’ultimo decreto sono assolutamente insufficienti, ancora una volta irragionevoli e, a tratti, ai limite dell’offesa alla dignità del lavoro.

Entriamo nel dettaglio. Dato che le attività coinvolte dalle ultime restrizioni anti-contagio sono molte e molto eterogenee, sarebbe impossibile in questa sede esaminare tutte le specifiche criticità che il decreto ‘Ristori’ presenta. Possiamo, però, procedere ad una simulazione assumendo la prospettiva di un’immaginaria piccola impresa: ad esempio, una start up di tipo pub gestito in forma societaria, con codice Ateco 56.30.00, che abbia iniziato la propria attività nel giugno 2019 che chiameremo per comodità “Chicelohafattofare s.r.l.”.

Partiamo proprio dall’articolo 1, che disciplina i tanto decantati contributi settoriali a fondo perduto. Il sistema previsto dalla disposizione calibra l’ammontare del fondo perduto in base ad un coefficiente correlato al codice Ateco dell’attività coinvolta da restrizioni causa covid-19. Si prevedono quattro fasce di coefficiente che, almeno nelle migliori intenzioni del legislatore, variano a seconda del grado di invasività e durata nel tempo delle restrizioni: 100% (taxi e trasporto a noleggio), 150% (pub, alberghi, villaggi turistici, bar, centri benessere, organizzazione eventi ecc.), 200% (ristoranti, palestre, centri sportivi, piscine, stadi ecc.) e, infine, 400% per discoteche e sale da ballo (chiuse ormai da mesi). Tale coefficiente si applica sul contributo a fondo perduto già percepito con il cd. decreto rilancio, ossia commisurato alla perdita di fatturato tra il mese d’aprile 2020 e lo stesso mese del 2019.

Qui la prima macroscopica anomalia per la nostra “Chicelohafattofare s.r.l.”: in quanto start up, essa non aveva fatturato alcunchè nell’aprile 2019, così da rendere nulla la differenza di fatturato tra 2020 (chiusura causa covid) e 2019 (apertura successiva dell’attività). Così, il combinato disposto dei commi 4 e 6 dell’art.1 del decreto ‘ristori’ prova a risolvere il problema ammettendo le start up (imprese attivate dopo l’1 gennaio 2019), all’accesso al contributo, ma con il minimo: soli 1000€ per le persone fisiche, 2000€ per persone giuridiche. La situazione che ne deriva è paradossale: proprio le imprese di recente attivazione, con minor avviamento e posizionamento di mercato meno solido, vengono addirittura penalizzate rispetto ad imprese di lungo corso già avviate e magari con un cuscinetto di risparmi aziendali da cui attingere. La situazione non è solo paradossale, è probabilmente anche incostituzionale per violazione del principio di ragionevolezza ex art. 2 comma 3 della Cost, soprattutto ove si pensi che sarebbe bastato prevedere un contributo legato alla perdita di fatturato media mensile dei mesi di attività (pre-covid e post-covid) o, ancor più semplicemente, sullo stesso mese di settembre (e non più su aprile, come nel caso del decreto ‘Rilancio’ emanato a maggio).

Sempre in merito a questo ai coefficienti per il contributo a fondo perduto dell’art. 1, c’è anche un’altro aspetto che quasi offende la dignità del lavoro della “Chicelohafattofare s.r.l.”: ai pub, attività che solitamente aprono al pubblico dopo le 18, viene riservato un coefficiente solo del 150% insieme ad attività che oggettivamente possono continuare a restare aperte nonostante un fisiologico calo di fatturato dovuto alla crisi covid. Tra le righe, il messaggio del governo è chiaro e provocatorio: i pub possono restare aperti…basta vendere gin tonic o un aperitivo dalle 10 del mattino alle 18, facile, no?!

Passiamo ad esaminare ora un altro articolo meno sponsorizzato: l’art. 8, che estende le previsioni sul credito d’imposta (al 60%) per gli immobili commerciali anche ai mesi di ottobre, novembre e dicembre. Almeno due sono le criticità generali, che non riguardano solo la nostra “Chicelohafattofare s.r.l.” ma tutte le imprese beneficiare. In primo luogo, è del tutto evidente che per attività di fatto chiuse ex lege, una percentuale del 60% non è per nulla sufficiente: al fine di “congelare” la posizione economica di queste attività serviva una vera e propria moratoria sugli affitti commerciali unita ad un blocco degli sfratti per morosità per tutto il periodo di durata dell’emergenza. In secondo luogo, nei fatti non si tratta neanche di un vero e proprio aiuto in termini di liquidità, giacché per essere fruito l’affittuario deve prima corrispondere al proprietario dell’immobile l’intera mensilità come pattuita nel contratto di locazione. Sarebbe stato anche molto semplice, oltre che costituzionalmente conforme, prevedere il credito d’imposta direttamente a favore del proprietario dell’immobile locato. Sarebbe stato anche questo un modo per spostare parte del costo della crisi covid dal lavoro al capitale.

C’è, infine, una terza macroscopica “svista” che riguarda le start up (come la “Chicelohafattofare s.r.l.”): le start up che non possono dimostrare una perdita di fatturato rispetto ad aprile 2019 (ad esempio, perché non erano ancora attive) sarebbero tagliate fuori. Tale criticità era già riscontrabile nel decreto ‘Rilancio’, salvo, fortunatamente, essere poi stata sanata in via interpretativa con circolare dell’Agenzia dell’Entrate, per salvare la norma dalla censura di incostituzionalità.

Andiamo, quindi, alle famose misure a sostegno dei livelli occupazionali e del reddito dei lavoratori dipendenti: l’art. 12 disciplina l’estensione della Cassa integrazione (ordinaria e in deroga). Vengono previste ulteriori 6 settimane di Cassa Integrazione tra il 16 di novembre e il 31 gennaio. Non serve la calcolatrice, né avere particolare intuito per capire chi pagherà la differenza tra le 6 settimane fruibili e le oltre 10 totali del periodo di emergenza (dal 16 novembre al 31 gennaio). Non è, infine, possibile comprendere perché il periodo non sia stato fatto decorrere dalla data dell’ultimo Dpcm o almeno dal 1 novembre. 

In effetti, è forse possibile rinvenire la risposta a tutte queste criticità all’art. 34 che chiude l’articolato sulle fonti di finanziamento adoperate: al contrario delle solite roboanti dichiarazioni di ‘potenza di fuoco’ da “oltre 5 miliardi” [1], ben 4 miliardi di quei 5,4 non sono altro che risorse derivanti da riduzioni di spese già previste nel “Cura Italia” (d.l. 17 marzo 2020 n. 18, conv. con mod.dalla legge 24 aprile 2020, n. 27) e nel “Decreto Rilancio” (d.l. 19 maggio 2020, n. 34, conv., con mod., dalla legge 17 luglio 2020, n. 77).

Dunque risorse già stanziate in precedenza, non utilizzate, ‘avanzi’ riclicati nel d.l. “Ristori” che non sono per nulla sufficienti a “congelare” le attività chiamate al sacrificio, in vista di una quanto mai incerta piena riapertura.

Ma ogni buon ristoratore si accorge quando gli vengono serviti degli ‘avanzi’.

Ci vediamo in piazza.

[1] Ex multis, si vedano i seguenti link: https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/10/27/dl-ristori-gualtieri-per-i-piccoli-ristoranti-contributo-medio-di-5-173-euro-per-i-grandi-25mila-euro-ai-teatri-da-5mila-a-30mila-euro/5981963/

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/10/27/dl-ristori-gualtieri-per-i-piccoli-ristoranti-contributo-medio-di-5-173-euro-per-i-grandi-25mila-euro-ai-teatri-da-5mila-a-30mila-euro/5981963/