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Filosofia politica

Le figure del tempo in ‘C’era una volta in America’

Analisi filosofico-politica a cura di Jacopo D’Alessio, socio ESC

(dedicato a Nada)

  1. L’inizio “ in medias res” dove si incontrano la linea del tempo ciclica e quella diacronica

La struttura temporale di Once upon a time in America (C’era una volta in America) si divide in due linee principali, l’una ciclica e l’altra diacronica. La prima, ciclica, comincia durante gli anni ’30 con l’effetto straniante di un flash-forward, introdotto da alcuni squilli di telefono che, se da una parte, servono a destare, dal torpore, il lungo sonno di uno dei suoi protagonisti, dall’altra, sembrano voler richiamare contemporaneamente l’attenzione
dello spettatore sullo snodo cruciale del film. Non a caso, l’intreccio si apre in medias res, con il decennio posto al centro degli altri due periodi narrati dalla vicenda, e rappresenta la parentesi della giovinezza; gli anni ’20, precedenti, raccontano invece l’infanzia e l’adolescenza dei personaggi; mentre gli anni ’60, posteriori, la loro maturità. Dunque, in questa scena iniziale, cogliamo un Noodle piuttosto malconcio, intento a fumare dell’oppio al teatro cinese per rinsavire dallo shoc subito a causa della morte degli amici più cari, ma che teme anche per la sua stessa vita.
Un attimo dopo, tuttavia, il giovane gangster sarà in grado di uscire di soppiatto dal locale, sfuggendo così dai sicari assoldati dal suo non più complice Maximilian (detto Max) che, verremo a sapere più tardi, vorrebbe ucciderlo e tagliarlo definitivamente fuori dal giro degli affari. Quindi, per mezzo di un flash-back, simmetrico all’operazione precedente, l’intreccio si conclude con la medesima scena, tornata al centro del film, accompagnata
però stavolta anche da quell’inaspettato sorriso che all’inizio invece mancava. L’espressione ilare e tranquilla, che spunta improvvisamente sul viso di Noodle, dà come la sensazione di essere decontestualizza rispetto alla circostanza particolarmente drammatica vissuta nel suo passato, segnando uno dei momenti più alti ma anche più misteriosi di Hollywood.
L’altra linea del tempo, invece, che ricaviamo dalla costruzione della fabula, segue il passaggio cronologico dagli anni’20 ai ’30, e infine ai ’60: cioè, i momenti essenziali che raccontano la biografia dei tre personaggi protagonisti nella loro successione temporale (Genette: 2006) (1). Così, se il percorso circolare della vicenda, che parte dal flash-forward, e si conclude con il flash-back, racconta, non solo l’inizio e la conclusione del film, ma anche il recinto invalicabile nel quale è circoscritta l’esistenza di Noodle (Robert De Niro); la progressione degli eventi descrive più che altro quella dei suoi compagni-antagonisti, Max Bercovics (James Wood) e Deborah Gelly (Elizabeth McGovern). E ora ci accingiamo a spiegarne il perché e a cosa ci serve saperlo.

2. I protagonisti e le due corrispettive figure del tempo

a – Il tempo mitico di Noodle

Il soprannome, Noodle, sembra alludere ad un tipo di spaghetti, una pasta
abbastanza povera e piuttosto comune tra le popolazioni del Medio Oriente, che rimanda al carattere semplice ma genuino di David Aaronson. Si tratta di un ragazzo scaltro che, mentre lotta per sopravvivere nella miseria e alla violenza sulle strade, riesce comunque a dimostrare una straordinaria lealtà nei confronti dei suoi soci, provenienti come lui dallo
stesso ghetto ebraico newyorkese. Se la vita di Max e Deborah scorre e muta di continuo, Noodle, al contrario, ne rimane al di fuori in ben due circostanze che separano le fasi storiche del racconto.

La prima volta, quando rimane isolato molti anni in carcere per aver vendicato la morte del giovanissimo Dominic, rimasto ucciso da una banda rivale, gelosa del lucroso bottino ottenuto dal contrabbando di alcolici. È questa la prima ellissi (Genette: 2006) (2) che separa gli anni ’20 dai ’30, ovvero il passaggio dall’infanzia alla giovinezza. La seconda volta, quando, dopo essere stato tradito, si nasconde per trent’anni nella città di Buffalo con il proposito di non lasciare alcuna traccia dietro di sé. È questa la seconda ellissi, decisamente più lunga, che segna il passaggio dalla giovinezza alla maturità. Negli anni ’60, quando David, ormai anziano, fa ritorno a New York, in occasione dell’invito al party del misterioso senatore Baily, passa la notte alla pensione di Moe Gelly, il fratello di
Deborah, che gli domanda interdetto:

Che cosa hai fatto durante tutti questi anni?

Moe, come vorrebbero saperlo gli spettatori del film, chiede al vecchio amico, riapparso all’improvviso, in che modo abbia trascorso la sua vita dopo essere sparito definitivamente dal ghetto.

Sono andato a letto presto”,

risponde Noodle, con una citazione di Proust (2017) (3), che vuol dire press’a poco: “Ho smesso di esistere”. Da quando la mia professione di gangster si è bruscamente interrotta, mi sono tramutato in una persona qualunque, seppellita come tutti gli altri dal banale ripetersi delle ore e da un tedio quotidiano estraneo a rapine, omicidi, e colpi di scena. Con buona probabilità, si tratta di un’allusione alla tecnica iterativa che, attraverso
l’uso frequente dell’imperfetto, scandisce la narrazione regolare e ciclica della Recherche (Alla ricerca del tempo perduto). D’altronde, anche nel romanzo proustiano emergono dei personaggi avvolti da un tempo monotono e indefinito che, come accade durante gli anni di anonimato di Noodle, nega anche a loro la possibilità di distinguere e ritrovare un episodio davvero significativo della propria esperienza. Infatti, a differenza degli altri coprotagonisti, noi non sappiamo davvero nulla di ciò che è accaduto a Noodle durante questo periodo. Come già detto, i fatti significativi della sua vita si fermano tra gli anni ’20 e i ’30, disegnando un tempo circolare, mitico, dal quale non sarà più in grado di uscire.


b – Il tempo progressivo di Max

Rispetto alle aspettative iniziali, Max mostra di essere un personaggio assai
ambizioso, con uno sguardo lungimirante, per nulla folle come vorrebbe far credere agli altri. Al contrario, egli è perfettamente lucido su come la fine del Proibizionismo porterà presto anche alla conclusione del contrabbando di alcolici che caratterizzava il mal affare della vecchia New York. Sulla base di tale premessa, sta escogitando da tempo il modo di
abbandonare i perdenti della storia, di cui è membro, per fare il suo ingresso trionfale nel crimine organizzato dell’alta società. Di contro, Noodle è un uomo romantico di autentica estrazione popolare, che respinge la chimera di soluzioni seducenti ma ciniche, e pertanto
preferisce rimanere umile, recalcitrante ad ogni tipo di mutamento del proprio codice d’onore. Anche lui intuisce senz’altro come il commercio della droga sia l’investimento del futuro, ciò che potrebbe procurargli un’immensa fortuna. Tuttavia sa anche che condurrà gli amici stessi a mettersi l’uno contro l’altro.

Perciò, mentre da lontano, la modernità sembra brillare di una luce ammaliante, di fatto rivela di portare con sé la dissoluzione della comunità in cui ha sempre riposto la propria fede. È da questo canto delle sirene che un giorno il giovane cercherà inutilmente di mettere in guardia Max, un attimo prima di saltare dal pontile con l’auto in mare. Per tale ragione, lo vedremo contrapporsi puntualmente ai suoi progetti temerari nello sforzo
nostalgico di fissare l’innocenza del passato in una condizione permanente. Come sappiamo però Max, viceversa, diviene una delle pedine principali dello spirito del tempo, che nel suo moto inesorabile e progressivo cercherà di spazzarlo via insieme all’intero mondo che ha dato i natali a entrambi.

3. ‘Crisi della presenza’ dei protagonisti tra tempo mitico e tempo progressivo

Dunque, mentre Noodle sprofonda sempre più nella figura del tempo presente, che va a scapito di quella futura, Max e Deborah si dissolvono nella figura del tempo futuro che si staglia a dispetto di quella presente. Eppure, potremmo spiegarci anche con altri termini (De Martino: 2021) (4). Se recuperiamo il modello concettuale di De Martino, Noodle
assume il comportamento di chi prova ad allontanare la minaccia di un trauma sistemico, proveniente dall’esterno, mediante un rituale mitico che, per salvaguardare l’esistenza, o esser-ci nel mondo con al centro i suoi valori, assorbe ogni cambiamento entro di sé, e rimuove per questo il divenire della storia, congelandola. In modo inverso, Max e Deborah scelgono di entrare come attori protagonisti nella storia ma, cancellando ogni volta la presenza di sé stessi con i loro valori, finiscono per esserne travolti senza sosta, adattandosi sempre e solo al suo superficiale involucro esterno. In entrambi i casi, si assiste al cocente paradosso esposto da De Martino, per cui il tentativo di confermare la propria identità conduce ad una crisi della presenza: ovvero, al suo opposto non-esser-ci, risolto, come vedremo, per mezzo di forme simili, arbitrarie ed individualiste.

Allora, è lecito chiedersi se possa esistere anche una terza figura del tempo in grado di fornirci una soluzione alternativa? Sembra di no. Nel senso che, di primo acchito, una prospettiva del genere, che sia ben articolata come le altre, pare non manifestarsi all’interno del film.

L’addio al Proibizionismo viene celebrato con una grande festa allestita nel locale di Moe, durante la quale Max mette in scena la propria morte, che avviene lo stesso giorno in cui terminerà anche il periodo della giovinezza con le sue illusioni. L’ex socio d’affari, infatti, ormai divenuto un traditore, ha fatto aggiungere una salma carbonizzata (che non era la sua) nell’auto trivellata dai proiettili di mitra, dove sono rimasti uccisi veramente gli
altri due complici. Verremo a sapere inoltre che, per continuare a mimetizzarsi agli occhi di tutti, cambierà la sua identità in quella di Bailey. Durante gli anni ’60, Max poi è riuscito a farsi eleggere senatore in virtù della grande ricchezza accumulata con i traffici illegali di droga, ma soprattutto grazie ad un investimento iniziale, proveniente dal milione di dollari che ha rubato trent’anni prima a Noodle e ai suoi vecchi compagni, dopo averli fatti eliminare. Il furto di quel denaro nel passato rappresenta, possiamo dire, il peccato originale che lo ha convertito per sempre in un assassino privo di scrupoli e in un uomo di potere. Da quel momento in poi non ha avuto più alcun interesse a creare relazioni umane che fossero a lui vicine e, anzi, si è posto completamente al di fuori anche dalla rete
solidale che gli garantiva la comunità ebraica delle origini.

Ora, giunto all’apice del successo, è però il senatore Bailey ad essere spacciato. Le indagini della polizia sui suoi illeciti rischiano infatti di portare allo scoperto molti altri personaggi illustri dell’abbiente società newyorkese, anch’essi coinvolti nel traffico di stupefacenti, così che, prima o poi, lo vorranno fare fuori per impedirgli di parlare. Perciò, non essendogli rimasto nessun alleato fedele al quale rivolgersi, Max ha invitato Noodle alla propria festa per chiedergli il favore, stavolta, di ucciderlo davvero. Nonostante però l’ex compare venga finalmente a conoscenza della verità sull’inganno che gli è stato teso trent’anni prima, rimarrà del tutto indifferente all’opportunità di vendicarsi, e se ne andrà via nella stessa maniera in cui è ritornato: quasi non fosse mai giunto lì, proprio perché
quell’epoca non gli appartiene. Come afferma De Martino, se il personaggio che ha rifiutato la storia ne è stato escluso del tutto, colui che l’ha seguita senza indugi ha annientato la presenza di sé medesimo esattamente allo stesso modo.

4. La scena dello stupro come allegoria dell’incompatibilità tra tempo interiore del personaggio e spirito del tempo di un’epoca

Per come è andata finora, potremmo anche sostenere che il regista simpatizzi di più per l’ideologia conservatrice di Noodle, ma vedremo che tale ipotesi può essere accolta solo in parte. A quanto pare, durante gli anni ’30, David avrebbe violentato Deborah, perché, in fin dei conti, rappresenta un tipico anti-eroe novecentesco che non è riuscito a
comprendere i desideri della donna, così come a trovare una valida alternativa alla propria impasse. Dal canto suo, Deborah, non solo non si è mai voluta legare sentimentalmente a Noodle, ma neppure a Max. Sebbene, invero, abbia avuto da quest’ultimo un figlio, è sfuggita senza remora da vincoli coniugali che le avrebbero impedito, a sua volta, di
scalare la carriera cinematografica. Lo stupro costituisce allora l’impresa disperata di Noodle di colmare, per mezzo della forza, la voragine che divide due forme di vita incommensurabili fra loro, ciò che dà luogo inevitabilmente ad un esito grottesco e di impossibile ricomposizione.

Alla stregua del romanzo moderno, l’episodio, a mio avviso, è un’allegoria che racconta la frattura radicale tra il tempo interiore, del protagonista, e lo spirito del tempo oggettivo, incarnato nel personaggio di Deborah, che anticipa l’epoca consumistica successiva. Ovvero, Noodle, che si trova incagliato ancora nei valori desueti degli anni ’30, manca difatti i suoi appuntamenti più importanti con la Storia: sia nel caso di Max, per il
suo disinteresse riguardo il crimine organizzato; sia, nel caso di Deborah, di cui rifiuta il ruolo femminile autonomo e di successo, al di fuori della famiglia tradizionale. Pertanto, sarà l’amico-rivale ad ottenere, al suo posto, gli affetti e il riconoscimento sociale, mentre l’inetto, incapace di comprendere entrambi, non farà altro che esacerbare il proprio senso
di impotenza, perdendo infine il controllo.

5. L’inconscio politico del film: due configurazioni storico-ideologiche speculari

Non appena, quindi, ci troviamo a trascendere le figure del tempo dei singoli personaggi, l’inconscio politico (Jameson: 1990) (5) del film si dipana, appunto, anche secondo due linee storico-ideologiche più vaste. Per un verso, la prospettiva moderna e progressista solca perfettamente la parabola della grande borghesia (Max-Deborah), come emerge dopo la Rivoluzione Francese, la quale farà propria una visione del mondo scandita dal movimento meccanicistico, slanciato continuamente in avanti e privo di limiti, ereditato dalla sinistra liberale; mentre, per un altro, racconta la prospettiva conservatrice, regressiva, della piccola borghesia (Noodle), che il tempo invece l’ha sempre voluto fermare, in quell’eterno presente, raccolto invece dalla destra storica. Nonostante che Max e Deborah siano stati a rincorrere per tutta la vita il tempo, alla fine tuttavia hanno fallito
perché era come se in realtà non si fossero mai spostati. D’altra parte, Noodle, che ne è sempre rimasto escluso, cerca in questo episodio di possederlo invano. Di conseguenza, tutti e tre i protagonisti, diversi ma uguali, restano sempre oggetti, piuttosto che diventare soggetti, di storia.

6. Il tempo imprevisto del sorriso epifanico e lo straniamento brechtiano

Ebbene, l’unica finestra che permette di scorgere un Altrove ideologico, ancora inesplorato, si apre con il momento epifanico di quel sorriso improvviso, comparso dal nulla, durante la famosa scena conclusiva quando, ancora stordito per via dei narcotici, Noodle si sdoppia, acquisendo la coscienza di essere in realtà un semplice personaggio di
carta. È come se i suoi occhi, bucando lo schermo, guardassero direttamente lo spettatore attraverso la telecamera e ci apparisse adesso un uomo diverso, con un’espressione che ormai dimostra di aver capito in cosa consista il suo ruolo nell’ambito di una storia ideata, appunto, per essere scritta.

Siamo tornati di nuovo agli anni ’30, cioè a quel lasso di tempo che, si è accennato più sopra, occupa la sezione centrale del film. Qui, come all’inizio, un effetto straniante di tipo brechtiano, introdotto stavolta dall’uso simmetrico del flash-back, allontana il punto di vista dello spettatore fuori la catena di causa-effetto degli eventi narrati. Se da una parte, infatti, quest’ultimo ci insinua un senso di profondo spaesamento (Perché Noodle sorride mentre stanno cercando di ucciderlo?); dall’altra, ci permette di osservare quei fatti con distacco, e perciò alla stregua di un gioco (Forse, Noodle ha capito di essere stato ingannato e pertanto sorride con ironia nei confronti della vita?). Le domande però non riescono a trovare risposte immediatamente certe mentre, al loro posto, si fa spazio sempre di più il dubbio lacerante, cui segue un’inevitabile ambiguità di senso che sospende il nostro giudizio.

D’altronde, è impossibile che la consapevolezza di essere diventato la vittima di una congiura, ordita dall’amico, sia stata già fatta propria dal giovane nella scena in cui si droga con l’oppio. Al contrario, Noodle è ancora convinto che Max sia morto bruciato nella sua vettura, insieme agli altri due complici, uccisi dai loro rivali. Lo dimostra il fatto ad esempio che il giorno dopo, un attimo prima di lasciare New York, si recherà alla stazione dei treni, persuaso di trovare inizialmente ancora la valigetta con il milione di dollari nell’armadietto, dove l’aveva nascosta per anni con gli altri componenti della banda.

Inoltre, durante gli anni ’60, non appena fa ritorno al ghetto ebraico per prendere parte alla festa del senatore Baley, si trova ospite nel locale di Moe il quale, essendo rimasto in apparenza l’unico sopravvissuto tra i suoi vecchi compagni, viene accusato ingiustamente da Noodle di essere stato proprio lui a tradirlo.

7. L’epilogo come raccordo tra tempo della storia e tempo del racconto

Allora, il sorriso tranquillo, sopraggiunto incoerente ed enigmatico, innanzi alla situazione tragica che sta attraversando il protagonista in quel momento, potrebbe alludere più probabilmente ad una presa di coscienza sulla precarietà dell’esistenza nel suo insieme, sulla mancanza di verità assolute, piuttosto che fare riferimento ad una circostanza particolare della vicenda. Ed è per questo motivo che, se poniamo di nuovo la nostra attenzione sull’intreccio, ci rendiamo conto come tale gesto debba comparire necessariamente al termine del film. Perché è come se, davvero, lo trovassimo solo in fondo, quando cioè guardiamo per la seconda volta questa scena. Mentre prima, all’inizio, non c’era stato.

In altre parole, la smorfia non appartiene al tempo cronologico di una biografia come è veramente accaduta, che emerge sulla base di una preziosa esperienza acquisita con l’ingresso del giovane nella maturità. Ma alla fase centrale della sua vita, dove infine vengono a sovrapporsi, in modo circolare, tempo della storia del personaggio, già trascorso (TS), e tempo narrante che si sta realizzando ancora nel presente, mediante l’epilogo (TR). Il sorriso scaturirebbe così dall’invenzione del racconto che, mentre torna indietro, finalmente si interrompe e modifica il passato narrato del protagonista, aprendosi al recupero di un evento nuovo e significativo, altrimenti perduto (6). Dunque, non quando è anziano, in coincidenza con la sezione finale della fabula, ma nello snodo cruciale dell’intreccio, che è simultaneamente principio e conclusione di se stesso, Noodle scopre di essere l’attore di una trama altrui e ne prende atto.

Se un personaggio comprende il proprio destino nel passato, e riesce perfino a sovvertire quest’ultimo, evadendolo, può venire meno in un istante anche tutto il resto della sua parvenza realistica, che si infrange a causa di una manipolazione esterna. Attraverso il flash-back degli anni ’30, l’autore difatti irrompe trasversalmente nelle due linee temporali, ciclica e diacronica, ormai tracciate dal film, e le mischia fra loro per smontare
l’illusione scenica con i suoi ingranaggi fittizi, mostrandosi mera pellicola, recitazione. A questo proposito, risulta evidente anche l’accostamento tra il ruolo di Deborah nei panni di un’attrice, la cui unica preoccupazione consiste nel perseguire la fama a scapito della propria umanità, con la forma cinematografica in quanto tale, genere di cartapesta per
eccellenza, conosciuta e utilizzata dallo stesso Leone.

8. Terza figura del tempo: il futuro anteriore

Insomma, il sorriso di Noodle, cosciente di rimanere al di sopra delle parti e complice di una commedia, è un’espressione del viso che non risponde più ad una logica interna, concepita dall’incalzare degli avvenimenti, ma viene calato dall’alto per mezzo di una chiara operazione registica (Szondi: 2015) (7). E tale effetto si è voluto trovare perché “la sospensione del giudizio” serve a noi per smascherare il soverchiante status quo che
circonda il protagonista, senza rinviare tuttavia a nessuna soluzione di sorta. Come si è visto, le prospettive politiche proposte dallo spirito dell’epoca si sono rivelate vuote e mendaci, nella misura in cui si sono avverate in modo fallimentare. Pertanto, quel gesto finale, pur comparendo nel passato, è allo stesso tempo un inizio che si pone al di fuori della ripetizione dell’identico, come auspicabile accesso ad un ignoto futuro, diversamente ideologico.

Giunti fin qui, siamo ora in grado di rispondere anche alla nostra domanda iniziale. Ovvero, si può sostenere che in C’era una volta in America si manifesti il segnale di una terza figura del tempo che corrisponde ad un futuro anteriore. Quest’ultimo emerge, sì, autonomo rispetto alle altre due linee temporali presenti nel film ma, al contrario delle precedenti, non è pervenuto ad una sua esistenza concreta e perciò appare sfuggente. Si
tratta, anzi, di una figura che non è stata mai filmata, né scritta ma, proprio per questa ragione, si affaccia ancora come alternativa a dispetto di una realtà già avvenuta e al contempo fallace. Il regista, semmai, attraverso l’ambivalenza di quel sorriso, che riempie la nostra mente di dubbi, affida al pubblico il compito di immaginare il suo possibile fine.

Note

(1) L’intreccio è la narrazione della vicenda come viene esposta nel romanzo, o nel film, di cui è testimone il lettore-spettatore. Pertanto, come avviene in questo caso, può presentarsi attraverso continui rimandi, sia
avanti (prolessi o flash-forward), che indietro (analessi o flash-back). A discrezione della regia, può presentarsi più lineare, oppure, perfino circolare e, quindi, partire e concludersi nello stesso punto. Comunque sia,
l’intreccio si realizza in forme molteplici e, soprattutto nel film d’avanguardia, appare spesso piuttosto disordinato. Viceversa, la fabula è la ricostruzione a-posteriori che può ricavare lo spettatore quando smonta
gli eventi, così come erano stati presentati dall’intreccio, per ricollocarli successivamente nel loro presunto ordine lineare e cronologico: cioè, come sarebbero apparsi se fossero stati narrati in un modo più rispondente alla realtà dei fatti, in Genette, G., Figure III – Discorso del racconto, Torino: 2006; Einaudi Editore.

(2) L’ellissi è un balzo temporale in avanti della narrazione che consiste nell’omissione di alcune informazioni durante il periodo di tempo sottaciuto. In altre parole, quando il tempo del racconto (TR) degli avvenimenti si interrompe, viceversa, il tempo storico (TS) delle ore, dei giorni, e degli anni, prosegue nel frattempo il suo corso naturale anche se non è stato fatto oggetto di alcuna narrazione, in Genette, G., Ibid. Nella fattispecie, durante il carcere e la permanenza a Buffalo, il tempo del racconto si è arrestato del tutto (TR = 0) perché non si parla di ciò che è successo a Noodle nei periodi omessi, mentre il tempo reale della storia è andato avanti di circa un decennio (TS = 10), nel primo caso, e di circa trent’anni nel secondo (TS = 30).

(3) “Per molto tempo, sono andato a letto presto la sera. A volte, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che nemmeno avevo il tempo di dire a me stesso: ‘M’addormento’. E mezz’ora più tardi, il pensiero che era tempo di cercar sonno mi ridestava”, corsivo mio, in Proust, M., Dalla parte di Swann, in Alla ricerca del tempo perduto, Torino: 2017; Einaudi Editore.

(4) De Martino, E., La fine del mondo – Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino: 2021; Einaudi Editore.

(5) L’espressione qui usata proviene dall’opera omonima di Frederich Jameson, L’inconscio politico. Si vuole intendere in questo modo che il film sia un prodotto culturale realizzato ovviamente dal regista, Sergio
Leone, il quale però, a sua volta, sarebbe calato nella cornice più grande della storia. Per cui quest’ultima, anche secondo chi scrive, sarebbe stata in grado di influenzarlo, indirettamente, sul piano inconscio appunto, nonostante la mediazione soggettiva e particolare dello scrittore. In breve, le intenzioni di Leone non sarebbero state, molto probabilmente, quelle di imprimere una precisa direzione politica (questa direzione politica) al suo film. Ciò emergerebbe, al contrario, da un’interpretazione a posteriori compiuta dal critico, quando prova a scovare il significato recondito depositato nel singolo manufatto artistico, che sfugge in una certa misura al controllo diretto e consapevole dello stesso regista, rispetto alle dominanti culturali e in conflitto di un’epoca, in Jameson, F., Storicizzare sempre!, tratto da L’inconscio politico, Milano: 1990; Garzanti.

(6) A mio avviso, anche nella conclusione troviamo una forte somiglianza con il racconto proustiano. Difatti, la Recherche si chiude con la sovrapposizione tra il punto di vista dell’Io narrato del personaggio-scrittore anziano, posto ormai alla fine della vicenda, che racconta la propria storia a ritroso, e quello dell’Io narrante, che appartiene invece al protagonista da giovane, quando si trova a testimoniare i fatti nel presente, proprio mentre accadono. Dunque, in C’era una volta in America si dà luogo ad un paradosso temporale piuttosto simile. Se mediante il flash-back, il tempo della storia (TS) è tornato indietro fino al periodo degli anni ’30, che coincide con l’inizio della trama, in un’apparente ripetizione senza fine, il tempo del racconto (TR), al contrario, dà un taglio a tale ciclicità, prima di tutto, interrompendo il film. Ma introduce inoltre un evento nuovo (il sorriso) nel futuro dell’intreccio (la scena finale) che si trova collocato tuttavia, in modo paradossale, nella storia già vissuta da Noodle (negli anni ’30). La tesi di questo lavoro, appunto, è che, come accade in Proust, il sorriso, precedentemente omesso, in quanto perduto nel passato, venga recuperato come un evento significativo dell’esperienza nel presente dell’intreccio, ovvero nell’epilogo. Oppure, che è la stessa cosa, viene suscitato soltanto in seguito, quale artificio irreale che termina il racconto (TR). In entrambi i casi, va da sé che sia possibile narrarlo esclusivamente alla fine.

(7) La tragedia classica, composta secondo il principio di immedesimazione, si va progressivamente deteriorando nel corso dello sviluppo del dramma moderno. Ad interrompere l’illusione scenica sarà compito del montaggio e del punto di vista autoriali che, muovendo dall’esterno, fanno breccia tra gli eventi interni della trama, per svelare così gli artifici stessi della narrazione. Di qui, si assisterà alle varie forme di
sdoppiamento dei personaggi che si scoprono attori delle storie di carta loro assegnate dai rispettivi scrittori. (Su questo argomento, vedi ad esempio, come opera più rappresentativa dell’avanguardia italiana primo
novecentesca, Sei personaggi in cerca d’autore, di Luigi Pirandello). La forma matura di tale estetica, cominciata dall’Espressionismo tedesco, durante gli anni ’20 del secolo scorso, diviene compiuta e si teorizza con l’avvento del teatro epico di Bertold Brecht, in Szondi, P., Teoria del dramma moderno, Torino: 2015; Einaudi Editore.

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Sociologia Politica

L’egemonia di Gramsci e i partiti senza popolo del tardo capitalismo

Saggio di Jacopo D’Alessio, socio ESC

La realtà oggettiva dell’essere sociale è la stessa nella sua immediatezza tanto per il proletariato quanto per la borghesia.

Gyorgy Luckàcs
Gyorgy Luckàcs

Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere). Dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente.

Antonio Gramsci
Antonio Gramsci

1. Introduzione. I Partiti popolari moderni fino alla Prima Repubblica e l’essere sociale

            Dopo la comparsa, negli anni ’30 del secolo XIX, di sparpagliate leghe operaie, il socialismo si diffonde attraverso movimenti sempre più radicati e, grazie anche ad una consistente letteratura, riesce a fissarsi inoltre a livello simbolico durante la Prima Internazionale del 1865. Da questo momento in poi, nei diversi paesi europei nacquero partiti fondati su principi di organizzazione collettiva, l’unica adeguata a rappresentare l’avvento della nuova società di massa agricolo-industriale. Difatti, alla domanda conclusiva che Gramsci si pone ne Il Risorgimento, riguardo il fallimento parziale di quella esperienza politica, il filosofo risponde offrendo al lettore una definizione sintetica ma già piuttosto esaustiva di partito popolare post-unitario:

La verità è che il programma di Pisacane era altrettanto indeterminato da quello di Mazzini. […] 1) perché programmi concreti in realtà non esistettero mai in quegli anni, ma appunto solo tendenze generali più o meno fluttuanti; 2) perché appunto in quel periodo non esistettero partiti selezionati e omogenei, ma solo bande zingaresche fluttuanti e incerte […] 3) che tale programma fosse condiviso dalle grandi masse popolari e le avesse educate a insorgere simultaneamente in tutto il paese (Gramsci 2000: 146-147)[i].

Dunque, attribuiamo al partito dei Gramsci, dei Togliatti, dei Nenni, e dei Basso, la funzione moderna di aver creato: 1) un progetto pragmatico che esisteva al di là dei singoli attori partecipanti (programmi concreti); 2) la scelta di persone di valore e una disciplina di vita che rendeva il partito unito nelle idee, sotto principi inoltre di umiltà e di uguaglianza (partiti selezionati e omogenei); 3) la missione di rendere quel progetto il fulcro di maggiore condivisone possibile con il popolo (condiviso dalle grandi masse popolari), soltanto ora più omogeneo rispetto al passato, e quindi potenzialmente soggetto di trasformazioni politiche-sociali radicali (educate a insorgere). Storicamente, quest’ultima funzione, che serviva per selezionare i militanti e perseguire obiettivi di consenso all’esterno del partito, prese il nome di egemonia.

A – Ricapitolando, se il soggetto politico rimaneva il centro dell’organizzazione e della prassi, quest’ultimo si trovava sempre ad operare contemporaneamente in un contesto oggettivo che lo trascendeva, attraverso: 1) un progetto super partes; 2) e dei blocchi sociali esterni; ovvero, nell’ambito di un essere sociale che lo ricomprendeva entro di sé.

Eppure, dalla fine della Prima Repubblica in poi non è stato più così. Se ad esempio il Partito Democratico ha rinnegato il suo legame con i lavoratori per intercettare solo il consenso degli istituti di credito e della grande distribuzione, entrambi distanti dai disagi delle classi subalterne, Forza Italia è stato invece il partito per eccellenza del man self made di impronta thatcheriana, incentrato unicamente sul personalismo del leader. In tutti e due i casi ci troviamo in presenza di partiti post-moderni, definiti così in quanto tale atteggiamento viene assunto da tutti quegli organismi chiusi che riproducono la loro soggettività identica a se stessa nell’intento di proiettare il proprio interesse di classe particolare sulla società presa nel suo insieme. Per questa ragione, si assiste da parte loro ad un crollo simbolico della realtà medesima che non riesce più ad essere riconosciuta e descritta come tale, per essere sostituita con un proprio surrogato fantasma, o allucinazione (Jameson 1989)[ii]. Va da sé che il ricorso frequente al governo tecnico e il pilota automatico di Bruxelles rappresentino la fase più avanzata dell’attuale metamorfosi dei partiti verso l’esclusione, sia pur ancora non scritta ma ormai codificata, delle masse popolari dalla costruzione dei progetti politici nell’ambito delle attuali post-democrazie europee e occidentali.

B – Di conseguenza, esattamente all’opposto dei partiti delle origini, quelli post-moderni hanno avuto progressivamente sempre meno bisogno di cercare una propria legittimazione: 1) tanto che fosse dovuta a progetti al di sopra degli interessi di gruppi sociali specifici e di leader individuali; 2) quanto quella di un impegno strategico per la costruzione di un autentico consenso di massa. In conclusione, tali partiti sono composti da nomenclature che si auto-riproducono per partenogenesi al di fuori di rapporti di forza reali.

Ora, però, l’analisi del presente articolo vuole indagare questo aspetto più nel profondo e quindi si applica anche alla galassia sovranista costituzionale e neo-socialista con particolare riguardo ai due partiti più noti dell’area: Ialexit con Paragone e Riconquistare l’Italia. Difatti, se il Partito Democratico, in virtù di una precedente eredità storico-egemonica ereditata dal PCI, oppure Forza Italia, grazie alla disponibilità di ingenti risorse finanziarie private, hanno scelto coscientemente di rinunciare a ricomprendere le contraddizioni esterne entro una traiettoria egemonica, perché appunto non ne traevano più alcun beneficio, esiste tuttavia anche un ampio spettro di partiti di estrazione popolare persuasi invece di essere sufficienti a se stessi. Tutto ciò in una paradossale prospettiva auto-referenziale (o allucinatoria) dove è venuta a mancare del tutto la mediazione fuori di sé. Dunque, obiettivo finale dell’articolo sarà di mettere in luce proprio l’assenza, da parte dei partiti costruiti dal basso, di una riflessione sulla posizione che hanno concretamente assunto nell’ambito dell’essere sociale.

2. La polemica sul Risorgimento

        La propaganda socialista italiana di fine 800 è fittissima e si dirama con una serie di manifesti e di riviste come la La plebe,del redattore Enrico Bignani, apparsa a Lodi nel 1862: ovvero, ben trent’anni prima che venisse fondato il Partito dei Lavoratori Italiano nel 1892 (Pisano 1985)[iii]. Secondo Turati, infatti, il soggetto politico non ha ragion d’essere se non si rivolge, guida, e contribuisce a costruire un proprio interlocutore specifico, storico sociale, che sarà individuato in quell’epoca nel proletariato dei grandi agglomerati urbani del triangolo industriale di Milano, Genova, e Torino. Ma il partito non si limitava a parlare semplicemente ai lavoratori. Li andava a cercare; li incontrava direttamente nelle officine; li persuadeva; sentiva il dovere di conquistarli. Così che tale processo di incontro tra avanguardia proletaria e piccolo borghese, con il popolo, raggiunge il suo punto più alto circa sessant’anni dopo, durante il famoso Biennio rosso, che consisterà nell’occupazione delle fabbriche di Torino tra il 1921 e il 1922.

Guardando a ritroso, è proprio la mancanza di tale convergenza con le masse a diventare l’oggetto   polemico di Antonio Gramsci (2000)[iv] nei confronti dei leader del Risorgimento, autori più che altro di una ‘conquista regia’ da parte dei Savoia e perciò di una ‘mancata rivoluzione popolare’ come l’aveva descritta il Cuoco. Gramsci, d’altronde, aveva avuto davanti a sé almeno due casi esemplari, praticamente identici, che dimostravano la validità della sua tesi. Da una parte, l’impresa storica di Robespierre, quando i giacobini nel 1789 erano riusciti a conquistare Parigi, nella misura in cui compresero di poter raggiungere tale obiettivo solo incrociando il consenso degli abitanti della capitale con quello delle masse rurali provenienti dal resto del paese (Gramsci 2000)[v]. Dall’altra, c’era stato il recente modello della Rivoluzione d’Ottobre, nella quale Lenin (2017)[vi], per sconfiggere i Menscevichi, aveva intuito che il partito comunista avrebbe dovuto cucire insieme gli interessi degli operai delle grandi città occidentali, come Mosca e Pietroburgo, con quelli dei contadini che vivevano in Siberia, nella parte  più orientale della Russia.

Lenin (pseudonimo di Vladimir Il’ič Ul’janov)

Tuttavia, tale presa di distanza dall’élite liberale non discendeva solo da un’analisi storica, come soleva fare il Croce, quanto piuttosto teorica. Sostiene a ragione Costanzo Preve (2012)[vii] che Croce e Gentile condividevano con Gramsci la corrente neo-idealista ma, rispetto agli altri due filosofi, quest’ultimo l’aveva declinata per mezzo del materialismo storico, dando luogoinfinead una propria impostazione originale del marxismo. Non si trattava infatti di pensare nemmeno ad un soggetto ideale come quello gentiliano nella sua accezione pura. Diversamente, per Gramsci, l’idea di soggetto hegeliano diventava immanente, e perciò si calava all’interno dei rapporti sociali fra gli uomini: quindi nella storia. Dunque, mentre per Gramsci il soggetto politico, nonostante partisse da una condizione scissa rispetto alla totalità popolare, l’avrebbe dovuta ricomprendere con il fine di trasformare se stesso, insieme a quella, nella nazione italiana, la classe liberale, al contrario, era stata solamente capace di contemplarla dall’esterno, identificando l’essere sociale nella mera cosa in sé (cioè che ha solo senso in se stessa) kantiana: un oggetto incomprensibile all’intelletto e perciò estraneo anche alla propria influenza d’azione (Gramsci 2000)[viii]. Per dirla con la Fenomenologia dello Spirito, gli eroi della Destra Storica erano stati portatori di una ‘coscienza infelice’ che rimandava ad una visione della realtà solo parzialmente corretta in quanto viziata dal proprio punto vista. Prendiamo l’esempio del Moderato Crispi, l’avvocato siciliano che sarà giacobino soltanto nella sua volontà determinata di fare unita l’Italia. Mentre rimarrà totalmente incapace di negare la soggettività piccolo borghese che lo connotava, tanto da realizzare al governo un’alleanza con i latifondisti del Mezzogiorno a scapito dei contadini, pur di non mettere a repentaglio la conquista piemontese (Gramsci 2000)[ix].

Allora, per quale motivo i Moderati non furono in grado di uscire dalla loro egoità?

Perché la classe dirigente del Risorgimento si percepiva come un soggetto politico artefice del proprio destino, specchio di quelle costituzioni liberali che, dalla Rivoluzione Francese fino al ’48, erano state gradualmente imposte ai sovrani di mezza Europa mediante la loro promozione in parlamento. Fu grazie alla conquista del potere attraverso i moti di inizio secolo, e nonostante la Restaurazione del Congresso di Vienna, che la grande borghesia italiana del 1860 era stata in grado di fondare una propria etica soggettiva. Ed è solo verso quest’ultima che i liberali (anche piccolo-boerghesi) rispondevano nel realizzare i propri interessi di classe, rispetto ai quali venivano ancora esclusi il suffragio universale, i diritti del lavoro, e i partiti: istanze popolari che non riuscivano a trovare una loro collocazione in quella Weltanschauung (Hobsbawn 2016)[x]. Di conseguenza, come dicevamo, lo sbaglio dei liberali fu quello di proiettare le leggi di un Io legislatore parcellizzato sull’interesse complessivo dell’intera nazione. Ovvero, si trattava di un’idea particolare che, in maniera contraddittoria, avrebbe voluto raggiungere ingiustamente il piano universale.

D’altronde, neanche il Partito d’azione riuscì a dare luogo ad una rivoluzione popolare. Se si faceva eccezione per una certa parte più autenticamente progressista, come Garibaldi e il Pisacane, nemmeno proletariato e piccola borghesia erano stati in grado di raggiungere da soli (in modo automatico e deterministico) la consapevolezza della propria condizione alienata, così da superarla per ricomprendere in sé le leggi che informavano i rapporti di forza fuori di loro.

Perché il Partito d’Azione fosse diventato una forza autonoma e, in ultima analisi, fosse riuscito ad imprimere al moto del Risorgimento un carattere più marcatamente popolare e democratico avrebbe dovuto contrapporre all’attività empirica dei Moderati un programma organico di governo che riflettesse le rivendicazioni essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei contadini. […]. (Gramsci 2000: 89)[xi].

Francesco Crispi

3. Il concetto di egemonia in Gramsci

          Quindi, per fare luce a pieno su tale fallacia, ci deve venire in aiuto anche un secondo scritto di Gramsci, Il Materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce. Il fallimento era sopraggiunto perché l’auto-coscienza dell’Io, estranea ai liberali, era stata possibile solo attraverso l’elaborazione collettiva prodotta dall’ingresso nella storia del partito popolare post-unitario. Non prima di allora. Gramsci infatti aveva imparato da Hegel il processo di costruzione della soggettività moderna, per cui non si poteva avere una classe dirigente cosciente della sua ideologica unilateralità mediante la mera conferma di un’identità cristallizzata, quanto piuttosto grazie alla negazione di quella solitudine egoica (Gramsci 2000: 118-119)[xii]. Soltanto negando se stesso, infatti, il soggetto politico poteva rendersi conto di non essere affatto dissimile dalla cosa in sé, percepita, nell’immediatezza, esterna e posta lontana nel mondo fenomenico. Mentre il processo di sviluppo del partito, che ambiva a diventare egemone, doveva includerla ora al proprio interno come parte necessaria del suo progetto per trasformarla. In altre parole, allo stesso modo di Lenin, anche la rivoluzione dei socialisti italiani avrebbe avuto l’obiettivo di convogliare entro la propria guida gli interessi degli operai del nord Italia con quelli dei contadini meridionali, prigionieri del latifondo. Soltanto per mezzo di questo ampio consenso esterno al partito, i socialisti avrebbero potuto conquistare in seguito anche il potere legale nelle istituzioni attraverso il partito medesimo, e non il contrario:

Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere). Dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente. […] Dalla politica dei Moderati appare chiaro che ci può e ci deve essere una attività egemonica anche prima dell’andata al potere e che non bisogna contare solo sulla forza materiale che il potere dà per esercitare una direzione ufficiale (Gramsci 2000: 87)[xiii].

In altre parole, non avrebbe avuto senso entrare nelle stanze del governo in assenza dell’appoggio  dei lavoratori, pena la realizzazione di un progetto politico condotto avanti da un volgare e astratto dover essere, lontano perciò da rapporti di forza sostanziali, con un partito che sarebbe rimasto chiuso in una mera logica formale. Di conseguenza, possiamo sostenere che i partiti popolari dei Turati e dei Gramsci respingevano pienamente quella rigida soggettività, padrona in casa propria del cogito ergo sum, che si poneva come non contraddittoria ma identica a se stessa. Semmai, era intervenuto un principio di castrazione paterna, da parte di quella stessa classe dirigente illuminata, che fu in grado di interrompere il corto-circuito autoerogeno dell’Io borghese per diventare a tutti gli effetti il soggetto aperto e inclusivo nazional-popolare del moderno partito di massa.

Difatti, potremmo porci la seguente domanda. Come doveva apparire all’avvocato Turati, che non era di certo un proletario, quella vasta massa di operai analfabeti che non erano in grado di accogliere i complessi messaggi del marxismo, se non alla stregua di un non-Io fichtiano, radicalmente dicotomico rispetto al soggetto politico?

Eppure, all’opposto di Crispi, il primo leader del PSI, proprio per riuscire a raccogliere il consenso di quella moltitudine, nel 1896 aveva bandito un concorso a conclusione del quale si sarebbero potuti premiare i migliori opuscoli per ladiffusione delle idee socialiste (Pisano 1985)[xiv]. Dopo quattro anni dalla sua fondazione, la propaganda fu ritenuta strategica nell’organizzazione di partito. E, pertanto,si dovevano scovare anche i conferenzieri più abili che fossero riusciti a coniugare insieme una comunicazione adatta alle classi incolte, insieme a dei contenuti altrettanto significativi. Viceversa, per la classe dirigente del Risorgimento, il popolo rappresentò sempre quell’incomprensibile non-Io (o cosa in sé kantiana), che in un primo momento era rimasto estraneo alla Costituzione dello Statuto Albertino, ma che invece avrebbe fatto il suo ingresso nella Storia, dapprima, durante il Biennio rosso, e successivamente con la Resistenza, quando la sovranità popolare fu collocata all’interno del primo articolo della Costituzione del ’48.

4. Il post-moderno della Seconda Repubblica e la sua scissione dall’essere sociale

            Il postmoderno invece è l’ideologia del tardo capitalismo che, dopo il crollo delle grandi narrazioni, inclusa quella socialista, è riuscito in circa quarant’anni a spoliticizzare del tutto le masse popolari, riportandole indietro nel tempo fino all’Ottocento. Quest’ultime sono attualmente persuase infatti di costituire monadi isolate e indipendenti, mettendosi a vaneggiare il mito, solo in apparenza sepolto, del Robinson Crusoe, e hanno sostituito gli ideali dei precedenti ismi con l’unica finalità consumistica del mercato (Jameson 1989)[xv]. Il punto da considerare qui però è che anche il partito popolare, nonostante la buona fede, è composto oggi, come del resto accadeva in passato, dello stesso tessuto sociale spoliticizzato che ha finito per introiettare le logiche del grande capitale. Questo perché, come si è visto, soggetto politico e cosa in sé non sono affatto distinti l’uno dall’altro all’interno dell’essere sociale, anche se il primo, nella sua immediatezza, si illude di esserlo.  

La realtà oggettiva dell’essere sociale è la stessa nella sua immediatezza tanto per il proletariato quanto per la borghesia. Ma ciò non toglie che, a causa della diversa posizione che queste due classi occupano nello stesso processo economico, siano fondamentalmente diverse le categorie specifiche della mediazione attraverso le quali esse portano alla coscienza questa immediatezza (Luckàcs 1991: 198)[xvi].

Se pensiamo ad esempio alla sinistra post ’89 come Lotta comunista, che si è rinchiusa in una dimensione d’avanguardia iper-intellettualistica e incomunicabile verso l’esterno, oppure ai CARC (Comitati di Appoggio alla Resistenza del Comunismo), eterodiretti da un partito clandestino (Nuovo PC) che si eclissa di proposito dalla sfera pubblica per nascondere il suo progetto, ci rendiamo conto dello stato di dissociazione mentale anche del partito socialista post-moderno. Non fa eccezione una certa gamma di partiti al centro, come recentemente avvenuto con La mossa del cavallo del magistrato Antonio Ingroia, insieme alla collaborazione dell’ormai defunto Giulietto Chiesa. Questi ultimi, colpiti dall’ossessione del mero appuntamento elettorale, per ben due volte si sono persuasi invano di farsi conoscere alla popolazione soltanto durante l’intervallo lampo della par-condicio, facendo a meno di un percorso egemonico tradizionale di lunga durata.

C’è molto da riflettere nei confronti di questa totale indifferenza rispetto alle masse, escluse del tutto dalla prassi di partiti che, almeno sulla carta, si definiscono popolari. Si potrebbe sostenere infatti che il soggetto politico moderno fosse nevrotico nel senso riportato più sopra. Ovvero, che avesse dovuto rinunciare ad una forma di piacere narcisistico a causa di una rigorosa disciplina di partito, così come adeguarsi ad un ideale politico più importante rispetto all’opinione del singolo. In questo modo, infatti, chiunque fosse entrato a far parte dell’organizzazione politica doveva rinunciare a qualcosa della propria individualità per un bene più elevato. Ma fu proprio in virtù di tale castrazione simbolica, per mezzo della quale il militante negava al contempo, marxianamente, la propria condizione alienata, che il progetto socialista potè essere diffuso al di fuori del partito. Fu in questo modo che i socialisti delle origini, fino a Berlinguer, continuarono ad incontrare il desiderio di vasti blocchi sociali, sebbene molti di loro inizialmente fossero stati ancora incapaci di accogliere il loro progetto. Pertanto,secondo Gramsci, il compito della futura classe dirigente consisteva anche nell’educare la popolazione per elevarla ad un livello di consapevolezza politica che in partenza non possedeva:

(Questo è il) Merito di una classe colta, perché sua funzione storica è quella di dirigere le masse popolari e svilupparne gli elementi progressivi. Se la classe colta (tuttavia) non è stata capace di adempiere alla sua formazione, non deve parlarsi di merito ma di demerito, cioè di immaturità e di debolezza (Gramsci 2000: 117)[xvii].

Completamente agli antipodi si presenta invece il soggetto politico post-moderno che, tanto nella forma istituzionalizzata del Partito Democratico e di Forza Italia, quanto in quella dei partiti costruiti dal basso, come Lotta Comunista, non ha alcuna intenzione di abbandonare il proprio Ego particolare di cui, anzi, esalta puntualmente la condizione di libera e isolata identità perfettamente conforme a se stessa. E questo accade perché la sua difficoltà non consiste, appunto, nell’accedere al desiderio dell’Altro fuori di sé. Il soggetto politico post-moderno non sente più la preoccupazione, come accadde a Gramsci, di riesumare nevroticamente il rimosso censurato dal Partito d’Azione, che era venuto meno al compito di incontrare le rivendicazioni dei contadini siciliani. Sono questioni che non vengono più annoverate nelle strategie di questi partiti. Si tratta adesso piuttosto del problema dello psicotico che, prima di ogni cosa, ha rimosso l’esistenza del popolo vero e proprio, in quanto oramai riesce soltanto a vedere se stesso. Pertanto, non percepisce più il bisogno di instaurarvi una dialettica di alcun tipo nella misura in cui non traduce affatto tale perdita in un lutto. Detto in estrema sintesi, il soggetto post-moderno, al contrario dei Turati e dei Gramsci, si è convinto, nel suo delirio allucinatorio, di poter diventare egemone pur essendo privo di consenso, in assenza di qualsiasi mediazione con l’essere sociale.

5. Due forme di rimozione dell’essere sociale nella galassia sovranista-costituzionale

            Non è un caso infatti come, diversamente dalle tesi weberiane del soggetto ascetico protestante, Lacan nel 1972 sostenesse invece che il capitalista cercasse di perseguire solo ed esclusivamente il fine del piacere assoluto, libero cioè da qualsiasi vincolo sublimatorio proveniente da ideali religiosi (e comunque universali), o da legami con altri attori sociali, entrambi posti al di fuori della propria etica di classe (Recalcati 2010)[xviii]. Così, in tempi non sospetti, Lacan, ne Il discorso del capitalista, sembra aver anticipato davvero anche la parabola dei partiti post-moderni tramite due dinamiche apparentemente opposte ma che in realtà convergono sullo stesso punto:

a) quella dell’emancipazione di un Es liquido,libero dalle mediazioni dell’essere sociale, che produce così un’espansione smisurata del soggetto in assenza di limiti esterni ideali, dove i legami con gli altri si riducono per questo motivo solo ad una proiezione feticistica di se stesso su quelli, tanto da fagocitarli;

b) oppure quella simmetrica e speculare di un Super-Ego solido, liberato anch’esso dall’essere sociale, che tuttavia stavolta si ritira radicalmente entro un’identificazione ideale del soggetto, recidendo gli agganci esterni con la prassi, dove pertanto i legami con gli altri si riducono in realtà ad una mera esibizione feticistica di se stesso al di fuori di essi, tanto da rimuoverli.

Jacques Lacan

Veniamo quindi adesso a considerare da vicino due esempi di area sovranista-costituzionale e neo-socialista che riproducono nella sostanza questi ritratti gemelli.

a) Partiti post-moderni privi di un ideale fuori di sé

            La prima impostazione corrisponde a quella del partito liquido che ha accentuato la componente kantiana del soggetto demiurgo. Per cui, una volta divenuto libero di fondare la propria legge, l’Io continua invece ad essere represso proprio in virtù del suo obbligo di godere contro ogni forma di legame e di disciplina esterna verso se stesso (Devo godere!). Fu Theodor Adorno (2000)[xix], per primo, a dimostrare che la conseguenza più evidente della Libertà dell’Es privo di mediazioni avesse generato l’opera letteraria del marchese De Sade, dove i suoi personaggi si macchiano di ogni genere di efferatezza sulla base di un proprio auto-governo che non doveva più tenere conto di nessun limite tranne quelli stabiliti razionalmente da loro medesimi. Così Juliette è la protagonista dell’omonimo romanzo che, seguendo fino in fondo questa logica interna priva di un ideale fuori di sé, porta a compimento, uno ad uno, tutti i vizi di cui sarà capace. Ma, esattamente per questo, rimarrà infine prigioniera all’interno di un eterno ritorno da lei non scelto. Sarà difatti il mercato ad imporle le sue regole, così che la donna rimbalzerà dalla casa di un protettore all’altro e, pur vivendo nello sfarzo, resterà sempre priva dell’opportunità di realizzare uno scopo eccetto quello di rimanere la cortigiana al servizio degli altri.  

Rientrano in questo tipo di clinica le patologie, tanto del tossico, quanto dell’alcolizzato, i cui rispettivi malati tendono a ripetere gli stessi atti nell’ambito di un circolo vizioso, spinti da un impulso irrefrenabile di piacere perverso nei confronti di una fedeltà ossessiva verso la libertà assoluta (Recalcati 2010)[xx]. Tossici e alcolizzati, privi di un vincolo che possa imporsi dall’esterno per interrompere il loro eccesso, si illudono infatti ogni volta di appagare il loro istinto insaziabile finendo invece per diventare succubi di quello stimolo. Oppure, ci rientra il caso del bulimico che distrugge il proprio corpo, mentre lo sottrae a qualsiasi costrizione, nell’idea angusta per cui il cibo sia in grado di offrirgli l’unica sensazione di piacere possibile. Si comportano allo stesso modo le masse spoliticizzate del XXI secolo, che hanno tramutato la loro condizione di lavoratori in quella di consumatori, quando antepongono la necessità di usufruire a tutti i costi di una merce, offerta loro dal mercato, a quella di lottare per esigere un diritto. Così come avviene nella metamorfosi dei cittadini in tifosi, quando si illudono di ottenere un cambiamento della politica lasciando però che siano sempre gli altri ad occuparsene al posto loro. È in questo modo che il potere nutre la folla mentre le dà in pasto uno scandalo sul quale lamentarsi piuttosto che domandarle un impegno attivo per la costruzione del progetto.

La politica in questo caso ambisce a spettacolarizzare se stessa e, piuttosto di realizzare un autentico incontro con le masse, le manipola mediante un discorso che sia il più traumatico e scioccante possibile alla stregua di un intrattenimento puro. Ebbene, gli attori di una tale comunicazione consumistica possono essere soltanto dei soggetti narcisisti che, invece di ascoltare l’alterità dei lavoratori, vi impongono il proprio discorso. È questa in fondo la parabola del passaggio, da una strategia di partito incentrata sulla corretta diffusione del progetto politico attraverso la consueta propaganda, a quella delle mere apparenze dettate dal marketing, che ha avuto come suo capo scuola il produttore televisivo Silvio Berlusconi, seguito dai proseliti come Grillo, Renzi e Salvini. In questo caso il leader politico, sebbene venga colto in un continuo sproloquio con il popolo, non lo fa mai per proporgli l’ideale fuori di sé ma soltanto l’immagine cosmetica di una merce priva di contenuto.

Appartiene sicuramente a questa scuola la figura del giornalista Gianluigi Paragone che, nell’attività quotidiana di sostituire lo spettacolo alla politica, finisce così per rimuovere il progetto del partito stesso. Difatti, la nomenclatura di Italexit stenta a penetrare i territori a causa della mancanza di un’organizzazione che rimane sempre disgregata sotto il peso del famoso showman, concentrato più che altro sulle sue performance piuttosto che sulla costruzione di una classe dirigente. Per cui, se da una parte, il popolo si avvicina ad Italexit proprio in quanto quest’ultimo riesce a godere della luce riflessa del leader, dall’altra, non lo fa rispetto ad un’ideale condiviso che prescinde dalla sua persona, quanto piuttosto a causa del tifo che viene rivolto verso la figura accattivante del personaggio televisivo. Di conseguenza, gli scandali giornalistici di Paragone diventano simili ad una droga come avveniva per il tossico, oppure al cibo per il bulimico, e riescono a placare la fame dei fan soltanto fino al prossimo scandalo mediatico, ma sempre a fronte della vuotezza del programma politico. Pertanto, il soggetto narcisista, slegato dall’ideale, si ingrandisce ma, proprio in conseguenza di ciò, le folle finiscono per seguire soltanto il leader, proprietario del partito, piuttosto che riconoscersi in uno scopo collettivo e perseguirlo.

b) Partiti post-moderni privi di un consenso fuori di sé

            La seconda impostazione invece, che si presenta apparentemente opposta a quella precedente, ma in realtà del tutto speculare, nasce a causa dell’identificazione solida del soggetto politico con il proprio dover essere ideale. Per cui l’Io stavolta si reprime a causa del suo obbligo di godere la tenace volontà di identificarsi con l’imperativo categorico (Devo ubbidire!). In questo caso, ci serviamo di Herbert Marcuse (2000)[xxi] per spiegare come l’evoluzione più naturale della Legge kantiana precipiti inevitabilmente nella categoria del Super-Ego separato dall’essere sociale. Secondo l’autore, l’utopia di un’emancipazione dal perbenismo vuoto che caratterizzava la Vienna di fine Ottocento, dove i desideri venivano risarciti parzialmente con le nevrosi, non si era affatto risolta in seguito alla rivoluzione dei costumi avutasi durante il boom economico. Si trattava anzi di un’illusione. Il desiderio, apparentemente liberato grazie alla concessione del consumo, era stato assorbito invece dall’industria del divertimento che, con regole codificate e strumentali, continuava viceversa a disciplinarlo. Diversamente da Freud, quindi, per Marcuse il capitalismo avanzato non aveva avuto più bisogno di pretendere dal soggetto una prestazione efficiente che gli veniva imposta tramite l’imperativo di una morale esterna. In maniera rovesciata e paradossale, ora la coercizione del mercato era stata introiettata direttamente dal soggetto che ne domandava il godimento mediante un comandamento etico proveniente da sé medesimo.

Quello che Marcuse però non fece in tempo a vedere è come l’evoluzione di tale fenomeno potesse degenerare successivamente in patologie nuove, tipiche dell’intrattenimento alienato iper-moderno, una volta giunti alle soglie del tardo capitalismo (Recalcati 2010)[xxii]. Rientra ad esempio in questa casistica il consumo digitale, secondo cui, di contro al rituale collettivo di una visione cinematografica, il soggetto libero preferisce tuttavia isolarsi per acquistare prodotti su Amazon e Netflix nell’ubbidienza ossessiva alla propria legge individuale. Oppure, quella del palestrato mentre compiace se stesso con la ferrea disciplina masochistica necessaria per creare un fisico scolpito che assolva ai suoi fini esibizionistici, utilizzando gli altri alla stregua di spettatori passivi utili soltanto ad ammirarlo. Viene poi, ancora, il caso speculare dell’anoressica che castra se stessa in modo altrettanto rigido ma, nel disperato tentativo di privarsi dei piaceri del corpo, non fa altro che ostentare con godimento la sua immagine sfigurata davanti agli occhi di un genitore assente e inaffettivo. Sono tutte figure sorelle della prassi solipsistica di un militante di partito che si limita alla cura autoerogena dei social, oppure a quella della conferenza, chiudendosi così ad ogni legame con il mondo del lavoro. 

Riconquistare l’Italia è il partito sovranista dal basso che appartiene a questa seconda categoria. Controparte di questo atteggiamento, simile a quello del consumatore digitale post-moderno, è difatti la strategia di una candidatura d’ufficio in vista del mero appuntamento elettorale, organizzato con lo scopo di esibire il soggetto politico come fa il negoziante per mezzo della merce pre-confezionata di cui dispone in vetrina. Durante il brevissimo lasso temporale ‘usa e getta’ della par-condicio, ci si illude di instaurare infatti un legame con la popolazione, che viene ridotta alla stregua di clienti, percepiti come meri spettatori-consumatori, cui è stato precluso il dialogo durante le altre fasi di vita dell’organizzazione. Così, l’auto-promozione alienata del soggetto politico, realizzata in assenza di qualsiasi forma di ascolto, oppure di una diffusione del progetto, verso i lavoratori, corrisponde, in ultima analisi, ad una forma identica, soltanto rovesciata, dell’iper-narcisismo di Paragone, che escludeva anch’esso la prassi egemonica come era stata tradizionalmente intesa.

Da notare come la ‘disciplina di partito’, osannata dal presidente Stefano D’Andrea (Appello al Popolo 2021)[xxiii], faccia parte di un’autentica prerogativa iscritta nella letteratura socialista. Solo che, rispetto al passato, viene adesso distorta in modo perverso. Ovvero, la costruzione del nell’ambito dell’organismo collettivonon serve più, come accadeva in Gramsci, a negare contemporaneamente l’egoità alienata del corpo militante affinché potesse evaderla per condividere il progetto politico all’esterno, grazie allo sforzo organizzativo del partito. Ma viene sigillata ora entro un’iper-identificazione ideale, realizzata mediante l’addestrato cinismo di una monade, avvitata su se stessa, nel godimento narcisistico di essere partito. Dunque, diversamente dall’Es liquido che informa Italexit con Paragone, che tramite il marketing celebra la figura del leader a discapito dell’ideale, stavolta è il Super-Ego solido dell’ideale che celebra il partito tramite il marketing a discapito dei legami con l’essere sociale. Proprio il popolo, del quale, ironia della sorte, il partito vorrebbe fare le veci, finisce difatti per essere considerato sempre nella sua condizione irriconoscibile e reificata,avulsa cioè da ogni forma di mediazione: ora come inutile e depresso consumatore, quindi incompatibile con il progetto; ora come utile spettatore che tuttavia, durante la campagna elettorale, dovrà assistere passivamente al progetto.

6. Conclusione. Il ritorno del rimosso contro le forme di rimozione del consumo

            Nell’epoca post-moderna, lo strapotere del soggetto, che si esprime nella disperata affermazione narcisistica di molteplici Io alienati, conduce verso quello che Freud aveva definito pulsione di morte (Toderstrieb) (Freud 2006)[xxiv]. Si tratta di una spinta auto-distruttiva che, se adeguata al nostro discorso, mostra di sabotare i vari tentativi di costruzione del partito moderno nazional-popolare a causa della riproduzione inconscia delle logiche di consumo come viene determinato dalle attuali leggi di mercato. Purtroppo, la castrazione simbolica, che aveva caratterizzato da sempre l’organizzazione politica otto-novecentesca è stata rimossa, dando luogo: o ad un eccesso di forme irrazionali populiste che si lanciano per mezzo di proiezioni feticistiche di sé verso l’esterno; oppure ad un eccesso di forme intellettualistiche che congelano l’azione entro un sé feticista a dispetto dell’esterno. La chiave per uscire da questa impasse non bisogna inventarsela ma si trova ovviamente nel vecchio concetto di egemonia così come emerge dai socialisti delle origini fino alla Prima Repubblica. Questi ultimi si servirono della filosofia della prassi per contrastare faticosamente gli ostacoli che impedivano la lotta e la diffusione delle loro idee grazie ad un saldo legame con l’essere sociale, e non certamente, come accade nella nostra epoca, tramite un’estetica nichilista che ne celebra la rimozione privata del lutto.

Proprio questo si evince, ad esempio, in un recente articolo di Simone Garilli (2021)[xxv], dal quale emerge la precisa volontà di mettere in mostra la purezza del partito rispetto alle contraddizioni reali dalle quali si percepisce la missione epocale di rimanerne scrupolosamente a distanza. Difatti, il discorso del capitalista non si limita a distruggere i legami sociali al suo esterno ma inghiotte anche la Storia, distorcendone la parabola, al proprio interno. E difatti l’immagine di una volontà soggettiva, che si proietta arbitrariamente sulla condizione dei nostri patrioti nel passato, durante il Ventennio, finisce per decontestualizzare quel periodo dalla cornice storica del socialismo nel suo insieme (Colorni 1962)[xxvi]. Non sembra chiaro infatti che la rivoluzione del 1943 sarebbe stata impensabile se non ci fosse stato quell’enorme sforzo di costruzione egemonica accumulato nei sessant’anni precedenti, ma di cui oggi, dopo quarant’anni di dominio liberale, non si può più disporre.

Fu infatti il risultato di quell’esperienza, culminata tra il Biennio rosso del 21-22 e l’ingresso al governo con il PSU (Partito Socialista Unitario) di Matteotti nel 1924, che potè essere tesaurizzata dai socialisti anche durante il periodo di clandestinità. E’ proprio perché i partiti popolari clandestini erano riusciti a capitalizzare quell’egemonia sulle masse che poterono mantenere anche in seguito dei legami così forti verso di esse, tanto da poterne diventare infine la guida durante la guerra civile (Togliatti 1962)[xxvii]. La Resistenza non fu infatti il risultato di quadri di partito rimasti isolati ma la conclusione del processo risorgimentale attraverso il quale si realizzò quell’incontro tanto agognato tra partiti socialisti e popolo che i partiti post-moderni non sono in grado di comprendere.


[i]             . Gramsci A. Il Risorgimento, in I quaderni dal carcere,  Roma: Editori Riuniti, 2000, cit. pg.146-147.

[ii]           . Jameson F. Il postmoderno o la logica del tardo capitalismo. Milano: Garzanti; 1989.

[iii]          . Pisano R. Il paradiso socialista. La propaganda socialista in Italia alla fine dell’Ottocento. Milano: Franco Angeli; 1985.

[iv]          . Gramsci A. Il Risorgimento.

[v]            . Ibid.

[vi]  Lenin, (a cura di) Giacché V., Economia della rivoluzione. Il Saggiatore: Milano; 2017.

[vii]         . Preve C., Antonio Gramsci e la filosofia della prassi. Torino: https://www.youtube.com/results?search_query=costanzo+preve+su+gramsci, in Youtube: 07.12.2012

[viii]         . Letteralmente, Gramsci interpreta la cosa in sé come un fenomeno concreto scientifico: “Pare difficile escludere che la ‘cosa in sé’ sia una derivazione esterna del così detto realismo greco-cristiano e ciò si vede anche dal fatto che tutta la tendenza del materialismo volgare e del positivismo ha dato luogo alla scuola neo-kantiana e neo-critica […] ”, tanto che, continua Gramsci, la cosa in sé potrebbe essere disvelata in futuro con adeguate conoscenze scientifiche. cit. pg. 49 e vedere pg. 50. Tuttavia, come appunto sostengono Preve, insieme ad altri critici, la sua visione della storia sociale corrisponde chiaramente a quella neo-idealista, esattamente come si ritrova ad esempio in Storia e coscienza di classe di Luckàcs. Per cui Gramsci scrive spesso passi come il seguente, dove l’idea della ‘storia dei rapporti di produzione e di classe’ sono come li intendeva, appunto, anche il filosofo ungherese: “Oggettivo significa sempre ‘umanamente oggettivo’. Ciò che può corrispondere esattamente a storicamente oggettivo, cioè oggettivo significherebbe ‘universale oggettivo’. L’uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario […]. Noi conosciamo la realtà solo in rapporto all’uomoe siccome l’uomo è divenire storico anche la conoscenza e la realtà sono un divenire, anche l’oggettività è un divenire, ecc.”, in Gramsci A., Il Materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, in I quaderni dal carcere. Roma: Editori Riuniti; 2000, cit. pg. 181-182 (grassetto mio).

[ix]  . Gramsci A., Il Risorgimento.

[x]            Hobsbwam E., Le rivoluzioni borghesi (1789-1848). Res Gestae: Milano; 2016.

[xi]           . Gramsci A., Il Risorgimento., cit. 89.

[xii]         . “Hegel rappresenta, nella storia del pensiero filosofico, una parte a sé, poiché, nel suo sistema […] si riesce a comprendere la realtà […], pertanto, la filosofia della prassi è una riforma e uno sviluppo dello hegelismo, (che) è una filosofia liberata […] da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico, è la coscienza piena delle contraddizioni, in cui lo stesso filosofo, inteso individualmente, o inteso come intero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni ma pone se stesso come elemento della contraddizione, eleva questo elemento a principio di conoscenza e quindi di azione. L’uomo in generale, comunque si presenti, viene negato, e tutti i concetti dogmaticamente unitari vengono dileggiati e distrutti in quanto espressione del concetto di uomo in generale o di natura umana immanente in ogni uomo”, in Gramsci A., Il Materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce. Cit. pg. 118-119 (grassetto mio).

[xiii]         . Id., Il Risorgimento., cit. 87.

[xiv] . Pisano R., Il paradiso socialista. La propaganda socialista in Italia alla fine dell’Ottocento.

[xv]         . Jameson F., Il postmoderno o la logica del tardo capitalismo.

[xvi]        LuckàcsG., Storia e coscienza di classe. Milano: Sugarco Edizioni; 1991, cit. pg. 198.

[xvii]        . Gramsci A., Il Risorgimento., cit.pg. 117.

[xviii]       . Il discorso del capitalista, in Recalcati M., L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica. Milano:Raffello Cortina Editore; 2010.

[xix] . Excursus II. Juliette, o illuminismo e morale, in Adorno T., Dialettica dell’Illuminismo. Roma: Biblioteca Einaudi; 2000.

[xx]  Recalcati M., L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica.

[xxi]        . La conquista della coscienza infelice: la desublimazione-repressiva, in Marcuse. H., L’uomo a una dimensione. Roma:BibliotecaEinaudi; 2000. Non è Marcuse ad utilizzare direttamente il paragone con Kant ma Freud che nei suoi scritti paragona super ego e imperativo categorico. Su questo filone, da leggere ad esempio il testo di Zupancic A., (a cura di) L.F. Clemente, Etica del reale, Kant, Lacan. Napoli: Othodes; 2012.

[xxii]        Recalcati M., L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica.

[xxiii]     . ”Il partito non è il luogo dove il singolo esprime la sua personalità, il partito è un luogo di crescita, nel quale si imparano contenuti, regole, ratio di regole, disciplina, fermezza, tenacia, si apprendono esperienze. Poi, al momento dei congressi, nelle forme dello statuto si dà un contributo volto a allargare la base programmatica o a modificare lo statuto o ad assumere una delibera strategica”, inAppello al Popolo, 16.04.2021, https://riconquistarelitalia.it/riconquistare-litalia-il-partito/.

[xxiv]      . Freud S., Al di là del principio del piacere. Torino: Bollati Boringhieri; 2006.

[xxv]        . Garilli S., Candidarci alle elezioni del 2023. Ad ogni epoca la sua rivoluzione, in Appello al popolo, 16.06.2021, https://appelloalpopolo.it/?p=65298.

[xxvi]       . La questione risulta imprecisa sul piano della ricostruzione filologica. Nel senso che i quadri di partito non si persero d’animo e cercarono egualmente di fare propaganda anche in modo clandestino con il mondo del sindacato, il volantinaggio presso i luoghi di lavoro, le riviste censurate che continuavano ad essere distribuite, ecc., anche prima del ’43. Per questo, vedi ad esempio: Colorni E., Intorno al manifesto del PcdI. La lotta all’interno del fascismo, in Merli S., Fronte antifascista e politica di classe. Socialisti e comunisti in Italia (1923-1939). Bari: De Donato editore; 1962. Ma il testo si cita qui più per spiegare la diversa attitudine di quel tipo di militanza rispetto a quella indifferente odierna, piuttosto che per l’effettiva efficacia di un disperato tentativo di proseguire la propaganda in un contesto che ovviamente lo impediva. Tuttavia, c’è un punto differente anche di tipo pragmatico. E cioè che, rispetto ad oggi, le manifestazioni spontanee dei partigiani e degli scioperi di fabbrica scatenatesi nel ’43 furono prontamente intercettate dai partiti popolari, i quali si impegnarono tempestivamente ad interagire con tali gruppi mediante partecipazioni dirette e concrete, anche in virtù del fatto che questi ultimi erano in possesso di una lunga tradizione della prassi che aveva già insegnato loro come farlo.

[xxvii]      . “La iniziativa spetta infatti, nella Resistenza, a quelle forze popolari che durante il Risorgimento erano state ridotte a una funzione subalterna e talora persino battute, allo scopo di escluderle dalla direzione politica. Sono in prima linea, quindi, non le classi borghesi, inerti quasi sempre, quando non identificate col fascismo e con l’invasore straniero, ma gli operai, i contadini, il ceto medio lavoratore. Alla loro testa i comunisti, i socialisti, democratici radicali e cattolici d’avanguardia. È un blocco storico del tutto nuovo, che sancisce la vittoria sul fascismo, conquista una Costituzione repubblicana e democratica avanzata e apre la prospettiva di nuovi sviluppi progressivi. La Resistenza quindi, per questi aspetti politicamente e socialmente decisivi, non ha continuato, ma corretto il Risorgimento” cit. in Togliatti P., Il Risorgimento e noi. Torino: ciclo di lezioni, febbraio-aprile,1962.