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Dai “ristori” ai “sostegni”: cambia il governo, restano gli “avanzi”

Articolo scritto da Pietro Salemi, vice-presidente di ESC

Il decreto “sostegno”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 22 marzo, rappresenta certamente il primo, vero banco di prova del governo Draghi, almeno per ciò che concerne le misure di sostegno all’economia necessarie a causa del protrarsi delle restrizioni anti-Covid. Prima di addentrarsi in una pur succinta analisi del decreto “sostegno”, è utile ripercorrere una breve cronistoria delle misure già predisposte nel corso del (già tragico) 2020 dal governo Conte II. Per ragioni di economia espositiva, l’approccio si concentra particolarmente sulle misure economiche a sostegno dei lavoratori: intendendo inclusi in questa macro-categoria (come contrapposta a quello dei cd. rentiers), sia i lavoratori dipendenti in senso stretto, sia le partita IVA e i piccoli imprenditori.

Il 17 marzo 2020 venne varato il decreto “cura Italia” con cui furono stanziati i primi 25 miliardi di Euro come risposta al divampare della pandemia che costringeva gran parte degli italiani a restare a casa, sospendendo ogni attività lavorativa “non essenziale”. Le principali risposte offerte dal “cura Italia” riguardavano blocco dei licenziamenti e varo della cassa integrazione in deroga, accesso agevolato al credito bancario garantito (in tutto o in parte dallo Stato), sospensione di alcune scadenze fiscali per le piccole imprese ed un primo stanziamento di risorse (invero, piuttosto blando) per il potenziamento del sistema sanitario nazionale.

I primi “ristori” a fondo perduto furono varati il 20 maggio 2020 con il Decreto “rilancio” in cui furono stanziati 55 miliardi complessivi, di cui 16 miliardi, appunto, per il fondo perduto alle imprese colpite dalla pandemia e dalle restrizioni anti-Covid (20% della perdita di fatturato tra aprile 2019 e aprile 2020). Inoltre, il decreto “rilancio” metteva sul piatto bonus per le partite IVA di 600 € per aprile e 1000 € per maggio destinati ai professionisti, crediti d’imposta al 60% per gli affitti degli immobili commerciali e per adeguamento locali e acquisto DPI, riduzione oneri sulle bollette, oltre al rifinanziamento della cassa integrazione, unito alla proroga del blocco ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. Il sito del MEF le battezza come le “misure per rimettere in moto il Paese”: il seguito si preoccupò di mostrarci quanto potesse invecchiare male tale locuzione propagandistica.

Alla vigilia del Ferragosto, il Decreto “Agosto” stanziava ulteriori 25 miliardi di Euro per contributo sulle forniture della filiera italiana, per il contributo centri storici e per l’ulteriore estensione della cassa integrazione fino al 31 dicembre (9+9 settimane).

Si arriva, così, alla “seconda ondata”, con il Decreto Ristori I di fine ottobre (5 miliardi totali di aiuti) con cui si provvede ad una riparametrazione (al 100%, 150%, 200% o 400%, a seconda del codice ATECO e del grado di invasività delle restrizioni anti-Covid) dei contributi a fondo perduto già erogati con il decreto “rilancio”. I coefficienti furono, in effetti, riaggiustati (al rialzo) anche con i successivi “ristori bis” e “ristori ter”, emanati rispettivamente ad inizio e a fine novembre 2020. Quest’ultimo decreto si preoccupava, inoltre, di estendere per i mesi di ottobre, novembre e dicembre i crediti d’imposta sugli affitti di immobili commerciali. Com’è tristemente noto, tali decreti “ristori” furono anche aspramente criticati, non solo per l’insufficienza complessiva dei fondi perduti messi a disposizione, ma anche per aver tagliato fuori, con criteri di ammissibilità ai benefici eccessivamente stringenti e restrittivi, svariate attività, lasciate ingiustamente senza alcun ristoro (o per ragioni di codice ATECO o perché start-up, effettivamente avviate dopo il maggio 2019, quindi con fatturato nullo ad aprile 2019).

Si chiude così l’anno 2020 dal bilancio catastrofico sia per le imprese e le famiglie, sia per il governo Conte, chiamato a sostenerle. Si consideri, infatti, che per ammontare complessivo dei sussidi, contributi a fondo perduto, cassa integrazione e sgravi fiscali, elargiti causa Covid, siamo, assieme alla Spagna, coloro che hanno ‘aiutato’ in misura più contenuta i propri cittadini/imprese nel confronto con i principali paesi dell’Unione, nonostante, al contempo, siamo stati la nazione che in Europa ha registrato il più alto numero di vittime a causa del Covid (dopo il Belgio) e, contestualmente, abbiamo subito il crollo del Pil più rovinoso di tutta l’Ue.

L’anno scorso ogni cittadino italiano ha ipoteticamente ricevuto 1.979 euro dallo Stato per fronteggiare gli effetti negativi provocati dalla pandemia, contro una media dei paesi dell’Area Euro che si stima in 2.518 euro pro capite (+539 euro rispetto alla media Italia). L’Austria, ad esempio, ha erogato 3.881 euro per ogni abitante (+1.902 euro rispetto a noi), il Belgio 3.688 euro (+1.709 euro), i Paesi Bassi 3.443 euro (+1.464 euro), la Germania 2.938 (+ 959 euro) e la Francia 2.455 euro (+476 euro rispetto all’Italia)[1].

Giungiamo così al recente “decreto sostegno”, con cui il cosiddetto “governo dei migliori” era chiamato ad offrire risposta non solo a tutte le carenze dei precedenti provvedimenti a firma Conte-Gualtieri, ma anche a oltre 4 mesi di totale abbandono di imprese e lavoratori al loro triste destino di chiusure a singhiozzo.  

Tale decreto riserva circa 12 miliardi in contributi a fondo perduto per imprese e lavoratori autonomi. Altri 10 miliardi andranno alla Cassa integrazione e altre forme di sostegno al lavoro, 2 miliardi alle infrastrutture e trasporti 1 miliardo per il reddito di cittadinanza e reddito di emergenza e infine 6 miliardi per sanità e vaccini, per un totale complessivo di 32 miliardi di Euro. Si tratta, dunque, di uno sostegno all’economia in linea, almeno in valori assoluti, con quanto già fatto in precedenza dalla premiata ditta Conte-Gualtieri, ma che, se spalmato sul periodo più ampio da ristorare (4 mesi, invece di 2), risulta ancor più esiguo e insufficiente.

Entrando nel merito sul tema ristori, cambia il metodo di calcolo, ma la sostanza resta pressoché la stessa, se non peggiore. Il ristoro a fondo perduto non si calcola più sulla base di un raffronto secco tra aprile 2019 e aprile 2020, bensì sulla base della perdita di fatturato media mensile tra il 2019 e il 2020. Così come disposto nei precedenti decreti, il contributo spetta a condizione che “l’ammontare medio mensile del fatturato e dei corrispettivi dell’anno 2020 sia inferiore almeno del 30 per  cento  rispetto  all’ammontare medio mensile del fatturato 2019” (art .1 comma 4 del Dl ‘sostegni’). Non devono, però, abbagliare le nuove percentuali di fondo perduto da applicare perdite di fatturato medio mensile: esse vanno dal 60% al 20% a seconda del volume d’affari dell’impresa in questione, ma sono, allo stesso tempo, calcolate su un singolo mese “medio” e destinate a coprire un periodo di almeno quattro mensilità (che va almeno da gennaio a fine aprile 2021, nella più ottimistica ipotesi). Lascio al lettore le operazioni aritmetiche di divisione di tali percentuali di ristoro spalmate su tali mesi da ristorare (con i relativi costi fissi) e le valutazioni del caso.

Tuttavia, per facilitare i conti riferiti all’intero anno 2020 da ristorare, possiamo affidarci al recente studio della FIPE[2], secondo cui con il decreto Sostegni il ristorante tipo che nel 2019 fatturava 550mila euro e che nel 2020, a causa degli oltre 160 giorni di chiusura imposti dalle misure di contenimento della pandemia da Covid, ha perso il 30% del proprio fatturato, 165mila euro, beneficerà di un contributo una tantum di 5.500 euro. Poco cambia per un bar tipo. Chi nel 2019 fatturava 150mila euro e ne ha persi 25mila a causa delle restrizioni, avrà diritto a un bonus di 1.875 euro, il 4,7% della perdita media annuale. Con i vari decreti Ristori prima, e il nuovo decreto Sostegni oggi, sono stati erogati – osserva lo studio FIPE- in tutto 22 miliardi di euro. Una cifra che non consente neanche la copertura dei costi fissi. Servirebbero, sempre secondo i calcoli FIPE, altri 18 miliardi per arrivare alla copertura di solo il 10% delle spese fisse che, nonostante tutto, una piccola impresa si trova comunque ad affrontare.

Non va certo meglio, se si guarda alla cassa integrazione e al blocco ai licenziamenti. Com’è noto, le due misure viaggiano a braccetto, seguendo il medesimo destino, e con il decreto “sostegno” si prevede la proroga degli ammortizzatori sociali, come segue: per una durata massima di 13 settimane nel periodo compreso tra l’1 aprile e il 30 giugno 2021 in relazione al trattamento di Cassa Integrazione Guadagni Ordinaria (CIGO); per una durata massima di 28 settimane nel periodo compreso tra l’1 aprile e il 31 dicembre 2021 a titolo di assegno ordinario e cassa integrazione in deroga, destinati a piccole imprese artigianato e terziario. Se da un lato, la proroga di tali misure è da accogliersi favorevolmente quando la si compari con l’ipotesi di staccare immediatamente la spina a questi lavoratori, dall’altro, l’aver cominciato a tracciare una rimozione selettiva e progressiva di tale sostegni, lascia implicitamente intravedere già il momento in cui la situazione sarà lasciata alle sapienti cure della mano invisibile del mercato: 30 giugno per le CIGO e fine ottobre per la CIG in deroga.

Gli apologeti delle doti taumaturgiche del “governo dei migliori”, capitanato da Draghi, potrebbero rimanere delusi: al netto dello stralcio delle cartelle esattoriali fino a 5000€ della decade 2000-2010, i “sostegni” all’economia finiscono praticamente qui. Il decreto ‘sostegno’ risponde, in effetti, alla medesima logica di fondo già assunta con i precedenti ristori: non partire da ciò di cui ci sarebbe davvero bisogno per poi reperire i fondi necessari (un “what ever it takes”, si direbbe), bensì distribuire quel poco che è consentito rimediare senza mettere in discussione il sistema (del debito).

Con un calo del PIL del 9% nel 2020, con stime di crescita 2021 in continuo calo e con il virus che ancora divampa al ritmo di 400 morti  e 20.000 contagi al giorno, con 5,6 milioni di persone in povertà assoluta (record dal 2005, con un aumento di ben un milione nell’ultimo anno solare)[3], con una proiezione di disoccupazione 2021 che sfonda la doppia cifra (11%)[4] e con una quota sempre maggiore di lavoratori scoraggiati, con il 21% di tutte le PMI d’Italia a rischio fallimento e 544 piccole imprese fallite ogni giorno (!) nel 2020[5], della “distruzione creatrice del mercato”, profetizzata da Draghi, la “distruzione” non necessita altre didascalie.

La parte creativa? La distruzione del tessuto delle piccole e medie imprese italiane “crea” la predazione di tali attività (o per via acquisitiva o per semplice cattura delle quote di mercato) da parte di realtà di grandi dimensioni e possibilmente con struttura multinazionale (come ad esempio le mafie). Si tratterà di un’accelerazione dei processi di oligopolizzazione dei mercati, già in atto anche prima del Covid, che unito all’aumento della povertà assoluta “crea” un ulteriore e drammatico aumento delle disuguaglianze (economiche, politiche, culturali) di non poco momento anche per la tenuta democratica. Mercati (anche del lavoro, sempre più) oligopolizzati, povertà diffusa e disoccupazione crescente (soprattutto giovanile) “creano” maggiore ricattabilità da parte del datore di lavoro (ancora una volta, anche mafioso) e maggiore spinta al ribasso su diritti e salari.

Chi sperava in una miracolosa moltiplicazione di pani e di pesci, dovrà accontentarsi di una divisione di briciole e avanzi. Sarebbe meglio abbandonare la fiduciosa resilienza per passare alla resistenza.


[1] Fonte Ufficio Studi CGIA Mestre: cdhttps://www.adnkronos.com/covid-bonus-e-aiuti-a-cittadini-e-imprese-italia-ultima-in-ue_3steQqL51B1szvVUwH9KD

[2] https://www.fipe.it/comunicazione/note-per-la-stampa/item/7697-dl-sostegni-5-500-euro-ai-locali-che-ne-hanno-persi-165mila-fipe-confcommercio-una-fragile-stampella.html

[3] Fonte ISTAT:

https://www.huffingtonpost.it/entry/istat-la-poverta-assoluta-torna-a-crescere-e-tocca-il-record-dal-2005_it_6040b43fc5b617a7e412f0ae

[4] Fonte ISTAT: https://www.istat.it/it/archivio/251214

[5] Fonte Rapporto CERVED PMI: https://know.cerved.com/wp-content/uploads/2020/11/RAPPORTO-CERVED-PMI-2020-2.pdf

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Storia

Risorgimento, socialismo e questione meridionale

Articolo di Valerio Macagnone, segretario ESC (2020-2021)

Il 27 Maggio 1860, il generale Garibaldi, dopo aver escogitato uno stratagemma diversivo che disorienta la colonna guidata dal colonnello Von Mechel, penetra a Palermo e affronta le truppe borboniche al Ponte dell’ammiraglio dove grazie a un’azione congiunta dei volontari del colonnello Tüköry e la compagnia guidata da Giacinto Carini riesce vittoriosamente a superare le difese regie e a sormontarle riuscendo ad arrivare a Piazza della Fieravecchia (oggi Piazza della Rivoluzione) e a stabilire il proprio quartier generale al palazzo Pretorio dove organizzerà la direzione politica della sua dittatura già proclamata a Salemi. Garibaldi è perfettamente consapevole della necessità dell’appoggio popolare alla causa e del decisivo contributo dei volontari siciliani per la sua spedizione e a lungo aveva esitato, arrivando a sconsigliare l’azione immediata al patriota siciliano Rosolino Pilo. Il retroscena della spedizione dei mille (1089 per la precisione) vede come protagonisti i patrioti siciliani (La Masa, Pilo e Crispi) i quali erano persuasi della bontà della impresa in ragione della situazione storica siciliana. La Sicilia, infatti, è in fermento, e l’ala repubblicana dei patrioti risorgimentali è convinta di far partire il moto unitario fomentando l’insurrezione popolare al Sud contro il regime dei Borbone (come testimonia altresì l’episodio infelice della spedizione di Sapri di Carlo Pisacane). La rivoluzione indipendentista del 1848 (orientata all’unione confederale), le rivolte tra il ’49 e il ’60 e i moti del 1820 e del 1837, d’altro canto, testimoniano l’insofferenza storica dei siciliani nei confronti dei Borbone e delle loro politiche austeritarie e repressive. Esemplari le parole di Karl Marx nel suo scritto “La Sicilia e i siciliani”del 1860: “[…] attualmente, l’oppressione politica, amministrativa, e fiscale schiaccia tutte le classi della popolazione; e queste ingiustizie sono sotto gli occhi di tutti. Ma quasi tutte le terre sono ancora nelle mani di un numero relativamente piccolo di latifondisti o baroni. […]. Ora la Sicilia è di nuovo insanguinata, e l’Inghilterra è la distaccata spettatrice di queste nuove orge dell’infame Borbone, e dei suoi non meno infami favoriti, laici o clericali, gesuiti o uomini d’arme.[…] Non un grido di indignazione si leva in tutta Europa. Nessun capo di governo e nessun parlamento chiede la messa al bando di quell’idiota assetato di sangue di Napoli.”

Dopo la repressione della rivolta della Gancia del 4 Aprile 1860 guidata da Francesco Riso, conclusasi con un insuccesso a causa di una denuncia della polizia segreta, l’attività cospirativa e di rivolta continuò nelle campagne circostanti Palermo dando modo a Crispi, Pilo e La Masa di convincere Garibaldi dell’intervento in Sicilia.

La Sicilia, dunque, è vista come la scintilla necessaria per il processo unitario nel Sud Italia, d’altronde non poteva ignorarsi il malcontento popolare derivante delle condizioni economiche dell’agricoltura siciliana che era stazionaria e retrograda, secondo quanto sostenuto dall’economista catanese Alessio Scigliani nel 1837, infatti, gli investimenti volti a migliorare i canali di irrigazione, la strumentazione e le tecniche colturali erano pressoché nulli e la maggioranza degli agricoltori, benché fittavoli, versavano in condizioni di povertà a causa dell’elevato livello delle imposte. Una situazione socio-economica di carattere feudale con un tasso di analfabetismo di circa il 90% in cui venivano tenuti intatti i diritti medievali del possesso della terra e dove esistevano notevoli carenze infrastrutturali (all’appuntamento dell’Unità nazionale la Sicilia arriverà senza un metro di strada ferrata) tanto che nei giorni della battaglia di Milazzo fu Garibaldi ad autorizzare la società Adami e Lemmi alla progettazione del primo tronco ferroviario siciliano. Antonio Gramsci a tal riguardo scriverà: “le paterne amministrazioni di Spagna e dei Borboni nulla avevano creato: la borghesia non esisteva, l’agricoltura era primitiva e non bastava neppure a soddisfare il mercato locale; non strade, non porti, non utilizzazione delle poche acque che la regione per la sua speciale conformazione, possedeva.”[1]A fronte della stagnante situazione siciliana, i proclami del socialista Garibaldi per la distribuzione della terra ebbero seguito quando, dopo la presa di Palermo concretizzatasi dopo tre giorni di combattimento a cui prese parte la popolazione insorta, il 2 Giugno 1860 il generale emetterà un decreto con cui provvede alla ripartizione delle terre demaniali (beni comunali o statali) in favore di coloro che non erano in possesso di poderi e che accettavano di militare, inoltre emanerà provvedimenti per l’abolizione dei dazi sulle derrate di prima necessità, l’abolizione della tassa sul macinato e la soppressione delle congregazioni religiose dei Gesuiti e dei Liguorini i cui beni vennero devoluti alle università siciliane. Venne inoltre nominata una commissione per l’accertamento delle opere d’arte onde evitare che venissero trafugate e venne abolito il titolo di eccellenza e il baciamano. Tuttavia, se da un lato l’attività riformista del generale provocò gli entusiasmi dei ceti popolari, dall’altro provocò accanimenti e confusioni e infine la prevalenza delle ragioni dei “galantuomini” siciliani quando si trattò di tutelare l’ordine pubblico.

Intanto da Torino, Cavour, sospettoso come sempre nei riguardi di Garibaldi e Crispi, mandò un emissario, Giuseppe La Farina, il cui obiettivo era di screditare l’operato garibaldino, fomentare animosità e chiedere l’annessione immediata al Piemonte, ma ciò non avvenne per risolutezza dello stesso Garibaldi che continuò a essere inviso al ministro piemontese anche dopo, come risulta evidente dai rapporti epistolari del conte coi suoi emissari. In una lettera a Costantino Nigra, prima dell’incontro di Teano tra il re e il generale nizzardo, scrisse: “Il re si è deciso a marciare su Napoli per ridurre alla ragione Garibaldi e gettare a mare quel nido di rossi repubblicani e di demagoghi socialisti che si è formato intorno a lui”. Il conte di Cavour, liberale e autoritario al tempo stesso, uomo politico cinico e sottile che aveva commentato il ’48 francese esortando a rispettare l’ordine materiale e morale della civiltà contro le aggressioni dei “soldati dell’anarchia”, acerrimo nemico di Mazzini, era convinto dal canto suo che i problemi sociali delle classi meno agiate dovessero essere risolti entro i confini della “vera scienza economica” e secondo un sistema di carità legale sul modello britannico, ed era chiaramente avverso alle posizioni repubblicane e democratiche che venivano accusate indiscriminatamente di “comunismo” onde poter serrare le file contro le pretese più radicali del Partito d’Azione. Tuttavia Mazzini, nel frattempo, e insieme a lui Agostino Bertani (fondatore dell’estrema sinistra storica), Cattaneo e Alberto Mario, volevano evitare l’annessione pura e semplice per subordinarla all’Unità con Roma capitale, mentre Garibaldi dava prova del suo lealismo nei confronti di Vittorio Emanuele II il quale, tuttavia, subiva notevolmente l’ascendente di Cavour e delle sue trame che miravano a tutelare la ragione “liberale” e i rapporti strategici con la Francia. L’assenza di compattezza del fronte democratico (Garibaldi, Pisacane e Felice Orsini si erano distaccati da Mazzini), i tatticismi cavouriani, la mancanza di una visione sistematica del socialismo (ancora nella sua fase embrionale) e di una piattaforma strategica della rivoluzione nazionale (nonostante i saggi di Pisacane) furono fattori che naturalmente contribuirono a determinare l’egemonizzazione da parte del partito moderato del progetto unitario e a ragione Vittorio Emanuele II poté dire di avere in tasca il Partito d’azione.

In questo contesto (quello repubblicano), tra i più grandi esponenti del dibattito risorgimentale quelli che, tra i primi introdussero il tema del socialismo e dell’importanza della questione agraria accanto a quella nazionale, discostandosi da Mazzini il quale era fedele al principio della collaborazione tra classi e all’idea dell’assoluta preminenza della questione unitaria e dell’indipendenza, vanno certamente ricordati Giuseppe Ferrari e Carlo Pisacane. Il primo, sotto l’influenza di idee proudhoniane, propugnava la necessità della riforma del latifondo, un’idea di uguaglianza illuministica che pone in essere una legge agraria progressiva, un’idea di proprietà fondata sul lavoro e la lotta contro i privilegi feudali. In effetti, il pensiero del Ferrari è un radicalismo egualitario a carattere precapitalistico che prende in considerazione la questione della redistribuzione della ricchezza con il solo riferimento alla proprietà terriera, pensiero che ovviamente risente della sua formazione settecentesca ma anche dei limiti oggettivi della realtà sociale italiana. D’altro canto, il Ferrari sosteneva che all’obiettivo unitario bisognava anteporre la questione della libertà intesa non in termini formali ma come rivoluzione dell’ordinamento sociale nel passaggio dall’assolutismo feudale al socialismo. Scriverà infatti: “La libertà, la sovranità, l’indipendenza non sono che menzogne là dove il ricco schiaccia il povero, là dove il povero non può nulla se non si affanna a procacciar delizie ai ricchi”[2]. Carlo Pisacane, d’altro canto, è un convinto assertore della rivoluzione sociale, dell’equivalenza tra dominio austriaco e Regno sabaudo, e riteneva che il corso della storia potesse modificarsi con l’indispensabile concorso della rivoluzione delle idee e sosteneva la democratizzazione effettiva dell’istruzione, dei mezzi di lavoro e dell’esercito. Pisacane auspicava una rivoluzione senza un effettivo sviluppo dell’economia capitalistica ritenuto fonte di miseria e regresso da un lato, e di concentrazione di profitti in mano a pochi dall’altro, e si discostava dal Ferrari per la priorità accordata all’indipendenza nazionale e per il suo intento di coniugare rivoluzione sociale e rivoluzione nazionale, e, dunque di animare la lotta per l’indipendenza con l’ideale socialista: “Questo primo sentimento di disgusto, per lo stato presente, che già comincia a palesarsi nel popolo, è il germe della futura rivoluzione italiana, germe che i pensatori dovrebbero svolgere, elaborare, discutere, formulare, renderlo popolare e farne la bandiera di un partito”.[3]

Nei fatti, tuttavia, l’incameramento dell’esito del processo risorgimentale da parte dell’ala moderata con a capo Cavour e Vittorio Emanuele II si concretizzò anche grazie al prezioso e generoso contributo dell’ala repubblicana che, d’altro canto, pagava le proprie ingenuità, le divisioni e la transizione verso il pragmatismo cavouriano, nonostante l’ammirevole volontarismo, il magnifico impegno di Mazzini e il socialismo istintivo di Garibaldi. L’incameramento e la cooptazione di molti uomini garibaldini e mazziniani che andarono a comporre l’ala “sinistra” del partito piemontese dando così vita al trasformismo nella sua fase originaria, determinarono il successo sabaudo e la direzione delle politiche post-unitarie in senso liberal-liberista e in senso repressivo come nel caso della rivolta del sette e mezzo di Palermo del 1866, dove la rivolta coinvolse diversi ex mazziniani, garibaldini e anarchici come Francesco Bonafede Oddo il quale prese parte alla Prima Internazionale e fu di fatto uno dei principali organizzatori dell’insurrezione in quanto segretario del Comitato rivoluzionario. L’insurrezione, definita come “l’ultima fiammata del Risorgimento”, anche se presentava una direzione ibrida e amorfa, si concluse dopo sette giorni e mezzo con l’intervento dell’esercito guidato da Cadorna ma le cause della rivolta (colera, fiscalismo gravoso, misure poliziesche, coscrizione obbligatoria e l’incapacità sabauda) rimasero irrisolte e un anno dopo degli anonimi fissarono a Monte Pellegrino un’enorme bandiera rossa in modo che fosse visibile dalla città e dal mare.

Nel 2021, a 160 anni dall’unità, l’immagine dei protagonisti del Risorgimento si fa sempre più sbiadita, mentre prendono campo tesi revisionistiche molto spesso tendenziose e volte a denigrare l’unificazione Italiana in modo impietoso e con l’obiettivo, non tanto velato, di istigare “separatismi” improbabili. Se da un lato, l’approccio critico è necessario ai fini della comprensione di questioni rilevanti e irrisolte come quella meridionale, dall’altro non si può non concordare con Alessandro Barbero quando sostiene che, per quanto riguarda certo revisionismo (neoborbonico, indipendentista, ecc.), se non sono i fini ad essere immondi lo sono i mezzi ma, come diceva Jean-Paul Sartre, sono i mezzi a qualificare il fine. Il tema del Mezzogiorno d’Italia e del necessario inserimento nella coscienza collettiva delle criticità, le iniquità e gli errori palesi delle politiche post-unitarie della destra storica e le disuguaglianze conseguenti, non può obnubilare la memoria del percorso unitario in cui l’immenso sforzo e il sacrificio del meridione, dove il sentimento nazionale unitario e repubblicano era vivido, diedero un contributo decisivo alla causa garibaldina. La rivendicazione meridionalista può trarre giovamento da una corretta analisi dei fatti storici che rifugge dai sensazionalismi e dagli errori uguali e contrari della retorica storiografica da un lato, e del revisionismo denigratorio dall’altro. D’altronde fu proprio lo storico meridionalista Gaetano Salvemini a sottolineare che “chi confronta le condizioni dei poveri in Italia nel 1860 con quelle del 1900, passa dalla notte, se non ad un meriggio abbagliante, ad una aurora abbastanza promettente. In altre parole il Risorgimento italiano non riuscì utile ai soli ricchi: anche i poveri cominciarono a diventare meno poveri. Esso non fu una rivoluzione tradita: fu un rinnovamento, assai faticoso e penoso, quale era possibile in una patria quale era l’Italia.”[4] Come d’altronde è innegabile che fu proprio nei due decenni del miracolo economico e del modello economico dirigista che lo storico divario Nord-Sud conosce un momento di attenuazione grazie anche al parziale rimedio della Cassa per il mezzogiorno e ai relativi investimenti strategici.

In definitiva, parole d’ordine come solidarietà nazionale ed equità territoriale sono senza dubbio necessarie per dare concretezza e sostanza allo spirito unitario, che negli ultimi 30-40 anni di storia repubblicana, è stato progressivamente indebolito a causa dell’avvento dei regionalismi, delle retoriche secessioniste e della disapplicazione dell’obiettivo costituzionale della perequazione.

Nel 1880 Garibaldi scrisse “tutt’altra Italia io sognavo nella mia vita” riferendosi alla piemontesizzazione che, come ebbe modo di dire in un’altra lettera del 1863 agli elettori napoletani motivando la rassegnazione del mandato, provocò il “vituperio della Sicilia” alla quale il generale era legato per ragioni ideali arrivando a definirla “la mia seconda terra d’adozione […] in essa furono offesi il diritto e l’onore, compromessa la salute di tutta l’Italia”[5]. Pensare un’altra Italia è la vera sfida della politica contemporanea perché solo integrando le ragioni dei “meno ricchi” che si può pensare di rinsaldare l’unità nazionale e d’altronde, il Risorgimento, con i suoi pregi e i suoi limiti, e il suo patrimonio di idee e ideali sommerso, è ancora lì a insegnare a un presente imbevuto di consumismo, teatrocrazia e falsi miti, che la storia può muoversi in senso progressivo o regressivo in ragione dei rapporti di forza che si vengono a instaurare. Sta a noi Italiani del XXI secolo trarre giovamento da questa lezione.


[1] Antonio Gramsci, “La Questione meridionale”, cit., p. 5

[2] Giuseppe Ferrari, “La Federazione repubblicana”, cit., p. 155

[3] Carlo Pisacane, “Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49”, Ed. Avanti!, cit., p. 333

[4] Gaetano Salvemini, “Scritti sul Risorgimento, cit., p. 471

[5] Giuseppe Garibaldi, “Lettere e Proclami”, Edizioni librarie siciliane, cit., p. 249

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Economia Geopolitica

Dominio di Marco D’Eramo

Recensione di Valerio Macagnone, segretario ESC (2020-2021)

“Non sarai tanto ingenuo da credere che viviamo in una democrazia, vero Buddy? È il libero mercato.”

L’esito della rivoluzione neoliberale può essere perfettamente compreso alla luce di questa battuta di Gordon Gekko nel film “Wall street” di Oliver Stone. Un esito che nasce da una storia abilmente narrata con la spinta suggestiva di nuove idee e di parole d’ordine vecchie e nuove, con la capacità strategica di usare a proprio vantaggio le elaborazioni teoriche avversarie, con la capacità di camuffamento verbale e con la forza finanziaria e mediatica di plasmare un immaginario collettivo che, in preda all’amnesia permanente dell’evoluzione storica della democrazie occidentali, non possiede gli strumenti culturali per poter operare i paragoni tra le diverse fasi della storia del pensiero umano e dei poteri costituiti. Marco d’Eramo, nel suo ultimo lavoro, mette in evidenza la forza delle idee, la straordinaria macchina di egemonizzazione del pensiero globale, ovvero la forza necessaria di legittimazione dei poteri statuali che operano nella nostra contemporaneità che se da un lato, intonano le dolci note della liberaldemocrazia nelle sue forme istituzionali e nell’esaltazione dell’individualità dei singoli, dall’altro lavorano incessantemente per forgiare la mente e imbolsire il carico di vita gregaria dell’Homo consumericus di cui il genio acuminato di Frank Zappa tesseva le “lodi”: “Il nostro sistema scolastico cresce ragazzi ignoranti e lo fa con stile: ignorantoni funzionali. Non forniscono loro gli elementi per studiare la logica e non danno alcun criterio per giudicare la differenza tra il bene e il male in qualsiasi prodotto o situazione. Vengono preparati per funzionare come macchine acquirenti senza testa, a favore dei prodotti e dei concetti di un complesso multinazionale che per sopravvivere ha bisogno di un mondo di fessi.”

La storia degli 8248 “think tanks” ovvero degli apparati ideologici che fungono da serbatoi di pensiero e la loro azione combinata coi finanziamenti delle fondazioni (Olin, Bradley, Heritage, Koch, ecc.) che con le loro raccomandazioni hanno influenzato l’azione politica di una ampia fetta della politica conservatrice a stelle e strisce dagli anni ’50 in poi, è la storia di una controrivoluzione che, al campanello d’allarme del comunismo sovietico e della sua poderosa forza d’ispirazione nelle democrazie semi-sovrane dell’Europa post-bellica, ha reagito con studio, pazienza e progressivo infiacchimento delle forze protagoniste dell’avanzamento socialdemocratico. L’impressionante movimento di denaro che ha sconvolto la democrazia statunitense agevolando e sostenendo le teorie neoliberiste negli ambienti accademici e mediatici, è un movimento che interessa e influenza la politica occidentale con il preciso scopo di instillare la statofobia presso gli ambienti culturali di rilievo onde poterne neutralizzare la capacità di influenza progressiva e riconfigurare i poteri pubblici verso nuovi fini (accumulazione di capitale e redistribuzione in senso regressivo). Uno Stato minimo e forte nella misura in cui la sua azione è diretta alla tutela degli interessi dominanti. Naturalmente il “dominio” aveva bisogno delle sue leggi, ma soprattutto aveva bisogno che queste leggi fossero ammantate da un’aura di imparzialità scientifica e di apparente impermeabilità alle ideologie. In definitiva, l’epoca della restaurazione neoliberale doveva apparire post-ideologica e lontana dalle zavorre del “pensiero”: “È quindi un’ideologia che, al pari di tutte le ideologie, si presenta come non-ideologica, a-ideologica, scientifica, a colpi di equazioni e formule matematiche.”[1]È un dominio che applica l’analisi costi-benefici sia ai rapporti economici, sia ai rapporti sociali, e che sperimenta una rivoluzione antropologica in cui la società è vista come un immenso gioco non cooperativo in cui gli individui-agenti razionali hanno come solo scopo la massimizzazione dei profitti.

La rivoluzione (da “revolutio” che indica il moto di ritorno di un pianeta alla sua posizione d’origine) dunque necessitava di nuovi dispositivi culturali e, nello stesso tempo, di un certo rigurgito di anti-democraticismo che rievocasse taluni aspetti retrivi dello Stato liberale, dei suoi schemi concettuali e dei suoi corollari di visione censitaria del vivere sociale, e nello stesso tempo se ne discostasse generando nuovi paradigmi come il target ideale della libera concorrenza e del governo per il mercato. Una rivoluzione invisibile, lontana dalla percezione collettiva che nel frattempo è stata anestetizzata dagli aspetti più teatrali e risibili dei mantra neoliberisti (il “get rich or die tryin’” del self-made man) e che ha introiettato il retroterra culturale di questo dominio alla stessa stregua dell’accettazione di una legge naturale. Dunque, negli States, mentre Christopher Lasch, autore de “La cultura del narcisismo”, organizzava convegni di divulgazione del pensiero di Antonio Gramsci dando un’originale interpretazione del populismo (“Il populismo è la voce autentica della democrazia”), d’altra parte, e con intenti finalisticamente opposti a quelli di Lasch, Michael Joyce, l’attivista conservatore a capo della Olin Foundation, tesaurizzava il pensiero gramsciano sull’egemonia finanziando l’accademico Alan Bloom come testa di ponte del pensiero conservatore/neoliberale all’interno dell’Università di Chicago. Un’operazione che mirava a contrastare e abbattere l’influenza della “New Left” negli ambienti accademici e che apriva la strada alle teorie neoliberiste di Milton Friedman, mentre in Italia, Federico Caffè, “l’ultimo baluardo” del keynesismo Italiano ammoniva il PCI sulle scelte di politica economica operate dal partito nel corso degli anni ’70 che, al tramonto del XX secolo, fecero colare a picco l’obiettivo economico-sociale dei costituenti e quanto fu sostenuto in sede di assemblea costituente dal demolaburista Meuccio Ruini, il quale replicando a Luigi Einaudi e alle ipotesi di “terza via”, disse: “Non pochi vanno affannosamente alla ricerca della terza strada. La troveranno? Non lo so. Questo so: che si avanza la forza storica del lavoro.”[2]

Nel contesto operativo della strategia portata avanti dai “Chicago boys”, le cui consulenze economiche furono particolarmente gradite al Cile di Pinochet, era necessario procedere al reclutamento di esponenti delle forze avversarie che, nell’arena agonistica della socialdemocrazia, portavano avanti le istanze della classe lavoratrice, e indebolire i residui retaggi di keynesismo nei partiti di centro-sinistra, per cui se negli States Jimmy Carter riteneva inopportuno l’intervento pubblico ai fini della risoluzione dei problemi sociali, dall’altro lato, la “Lady di ferro”, Margaret Thatcher, poteva tranquillamente sostenere che il suo più grande successo era il “New Labour” di Tony Blair. In effetti, ciò che accadde alle “sinistre” del mondo occidentale, si può spiegare alla luce dell’applicazione di un antico stratagemma bellico cinese: “Se vuoi fare qualcosa, fa in modo che il tuo avversario lo faccia per te (ovvero uccidere con una spada presa a prestito)”.

Il libro di Marco d’Eramo, dunque, ci spiega che i marines studiano l’ideologia e la sua forza rappresentativa e narrativa, mentre nelle sedi dei partiti riformisti e negli ambienti del ceto artistico-intellettuale del nostro Paese (ma non solo, ovviamente) il solo riferimento al vocabolario di classe, tanto in voga nel ‘900, e al suo tentativo impervio di contestualizzazione alla post-modernità, fa piovere accuse di paleo-socialismo su chi si azzarda a utilizzare le categorie del pensiero marxiano, socialista o cattolico-sociale in senso ampio, perché si sa: alla fine conveniva buttare via l’acqua sporca col bambino. Dunque, serviva un nuovo linguaggio culturale che riflettesse l’aziendalizzazione dei vari rami dell’amministrazione pubblica e che, attraverso anglicismi e neologismi mettesse in evidenza le nuove necessità da parte degli organismi pubblici di essere competitivi e all’altezza della sfida globale, e servivano i toni fatalistici utili a corroborare il sentimento di ineluttabilità dell’unico mondo unito dalle complesse reti di connessione economica. Il campo della politica viene così egemonizzato dalle logiche mercatistiche, tanto che come osservava acutamente Lasch “I partiti politici sono ormai specializzati nel pubblicizzare e vendere i loro uomini perché il pubblico li consumi, e persino la disciplina di partito si è gravemente allentata”[3] e ciò determina nuove modalità operative fondate sulle indagini di mercato atte a registrare, manipolare e banalizzare le opinioni del consumatore-elettore.

Di fronte alla lucida analisi retrospettiva dell’autore di “Dominio”, alla descrizione della trasformazione dei rapporti di forza e alla finanziarizzazione dell’economia che acuiscono la loro accelerazione in tempi pandemici (la “guerra invisibile” di cui parla l’autore), il discorso politico attende con la consueta lentezza una riorganizzazione delle forze popolari private delle loro “élite”, sapientemente reclutate al fine di aumentare la potenza di fuoco dei dominanti, i quali sanno dell’importanza strategica di creare vuoti e spazi invisibili. Invero, sanno dell’importanza delle parole e del silenzio, della guerra visibile e di quella invisibile e sanno cogliere il suggerimento che arriva dalla storia, ovvero sanno perfettamente che, come direbbe il re di Prussia Federico il Grande, “il cittadino non deve accorgersi che il re fa la guerra”. L’invisibilità e la proiezione inconscia degli schemi ideologici neolib sono quindi stati il “cavallo di Troia” delle nuove élite globaliste (“gli americani hanno colonizzato il nostro subconscio” direbbe uno dei protagonisti del film “Nel corso del tempo” di Wim Wenders) che agevolmente hanno potuto introiettare l’idea del credito al consumo, dei mutui trentennali e dell’uomo in quanto capitale umano che rivendica a sé il titolo di proprietà.

Un lavoro certosino di ripescaggio delle idee, che correttamente l’autore definisce “armi”, citando William Simon, non può restare indifferente alla capacità dei dominanti di creare una strategia “leninista” a sostegno dei loro interessi di classe, perché è solo in questo modo che ci si avvede della funzione della cultura in chiave contro-egemonica e della sua capacità di elaborare nuove frontiere di competizione politica e un nuovo immaginario simbolico a connotazione marcatamente popolare. D’altronde se è possibile scegliere diversamente dal dominio della libertà, allora è possibile essere eretici (dal greco “haìresis” che significa scelta) fino ad allora, per citare il Signor G, “ognuno suona come vuole e tutti suonano come vuole la libertà”[4].


[1] Marco D’Eramo, “Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi”, cit., p. 57

[2] Meuccio Ruini, Discussione generale del progetto di Costituzione della Repubblica Italiana, 12 Marzo 1947

[3] Christopher Lasch, “L’io minimo, Politica come consumo”, cit., p. 32

[4] Giorgio Gaber, “L’America” dall’album “E pensare che c’era il pensiero”

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Costituzione Economia

Draghi, il PUL e la democrazia che non ci possiamo permettere

Articolo scritto da Pietro Salemi, vice-presidente di ESC

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con Mario Draghi, Presidente della Banca Centrale Europea

Chi avesse perso gli ultimi giorni di politica, potrebbe stupirsi. Chi ne ha seguito, con occhio vigile e critico, gli ultimi 30 anni, prova molta amarezza e poco stupore. E’ bene, comunque ricapitolare le ultime convulsioni della Repubblica.

Conte ha definitivamente lasciato Chigi e ha tenuto una conferenza stampa su un tavolino in mezzo alla strada.

La Lega di Salvini offre il sostegno a Draghi, dichiarando che sull’Unione Europea e sull’Euro aveva scherzato.

I 5Stelle, come sempre, sono passati dal No, al ni, al Sí a Draghi e si accodano, perciò, non solo a Renzi, ma anche a Berlusconi, Salvini, Zingaretti, Bonino e Calenda ed altri centristi vari. Nel frattempo, si mette in scena un voto della base tramite la piattaforma Rousseau. Una consultazione a babbo morto, posto che l’ex-Goldman Sachs ha già ricevuto l’endorsment dall’intero gotha del MoVimento (ex-)populista.

LeU ci pensa: in realtà Speranza e Bersani scalpitano per entrare, mentre a Fratoianni non è piaciuto com’è iniziata la cosa e gli viene forte andare al governo con Salvini (mentre con Forza Italia, alla fine, non c’è problema).

Unica cosa davvero sconcertante: quasi tutte queste forze chiedono un governo politico (sic!), forse non capendo che la formula del governo “tecnico” serviva proprio da foglia di Fico per i casi, come questo, di commissariamento della politica.

Dicevo, “quasi”, perché in tutto quell’agglomerato che va da Forza Italia al PD, va bene davvero tutto purché si faccia il governo di San Mario Draghi da Goldman Sachs.

Non manca più nessuno, neanche i liocorni. Anzi no, manca Giorgia Meloni che nel frattempo nega l’appoggio a Draghi e si mette comoda in poltrona a mangiare i famosi “pop corn” di renziana memoria, offrendo eventualmente un’astensione benevola.

Dal punto di vista del profilo politico del Governo Draghi, si deve solo constatare che sarà semplicemente (e a gran richiesta) il governo dei mercati, presieduto da un banchiere, con un prestigioso curriculum nelle alte sfere della finanza mondiale. Per ciò stesso sarà un governo estremamente politico, anche al netto di qualsiasi distribuzione di dicasteri: si dovrà scegliere se confermare o abolire il reddito di cittadinanza, quota 100, il turn over nella P. A., la cassa integrazione covid, il divieto di licenziamento, le restrizioni alla libertà di circolazione e alle aperture delle attività commerciali, i ristori alla aziende colpite dalla pandemia e via di seguito. Al netto di ciò, dovranno anche effettuarsi scelte strategiche in merito al Recovery plan: non tanto e non solo nell’allocazione dei fondi del Recovery, quanto più nelle scelte più dolorose che dovranno compiersi per ottenere quei fondi, sia in termini di maggiore contribuzione dell’Italia al bilancio UE, sia in termini di riforme richieste dalla Commissione per l’erogazione delle tranche.

Non deve stupire che su tali questioni politiche dirimenti possano trovarsi convergenze tra tutte queste forze così apparentemente eterogenee. Infatti, eccettuati i temi etici e i diritti civili, su cui ancora esiste una certa contrapposizione (almeno di facciata e sempre a favore di telecamera) lungo l’ormai obsolescente crinale destra/sinistra, l’affinità delle ricette economiche e sociali è pressoché totale. Siamo di fronte a correnti di un medesimo partito (il Partito Unico Liberal-Liberista) che ben possono trovare la quadra attorno ad un leader carismatico come SuperMario Draghi, domatore di mercati.

Pur senza avere poteri di preveggenza, non è difficile immaginare il core dell’agenda di Draghi: accanto alle solite riforme richieste dalla UE (P. A., giustizia civile e fisco), si procederà allo sblocco dei licenziamenti e alla fine della cassa integrazione covid e della politica dei ristori alle imprese e, infine, alla rimozione delle misure simbolo della breve stagione populista del Governo Conte I (reddito di cittadinanza e quota 100). Se resterà tempo a sufficienza, Draghi procederà anche in prima persona a quello che viene visto come un efficientamento e snellimento della macchina pubblica, attraverso l’ulteriore privatizzazione dei servizi e del patrimonio pubblico. Più in generale, sotto il profilo politico e internazionale, il Governo Draghi è la plastica rappresentazione dell’abdicazione della classe politica italiana al “vincolo esterno”, in chiave atlantista ed europeista.

Proprio per la sua capacità di rappresentare meglio di chiunque altro i vincoli euroatlantici in Italia, Draghi ha già raccolto il placet dello spread, di Confindustria e della finanza tutta, mentre i giornalisti (dalla carta stampata alla TV), in totale sollucchero, si lanciano ormai in operazioni agiografiche e di culto della personalità talmente spericolate, da far apparire Chuck Norris come uno di noi.

Come tutti i più recenti epifenomeni covid, anche il PUL c’era già, solo che ora è più evidente.

Quest’orgia neoliberista attorno alla figura di chiaro profilo tecnocratico di Draghi ha, comunque, il merito di consegnarci un momento verità: è, infatti, proprio nei momenti di crisi più profonda che i vari attori politici rivelano la propria anima più profonda e la composizione di classe che rappresentano. In quest’ultimo senso, si può solamente registrare che il démos, il “fronte popolare”, quello dei lavoratori, di chi vive del proprio lavoro, non è della partita.

Non è purtroppo un’assenza casuale. L’aspetto, forse più preoccupante, è infatti la retorica anti-popolare e, in ultima istanza, anti-democratica che si registra in questi giorni. Da un lato, politica e media mainstream acclamano la nascita di un “governo dei migliori”, in greco aristocrazia; dall’altro, la narrazione dominante è permeata dalla perniciosa idea secondo la quale i fini pubblici sono pre-determinati rispetto al fluire di una politica che è chiamata alla semplice applicazione, tecnica appunto. Tali fini verrebbero così a essere liberamente determinati impersonalmente dai mercati ed esplicitati per bocca della istituzione UE (il cd. “Bruxelles consensus”), di guisa che non resterebbe che avere governanti abbastanza “competenti” da fare bene i compiti per casa.

Le stesse elezioni si rivelano, in quest’ottica, un ingombrante impaccio cui, talvolta, è necessario porre rimedio per vie traverse per evitare che mantenere la superstizione della democrazia diventi troppo costoso. Lo stesso svolgersi della democrazia rappresentativa, nelle sue forme elettorali e parlamentari, è oggetto del trascendente “giudizio dei mercati”, cui è necessario conformarsi, di dritto o di rovescio. Così, vuoi per non perdere la fiducia degli investitori, vuoi per lo spread, vuoi per rafforzare la lealtà alla UE, vuoi per la pandemia, il ritorno al voto e all’espressione della volontà popolare viene vista, nel discorso pubblico, come qualcosa da rifuggire come la peste.

Abbiamo toccato quello che è certamente un punto di minimo storico nell’intensità della democrazia-costituzionale italiana. Pur nel rispetto delle forme, si sono create smagliature sempre più ampie tanto a livello di rispetto della cd. Democrazia formale, quanto di quella sostanziale. Sotto il primo profilo, si pensi alla prassi dell’abuso delle decretazione d’urgenza, alla perdita di centralità del parlamento (di recente menomato persino nella sua composizione numerica), al fenomeno del trasformismo, al ricorso sempre più strutturale a governi tecnici e del Presidente, ad una fisarmonica dei poteri del Presidente della Repubblica ormai parecchio dilatata. Sotto l’aspetto sostanziale, basti tener presente che i diritti fondamentali (e segnatamente quelli sociali), nei quali la democrazia trova la sua linfa vitale, sono ad oggi validi solo a “bilancio invariato” ed entro i limiti del vincolo esterno.

L’avvento messianico di Mario Draghi al governo lascia presagire che lo sforzo di deformazione della democrazia che le élite del Paese stanno producendo da anni rischia di essere ormai anelastico: sembra proprio che la democrazia non ce la possiamo più permettere. Tutto ciò è ovviamente avvenuto anche e soprattutto per la compiacenza delle forze politiche che pretenderebbero di rappresentare gli interessi delle fasce più deboli della popolazione. Avendo perduto financo la capacità di leggere la conflittualità degli interessi in gioco, a queste forze non resta che unirsi al coro: “Draghi o muerte!”.

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Economia

Biden lancia “Buy American”

Articolo di Giuseppe Matranga, socio fondatore ESC

In tutto il Paese troppe aziende stanno per chiudere i battenti a causa della crisi che dobbiamo affrontare. Hanno bisogno di un aiuto urgente. Ecco perchè oggi agirò per sostenere loro e i loro lavoratori”, ha cinguettato su Twitter il presidente Usa.

Foto tratta da Affaritaliani.it

A quanto sembra, anche il lato più arcobaleno della politica d’oltreoceano, quella cosiddetta antisovranista e noborder, si è accorta che favorire il mercato dei prodotti interni non è poi così male. Qualcuno provi a spiegarlo alla nostra geniale quanto progressista classe politica che, anche in ottemperanza alle regole altrettanto vantaggiose di matrice europea, investe i fondi pubblici in forniture di beni stranieri o in infrastrutture costruite con beni e macchine straniere. Certo una qualche differenza ci sarà. Nel caso americano, quello perseguito da Biden, e in perfetta continuità con l’atteggiamento del suo predecessore Trump, la spesa pubblica viene immessa nel territorio nazionale fornendo sí beni e servizi a vantaggio della collettività, ma anche la parte finanziaria, ovvero il denaro, rimane dentro il territorio nazionale, favorendo la creazione di ricchezza, l’aumento dei salari e di lavoro nei territori di spesa e arricchendo, così, più volte l’intera economia nazionale attraverso quello che viene chiamato “moltiplicatore”. Nel caso nostrano, ahi noi, la spesa pubblica troppo spesso viene direzionata verso beni e servizi di importazione, conseguentemente la collettività ottiene si dei benefici, ma la componente finanziaria va a disperdersi immediatamente fuori dai nostri confini nazionali, senza generare ricchezza e senza moltiplicarsi. Beh ci sarà da chiedersi come mai ad esempio la “Police” americana utilizza solo automobili Ford e Dodge, mentre noi, obbligati dalle generose norme europee, vediamo le nostre forze dell’ordine a bordo di Seat, BMW, Toyota, etc. e non più Fiat, Alfa Romeo, come accadeva una volta.

Autarchia? No, semplice buon senso e volontà di aiutare i lavoratori.

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Costituzione Economia

Stato, comunità e democrazia (consumatori o cittadini?)

Articolo di Valerio Macagnone, segretario ESC (2020-2021)

Nello scenario odierno ricorre con una certa metodicità l’appello progressista a nuovi processi di identificazione individuale e collettiva che mettano da parte parole come “Stato” e “comunità” viste come un retaggio di un passato anacronistico destinato a non vedere nuova luce. Si costruiscono e distruggono comunità virtuali a ritmi incessanti, si promuovono nuove identità al fine di rassicurare l’individuo e inserirlo in gruppi dove esiste un ancoraggio precario. Tuttavia, come sosteneva il sociologo Zygmunt Bauman “la fiducia è stata bandita dal luogo ove ha dimorato per la maggior parte della storia moderna. Ora vaga qua e là alla ricerca di nuovi approdi, ma nessuna delle alternative a disposizione è riuscita fino a questo momento a eguagliare la solidità e l’apparente naturalezza dello Stato-nazione”.[1]

A fronte di questa evidenza le forze progressiste in Italia e, in senso lato, nel “mondo occidentalizzato”, non riescono a offrire una soluzione allo scontro con le forze globali e stentano a riconoscere il patriottismo costituzionale come un’opzione realistica. Si esercitano forze di resistenza contro le rivendicazioni di sovranità con etichette calunniose e si ostenta snobismo per l’istintiva ricerca di comunità associandola a primitivismi intellettuali. Tuttavia, fin quando la sinistra liberale e antagonista continuerà ad utilizzare le categorie di resistenza (riferite esclusivamente ai rigurgiti neofascisti e non alla globalizzazione) per analizzare la realtà contingente nel continente europeo, andrà incontro a pesanti ridimensionamenti del proprio consenso elettorale, fornendo un assist, più o meno coscientemente, alle destre più reazionarie ed estreme, che, se da un lato parlano, ingannevolmente, di “sovranismo” dall’altro fanno l’occhiolino alle élite dominanti per la conservazione delle attuali relazioni di potere.

Fin quando non si capirà, dunque, che la dimensione privilegiata per le lotte sociali (redistribuzione della ricchezza, previdenza, assistenza e sanità pubbliche, nazionalizzazione delle fonti produttive) è rappresentata dalle istituzioni statali e quindi dallo Stato inteso come luogo in cui si cristallizza una tensione pluralistica e conflittuale e allo stesso tempo produttiva di un ordinamento in cui “libertà” e “uguaglianza” non si sopprimono reciprocamente, e fin quando non si capirà che difendere la “democrazia”, non significa semplicemente difenderne gli aspetti formali (elezioni, multipartitismo, ecc.) ma anche e soprattutto gli aspetti sostanziali (uguaglianza e sovranità popolare), si cadrà vittime di una rappresentazione strumentale e tendenziosa, che tende a svilire tutti i fenomeni politici dal “basso” che rivendicano un ruolo attivo dello Stato nei processi economici (finanza funzionale).

D’altra parte è proprio la Costituzione italiana del ‘48 a contemplare l’attuazione del principio di uguaglianza sostanziale (art. 3 comma 2) che richiede espressamente che lo Stato assolva un compito di indirizzo, coordinamento e programmazione al fine di realizzare un ordinamento orientato ai principi di utilità e benessere sociale, al contrario di quanto avviene nell’ordinamento ordoliberale dove lo Stato assolve una funzione di regolazione della concorrenza. È evidente, pertanto, che si tratta di due concezioni della sovranità che definiscono diverse funzioni dello Stato e che rispondono a due filosofie di organizzazione dei rapporti sociali ed economici in conflitto tra di loro: da una parte l’esercizio della sovranità popolare indirizzato al “Welfare”, dall’altra il modello ordoliberale europeista che tende a disciplinare lo Stato dissolvendone le funzioni sociali e a ridurlo all’incarico di intermediario coloniale e di terzo regolatore.

Non può eludersi quindi che la difesa della democrazia, non passa dal moralismo contabile o dal semplice formalismo dei meccanismi elettorali, ma tenendo conto dell’integrazione degli interessi popolari nell’arena delle contese elettorali. Fu proprio il filosofo del diritto Norberto Bobbio in una delle sue opere (“Il futuro della democrazia”) a mettere in evidenza l’obiettivo del neoliberalismo: dapprima la sconfitta del socialismo nella sua versione collettivistica, in seguito la sconfitta della socialdemocrazia keynesiana e in definitiva la sconfitta della democrazia tout court, il tutto con un’offensiva portata avanti con l’astuta arma retorica degli sprechi, della burocratizzazione, della corruzione e delle inefficienze. Un processo, quello dell’offensiva diffamatoria, che ricorda l’atteggiamento semplicistico con cui viene affrontata la questione meridionale in Italia, benché i dati offerti dai Conti pubblici territoriali ci rappresentano una realtà lontana dalla pretesa uniformità di trattamento in tema di investimenti pubblici, e che allontana dalla comprensione del fenomeno della “meridionalizzazione” dell’Italia nel contesto dell’Unione europea.

L’attacco allo Stato-benessere con la sua cornice giuridica di protezione sociale e di repressione delle rendite finanziarie, è in definitiva un attacco alla democrazia partecipativa, perché spoglia i cittadini delle rivendicazioni più radicali, fornendogli nello stesso tempo, l’anestetico sociale della libertà dei consumi e un habitus psicologico conservatore. Lo Stato sociale così si trasforma in una repubblica impoverita e depauperata dei suoi strumenti di intervento atti a garantire la democratizzazione degli interventi pubblici, e la democrazia rappresentativa si trasforma in una democrazia elettorale dove l’apatia politica non solo non è scoraggiata, ma è pienamente tollerata se non promossa. Eppure, se si osserva la storia d’Italia, nel contesto dello Stato liberale dell’ottocento le battaglie dei democratici e dei radicali, erano mirate alla realizzazione della democrazia all’interno della cornice statale con l’estensione del suffragio (“il suffragio universale è alla base della giustizia sociale” scrisse Garibaldi al repubblicano Giovanni Bovio[2]), le battaglie dei socialisti e comunisti nel dopoguerra, prendevano in considerazione paritaria la questione nazionale e la questione sociale rimarcando la necessità dell’indipendenza economica da monopoli e oligopoli. Tutte queste battaglie per la giustizia sociale muovevano da premesse strutturali opposte a quelle odierne: Sovranità popolare, socialismo e comunità (quindi partecipazione), d’altra parte l’attuale sistema ordoliberale europeo o neoliberale in senso ampio, costruisce i sistemi normativi a partire dalle seguenti premesse strutturali: individualismo, consumismo e filosofia della competizione. Ogni riferimento alla sovranità nazionale e popolare è stigmatizzato in nome di una non meglio precisata sovranità europea o globale in cui dovrebbero introdursi le istituzioni “europee o globali” di controllo democratico. L’unico esercizio di sovranità consentito è quello del consumatore, un attore svincolato da ingerenze nazionali il cui unico principio guida è la ricerca del “comfort” temporaneo.

D’altra parte, torna di rilievo il tema della comunità che, secondo il sociologo Ferdinand Tonnies, implica un rapporto di vicinanza dal punto di vista linguistico, sentimentale, storico e delle consuetudini che palesa come la struttura comunitaria, a differenza di quella societaria fondata sullo scambio di utilità, possa esistere solo nella misura in cui esistano questi vincoli di appartenenza e di partecipazione spontanea. Pertanto, alla domanda “esiste una comunità europea?” si può efficacemente rispondere che risulta difficile credere a un rapporto comunitario se è proprio il TUE all’articolo 3 a ricordarci che l’Unione instaura un mercato interno fondato sulla forte competitività. Uno stato di competizione costante che di fatto fa cadere in oblio il principio di comunità. È interessante quanto ci fa notare l’antropologo Marco Aime in tema: “Quando i governi si riferiscono all’UE come a una comunità, lo fanno in modo retorico, proiettando su un’alleanza politico-economica tratti e valori auspicati, tipici della comunità tradizionale. Quando gli abitanti di Lampedusa o di Canazei parlano della loro comunità, invece, si riferiscono a una realtà di fatto”[3].

Ebbene, al di là della ricostruzione fiabesca di un villaggio globale in cui, in virtù del semplice principio dell’interdipendenza economica (trascurando il fatto che il diritto internazionale è governato dai rapporti di forza) si verrebbe a instaurare la provvidenziale armonia universale, in nome di un sovranazionalismo democratico (trascurando il fatto le organizzazioni internazionali di carattere economico funzionano con una governance tipica delle società di capitali), resta un piano di analisi che mette in luce che una comunità esiste là dove è presente uno Stato nel cui ordinamento si segue una precisa idea di bene comune e di economia al servizio del bene comune. Non è un caso che la nostra Costituzione prefiguri un modello di Stato-comunità in contrapposizione allo Stato-apparato: un modello in cui il popolo è reso partecipe delle decisioni sovrane della politica attraverso le istituzioni rappresentative e i corpi intermedi, e in cui il popolo è votato al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 Cost.). Non è un caso che le limitazioni di sovranità di cui parla l’art. 11 della Costituzione siano preordinate esclusivamente (e in condizioni di parità con gli altri Stati) alla costituzione di organismi che tutelino la pace e non la “concorrenza”. Tutto ciò ci suggerisce che lo scontro tra Stato-comunità e organismi internazionali, non può essere banalizzato entro le categorie dialettiche post-moderne, ma deve essere posto sotto i riflettori di un’attenzione pubblica che metta in rilievo il conflitto tra una costruzione sociale che riconosce contemporaneamente l’iniziativa personale e un principio di comunità, e un ordinamento che tutela la concorrenza in funzione del “benessere del consumatore” e operare di conseguenza una scelta: una scelta che divide coloro che esistono solo come consumatori e coloro che, rievocando una meditazione di Marco Aurelio, decidono di essere cittadini dell’universale città umana.


[1] Zygmunt Bauman, “Intervista sull’identità”, cit., p. 51

[2] Giuseppe Garibaldi, “Lettere e proclami”, Edizioni librarie siciliane, cit., p. 159

[3] Marco Aime, “Comunità”, cit., p. 8

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Storia

Ruggero Settimo: L’ammiraglio rivoluzionario

Editoriale storico scritto da Valerio Macagnone, segretario ESC (2020-2021)

Il 12 Gennaio 1848, Palermo dava avvio alla Primavera dei popoli e ai moti di ribellione contro gli assolutismi dell’epoca, introducendo nella storia i semi della democrazia fondata sulla sovranità popolare e il costituzionalismo fondato sulla centralità del Parlamento. In occasione di questa ricorrenza, vogliamo ricordare uno dei personaggi più emblematici del ’48 siciliano: Ruggero Settimo.

“Siciliani, voi siete grandi! Voi avete, in pochi giorni, fatto molto di più per l’Italia, nostra patria comune, che non tutti noi con due anni di agitazione, di concitamento generoso nel fine, ma incerto e diplomatizzante nei modi.”

Fu con queste parole che Giuseppe Mazzini, in un proclama da Londra, elogiò la rivoluzione siciliana del 1848. Tra i protagonisti dei moti che portarono all’indipendenza dal Regno borbonico e all’ondata della Primavera dei popoli occupa un posto di primo rilievo l’ammiraglio Ruggero Settimo. Dopo la carriera nella marina borbonica durante la quale combatté a fianco degli inglesi ottenendo importanti vittorie contro la flotta napoleonica fino alla conquista di Malta, il palermitano Ruggero Settimo diverrà uno degli esponenti di spicco delle rivoluzioni liberali contro l’assolutismo dei borbone: prima nel 1820-21, quando fu componente del governo provvisorio che dichiarò l’indipendenza da Napoli, poi nel 1848 quando, dopo la vittoria conseguita dall’insurrezione popolare, guidata da Rosolino Pilo e Giuseppe La Masa, fu posto a capo del governo del Regno di Sicilia. Il nuovo regno aveva come bandiera il tricolore italiano con la trinacria (simbolo di libertà dall’epoca pre-romana) nella banda bianca, e si poneva come obiettivo l’unione confederale degli Stati Italiani. È infatti Ruggero Settimo a dichiarare in un proclama: “[…] questa Sicilia che tende all’Italia ansiosamente le braccia, che fa parte dell’Italiana famiglia, e combatterà per essa, e con essa, conservando quella dignità con la quale i popoli si uniscono in federazione fra loro, serbando illesa la propria essenza, le proprie istituzioni.” Il 25 marzo 1848, con l’atto di inaugurazione del Parlamento, venne proclamata l’indipendenza e in seguito Ruggero Settimo venne nominato all’unanimità Presidente del Consiglio dall’Assemblea. Il 10 Luglio fu nominato Tenente Generale dell’esercito Nazionale Siciliano e il Parlamento siciliano promulgò un nuovo Statuto che introdusse principi democratici e liberali consacrando il principio della sovranità popolare all’articolo 3 (“La sovranità risiede nella universalità dei cittadini siciliani”). Una Costituzione, pertanto, che introduceva un modello ultrademocratico per l’epoca, che presentava contenuti più liberali dello stesso Statuto Albertino e tendente all’estensione del suffragio. Dopo i sedici mesi di governo rivoluzionario e la restaurazione borbonica, Ruggero Settimo riparò a Malta da dove rientrerà nell’Ottobre del 1860 dopo aver ricevuto un invito da Giuseppe Garibaldi: «[…] una voce malinconica s’innalza dalle moltitudini: “Non compare Ruggero Settimo!” il padre del popolo siciliano, il veterano dell’indipendenza patria […] Oh, venite uomo della Sicilia a completare il giubilo del vostro popolo». Dopo il rientro in patria e l’annessione al Regno d’Italia Ruggero Settimo fu nominato senatore e in seguito Presidente del Senato, carica che continuò a ricoprire fino alla morte avvenuta il 2 Maggio 1863.

Ruggero Settimo: l’ammiraglio rivoluzionario. [Palermo, Piazza Castelnuovo]

“Quali sono i nomi più solenni fra i nostri guerrieri? Lo saprà la Sicilia, lo saprà il mondo intero fra poco; per ora si consenta da ognuno il silenzio, la parola non potrebbe essere adeguata al merito, d’altronde tutti combattono non per la gloria soltanto, ma per un senso più nobile e dignitoso, per l’amore della patria, che sa ricompensare il sangue sparso, il sudore, le lacrime, rivolgendo il suo tacito e riconoscente linguaggio alla coscienza de’ prodi.”

[Ruggero Settimo, 26 Gennaio 1848]

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Economia

Negazionismo economico

Articolo scritto da Pietro Salemi, Vice Presidente di ESC

Negazionismo economico. Il 2021 inizia con due notizie: una bella e una brutta. Cominciando da quella buona, la narrazione neoliberista è culturalmente in crisi, il mito del deficit si sta sgretolando e l’intervento dello Stato nell’economia non è più un tabù. La brutta notizia è che l’appartenenza all’Unione Europea ci costringe ad un negazionismo economico, non meno pericoloso di quello sanitario.
Ora, persino l’OCSE riesce a mostrare quanto i trattati dell’Unione Europea siano insensati e inadeguati alle grandi sfide del presente.
Laurence Boone, capo economista dell’OCSE, nella sua ultima intervista al Financial Times, suggerisce che in futuro non sarà più giustificabile politicamente il concetto di scarsità di moneta: “le banche centrali e i governi di tutti i paesi avanzati hanno messo in campo livelli senza precedenti di stimoli economici con l’obiettivo di alleggerire il pesante impatto economico che il Covid-19 ha sull’economia. […] Dopo la crisi le persone chiederanno da dove sono arrivati tutti questi soldi, i governi faranno fatica a rispondere a questa domanda e a giustificare un loro disimpegno economico su le tante altre crisi che affliggono la nostra società come ad esempio, i cambiamenti climatici e i costi sociali per le fasce lasciate indietro dalla crisi del covid-19. […] Il problema nel 2008/2009 non è stato il poco stimolo iniziale ma l’aver fatto politiche di austerità nei successivi anni post crisi”.

Il Governo italiano, invece, nella Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza -presentata pubblicamente dal Premier Giuseppe Conte, dal Ministro Gualtieri e deliberata dal Consiglio dei Ministri il 5 Ottobre, scrive: “Nel biennio successivo l’intonazione espansiva della politica di bilancio si attenuerà gradualmente fino a raggiungere un avanzo primario di 0,1 punti percentuali e un indebitamento netto in rapporto al PIL del tre per cento. Nel 2022 verrà quindi recuperato il livello del PIL registrato nell’anno precedente la pandemia. Nell’arco del prossimo triennio il rapporto debito pubblico/PIL sarà collocato su un sentiero significativamente e credibilmente discendente.”

Ciò significa che nell’arco del prossimo triennio torneremo a far registrare forti avanzi primari. detto più chiaramente lo stato tasserà più di quello che restituisce in servizi e trasferimenti ai cittadini, come ormai avviene ogni anno degli ultimi 30, salvo il 2020 della pandemia globale.
Cosa vuol dire? Nell’arco del prossimo triennio, il moltiplicarsi di povertà, disoccupazione, criminalità, chiusura di moltissime piccole e imprese, decadimento dei servizi pubblici essenziali. Al sud sarà il solito bivio: briganti o emigranti.

Perchè il Governo lascia accadere ciò?
E’ la gabbia austeritaria dell’Unione Europea, proprio così come disegnata dai trattati: parametri di Maastricht, pareggio di bilancio, MES ecc. Tutto ciò è, ovviamente, accompagnato dall’acquiescenza di una classe politica servile agli interessi transfrontalieri della finanza e ostile al lavoro e ai diritti sociali fondamentali.
La pandemia ha cambiato molte cose, ma i trattati restano (beffardamente) gli stessi di sempre, nonostante il panorama politico sia da anni affollato da sedicenti “altreuropeisti”.

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Costituzione Storia

22 Dicembre 1947: l’approvazione della Costituzione

Articolo scritto da Valerio Macagnone, segretario ESC (2020-2021)

Il 22 Dicembre 1947 veniva approvata la Costituzione della repubblica italiana e si apriva così il trentennio glorioso, i trent’anni della ricostruzione di un Paese che aveva preso una decisione netta e inequivocabile rispetto al passato: serviva un taglio netto rispetto alle tendenze totalitarie ma soprattutto serviva un’”economia nuova”, come disse il comunista e costituente Renzo Laconi, in cui, a dispetto della concezione negativa dello Stato nel corso dell’età liberale, si assegnasse un ruolo attivo nello Stato nella riduzione delle disuguaglianze e nella difesa dell’individuo come centro di rapporti sociali.

Il primato assegnato alla dignità dell’individuo e alla centralità del lavoro, dunque, si accompagnano a una concezione dello Stato diversa sia dal Fascismo, in cui il fine dell’uomo è riassunto nell’espressione “Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”, una concezione finalistica che implica un’organizzazione totalitaria della vita collettiva in cui in cui la libertà e i fini della persona umana derivano dallo Stato stesso, e sia dal Liberalismo dove la contrapposizione tra Stato e individuo porta una delimitazione delle funzioni statali in modo da annularne le finalità sociali e redistributive (Stato minimo).

La continuità ideologica del momento resistenziale con la nascita della Costituzione si evince soprattutto da questo: la volontà di superamento tanto del modello di collettività elitario prefascista previsto dallo Statuto Albertino, quanto del modello totalitario.

Oggi ricorre un momento di memoria necessario: la rievocazione di un modello, quello costituzionale, dove il sodalizio tra le posizioni cattoliche-dossettiane e le posizioni social-comuniste, aveva realizzato una idea di Stato sociale che, sebbene non enunciato formalmente dalle norme costituzionali, emergeva sostanzialmente dalle norme che disciplinano i rapporti economici e dalle sedute dell’assemblea costituente. In tale contesto fu proprio Giuseppe Dossetti a dettare la linea di questa nuova forma di Stato quando affermava “la precedenza sostanziale della persona umana (intesa nella completezza dei suoi valori e dei suoi bisogni non solo materiali ma anche spirituali) rispetto allo Stato e la destinazione di questo al servizio di quella”.

Rivendicare la portata progressiva e democratica della Costituzione significa soprattutto questo: trascendere gli aspetti formali della democrazia e risaltarne gli aspetti sostanziali di conquista sociale in termini di difesa del lavoro e delle rivendicazioni delle classi popolari.

Esiste un’eredità culturale che ha donato benessere, libertà e pace. Un patrimonio di valore universale che aspetta soltanto di essere colto e portato a nuova vita.

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Economia

37 miliardi di tagli alla sanità: non siamo stati noi

Articolo scritto il 22 novembre 2020, da Vincenzo Randazzo e Andrea Casabona, soci fondatori ESC

“Tutti dobbiamo fare dei sacrifici”, “Siamo in emergenza sanitaria”. Questi sono solo due esempi delle frasi che il popolo italiano si sente ripetere quotidianamente a reti unificate da mesi. Sì, un nuovo virus è entrato nelle nostre vite e ci ha colti impreparati. Anche se, evidentemente, la colpa non è nostra. Non siamo stati noi italiani a tagliare 37 miliardi di euro alla sanità pubblica negli ultimi 10 anni in nome del “Ce lo chiede l’Europa” e “Ce lo impone lo spread”.

I tagli alla sanità operati dai governi in carica dal 2012 al 2019.

Non siamo stati noi a dire, il 27 gennaio 2020, in un’intervista, che eravamo pronti all’eventuale arrivo del Coronavirus in Italia.

Non siamo stati noi, dopo la “prima ondata”, quando la situazione era più gestibile e non si registravano affollamenti negli ospedali (5 mesi di tempo), a stare con le mani in mano ed elargire bonus monopattino e bonus vacanza, invece di attuare un serio piano di potenziamento della sanità pubblica, dalla rete ospedaliera, assumendo nuovo personale sanitario e ampliando i posti letto nelle terapie intensive e nei reparti ordinari, ai servizi di medicina territoriale.

A quanto pare, però, siamo stati noi. A detta del Governo e dei suoi lacchè, la colpa del nuovo aumento dei casi è solamente ascrivibile all’irresponsabilità dei cittadini, quegli stessi cittadini che, dopo quasi tre mesi di reclusione forzata in casa, naturalmente avevano voglia di tornare a vivere, di tornare alle millenarie abitudini umane, quelle per cui ci è stata affibbiata la definizione di “animali sociali”.

Quello stesso governo che, proprio lunedì scorso, ha reso disponibile un altro bonus: quello per l’acquisto di nuovi pc.

Tutto ciò farebbe ridere se non facesse piangere.

Tuttavia non basta. Continuano le minacce di una nuova chiusura totale del Paese, giusto per dare il colpo di grazia al tessuto socio-economico italiano, e la caccia agli “untori”, ai “colpevoli” di voler essere umani.

È evidente che la colpa non è nostra, almeno non questa. L’unica colpa, probabilmente, è aver permesso a certi individui di andare al governo e prendere decisioni di tale importanza per il Paese.

Una cosa, però, la vogliamo dire.

Non siete Stato voi, che chiudete in casa i vostri concittadini innocenti a causa della vostra incompetenza.

Non siete Stato voi, che permettete che i vostri figli si tolgano la vita perché non siete in grado di garantire loro il giusto sostegno.

Non siete Stato voi, che cancellate tutte le libertà raccontando di voler tutelare il diritto alla salute, di cui, negli ultimi anni, quando chiudevate reparti o interi ospedali su tutto il territorio nazionale e annunciavate che si poteva tagliare ancora in nome della “spending review”, non vi è mai importato nulla.

A ciò si aggiunga poi il fatto che, mai come in questo periodo, in cui l’emergenza sanitaria sta aggravando ulteriormente la situazione economica del Paese, l’Unione Europea ha mostrato la sua natura matrigna. A parte l’elemosina (si fa per dire, sono sempre prestiti) del SURE, la più volte offerta mela avvelenata del MES e il tanto paventato Recovery Fund, che non si sa se e quando arriverà, nient’altro. Su gentile concessione, ci è stato permesso di sforare il vincolo del 3% del rapporto deficit/PIL, aumentando così il nostro debito pubblico ulteriormente.

Un incremento di debito che la BCE, finalmente facendo davvero la banca centrale, sta monetizzando procedendo all’acquisto dei nostri titoli di Stato. Purtroppo, però, questo non accadrà per molto e, come abbiamo visto in passato, alla fine dell’emergenza torneranno a chiederci di tagliare, tagliare e tagliare e a dirci che il debito non può essere monetizzato.

Le ultime dichiarazioni del 19 novembre di Christine Lagarde (“La BCE non può finire in bancarotta né rimanere senza denaro. In qualità di unico emittente di euro, l’Eurosistema sarà sempre in grado di generare liquidità supplementare”) non lasciano più spazio a dubbi sul fatto che questa sia solo una scelta politica, figlia dell’ideologia neoliberista alla base dell’Unione Europea.

Un Governo che non fosse diretta espressione di questa ideologia e che avesse veramente a cuore l’interesse nazionale e la tutela della salute pubblica, dovrebbe immediatamente rompere i vincoli della gabbia europea, destinando ingenti risorse alla sanità e ai settori colpiti dai provvedimenti restrittivi. Solo così il Paese potrebbe tornare a respirare. Solo così si rispetterebbero davvero i diritti sanciti dalla Costituzione. Solo così si ridarebbe dignità e sovranità a un popolo, ormai stanco di essere additato come colpevole e di rinunciare alle proprie libertà.

Ci dispiace constatare, però, che probabilmente nulla o quasi di quanto proposto sarà fatto. Hanno scelto di stare dalla parte sbagliata della storia.

Noi continueremo a stare dalla parte giusta.

Per la nostra dignità di popolo.

Per la sovranità, che solo al popolo appartiene.

Per la Costituzione.