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Costituzione Storia

22 Dicembre 1947: l’approvazione della Costituzione

Articolo scritto da Valerio Macagnone, segretario ESC (2020-2021)

Il 22 Dicembre 1947 veniva approvata la Costituzione della repubblica italiana e si apriva così il trentennio glorioso, i trent’anni della ricostruzione di un Paese che aveva preso una decisione netta e inequivocabile rispetto al passato: serviva un taglio netto rispetto alle tendenze totalitarie ma soprattutto serviva un’”economia nuova”, come disse il comunista e costituente Renzo Laconi, in cui, a dispetto della concezione negativa dello Stato nel corso dell’età liberale, si assegnasse un ruolo attivo nello Stato nella riduzione delle disuguaglianze e nella difesa dell’individuo come centro di rapporti sociali.

Il primato assegnato alla dignità dell’individuo e alla centralità del lavoro, dunque, si accompagnano a una concezione dello Stato diversa sia dal Fascismo, in cui il fine dell’uomo è riassunto nell’espressione “Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”, una concezione finalistica che implica un’organizzazione totalitaria della vita collettiva in cui in cui la libertà e i fini della persona umana derivano dallo Stato stesso, e sia dal Liberalismo dove la contrapposizione tra Stato e individuo porta una delimitazione delle funzioni statali in modo da annularne le finalità sociali e redistributive (Stato minimo).

La continuità ideologica del momento resistenziale con la nascita della Costituzione si evince soprattutto da questo: la volontà di superamento tanto del modello di collettività elitario prefascista previsto dallo Statuto Albertino, quanto del modello totalitario.

Oggi ricorre un momento di memoria necessario: la rievocazione di un modello, quello costituzionale, dove il sodalizio tra le posizioni cattoliche-dossettiane e le posizioni social-comuniste, aveva realizzato una idea di Stato sociale che, sebbene non enunciato formalmente dalle norme costituzionali, emergeva sostanzialmente dalle norme che disciplinano i rapporti economici e dalle sedute dell’assemblea costituente. In tale contesto fu proprio Giuseppe Dossetti a dettare la linea di questa nuova forma di Stato quando affermava “la precedenza sostanziale della persona umana (intesa nella completezza dei suoi valori e dei suoi bisogni non solo materiali ma anche spirituali) rispetto allo Stato e la destinazione di questo al servizio di quella”.

Rivendicare la portata progressiva e democratica della Costituzione significa soprattutto questo: trascendere gli aspetti formali della democrazia e risaltarne gli aspetti sostanziali di conquista sociale in termini di difesa del lavoro e delle rivendicazioni delle classi popolari.

Esiste un’eredità culturale che ha donato benessere, libertà e pace. Un patrimonio di valore universale che aspetta soltanto di essere colto e portato a nuova vita.

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Economia

Se il Governo cerca soldi, non ha che da guardarsi allo specchio

Articolo scritto da Giuseppe Matranga, socio fondatore ESC e Coordinatore gruppo di lavoro Economia

Ci sono oltre 60 mld di “soldi freschi” e il governo non li usa.

Meno 10% ė la perdita di PIL italiano nel solo 2020, chiunque millanti un rimbalzo nel prossimo anno è un illuso o un mentitore, il rapporto debito pubblico su PIL cresce a circa il 160%, ovvero quasi 30 punti percentuali in un solo anno. Niente di buono tra queste prime poche righe.

Tra fine marzo e aprile c’erano già alcuni sognatori come me (si fa per dire), che auspicavano a gran voce una forte esposizione dello Stato affinché intervenisse prontamente con una immissione positiva di denaro pubblico, in modo da sostenere la perdita di investimenti e consumi tramite la spesa pubblica, imploravamo una grande emissione di titoli sostenendo peraltro che il sopracitato rapporto debito/pil sarebbe cresciuto in egual misura sia per effetto della diminuzione del denominatore della frazione , sia per effetto di crescita del numeratore.

In grave ritardo, dopo mesi, a poco a poco, il governo è intervenuto attraverso i vari “scostamenti”, ovvero l’autorizzazione ad aumenti di deficit via via più consistenti, grazie anche alla sospensione momentanea di tutti i parametri imposti da Maastricht,  dal Fiscal compact e da un cambio drastico sulla linea di governance della BCE, che tanto graziosamente, dopo anni di austerità anti-inflazione (in realtà veniamo da anni di deflazione ) ha iniziato a fare il normale lavoro di una banca centrale.

Mentre il confronto politico tra forze di governo e di opposizione si concentrava tra banchi a rotelle, monopattino e altre idiozie, molti dei sognatori come me però, nel corso di questi ultimi mesi, si arrovellavano su una questione tanto accademica quanto pratica, i conti aggregati non ci quadravano, e i nostri convincimenti basati su solide conoscenze letterarie – ci riferiamo a letteratura strettamente economica – non era chiaro come mai all’interno di una somma elementare, quella del calcolo aggregato del PIL non si verificasse la “proprietà dissociativa”, sostituendo con la spesa pubblica il valore perso dai consumi e investimenti il saldo restava comunque negativo.

Ci sono voluti alcuni mesi affinché ci fosse risposta al nostro quesito e la risposta e tutta qui:

I soldi c’erano ma non sono stati spesi e immessi nel mercato

Viene fuori che dei circa 110 miliardi di euro raccolti tramite l’emissione di nuovi titoli, più della metà sono ancora ben saldamente fermi all’interno del conto cassa del Tesoro.

Come se non bastasse,  la presa in giro aumenta quando sai che fino a cinque giorni fa il parlamento ha votato quasi all’unanimità un ulteriore scostamento di 8 miliardi, e contestualmente invece viene pubblicata una nota del Ministero Economia e Finanze in cui si comunica che “in considerazione dell’ampia disponibilità di cassa e delle ridotte esigenze di finanziamento … alcune aste di titoli fissate per il mese di Dicembre sono sospese, in particolare quelle dei BTP a 10 anni, invece si terranno quelle di titoli con scadenza a più breve termine come 3-7 anni e BOT”.

*In allegato il comunicato del Ministero Economia e Finanze

Che dire, sembra quasi che con la mano destra il governo abbia proteso la mano all’elemosina della BCE e dei mercati, e con l’altra abbia ben nascosto queste enormi somme per non spenderle in favore della propria economia e dei cittadini, tutto ciò per ben sette mesi, ora con la cintola sciolta per far spazio a una pancia ben piena ritira persino la mano che elemosinava, dichiarando di avere le tasche piene.

Più volte ci siamo chiesti se i continui errori in campo economico posti in essere da questo governo fossero frutto di ignoranza e incapacità o se invece fossero frutto di dolo e di una espressa volontà,  ancora una volta non abbiamo risposte certe a questo quesito però possiamo fare delle brevi quanto chiare considerazioni: quando in origine era chiaro che ci fosse bisogno di ingenti somme di denaro, essi dichiaravano con non era affatto così,  quando poi si decisero a recuperarle una buona parte è stata sperperata in provvedimenti inutili e forse anche dannosi, un’altra ancor più grande non è neppure stata spesa, per finire con una chicca

tecnica, adesso che i tassi d’interesse sono ai minimi storici si preferisce emettere titoli a breve termine, più volatili per chiare caratteristiche temporali e si evitano quelli a lunga scadenza che garantirebbero lunghi anni di maggiore solidità.

Chiudiamo facendo cenno ad un’ultima quanto breve considerazione: in un momento in cui migliaia di aziende abbassano inesorabilmente la saracinesca o portano i libri in tribunale, la disoccupazione aumenta a ritmi vertiginosi, la povertà e la fame stringono le spira catturando sempre più larghe fette di popolazione,  ci sono più di 60 miliardi di euro fermi nelle casse dello Stato ma sembra che tutto il nostro futuro sia legato ai fantomatici spiccioli europei del “Recovery Fund”/ “Recovery Plan” / “ Next Generation UE” o come diavolo si chiama che conta tutt’ al più in 29 miliardi l’anno.

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Costituzione

Riders: sentenza storica a Palermo

Articolo scritto da Valerio Macagnone, segretario ESC (2020-2021)

L’universo della “gig economy”, ovvero dell’economia dei lavoretti, ci offre un’adeguata rappresentazione della situazione in cui versa il mercato del lavoro italiano, sempre più caratterizzato da sacche di lavoro precario e sottopagato, e sempre più invischiato in una spirale deflazionistica al quale non corrisponde un’adeguata offerta politica in grado di costruire un’articolazione programmatica a tutela dei lavoratori, e a cui i sindacati, salvo rare eccezioni, non sanno reagire con i mezzi di difesa più opportuni.

Un esempio eclatante di “gig economy” su cui si sono sollevati interessanti contrasti giurisprudenziali in ordine alla qualificazione giuridica del rapporto di lavoro, è quello dei riders, ovvero dei fattorini che mediante mezzi di locomozione, come biciclette e motorini, si occupano di svolgere l’attività di consegna a domicilio dei prodotti offerti dagli esercizi commerciali attraverso un sistema che suddivide l’attività lavorativa in tre fasi (ritiro, tragitto e consegna), ognuna delle quali è procedimentalizzata seguendo dei comportamenti determinati dall’azienda food delivery.

Tale sistema prevede l’uso di parametri di valutazione dell’attività lavorativa del rider basato sugli algoritmi della piattaforma digitale utilizzata dalla società datoriale. In particolare, è previsto che i riders siano valutati sulla base di un “punteggio di eccellenza” che incide sulle scelte delle fasce orarie (“slot”) da parte del lavoratore il quale potrà avere accesso prioritariamente alle sessioni lavorative degli orari migliori in ragione di un maggiore punteggio. Ai fini della determinazione del punteggio l’efficienza incide nella misura del 35%, l’attività in ”alta domanda” nella misura del 35%, il feedback dell’utente nella misura del 15%, l’esperienza nella misura del 10% e infine il feedback dei partner nella misura del 5%. Chiaramente ci sono anche i parametri che concernono la valutazione negativa come nel caso di riscontro al ribasso degli ordini in “alta domanda” o di giudizio negativo da parte dei consumatori.

Inoltre i riders vengono assunti con contratti di lavoro autonomo, sono soggetti a basso reddito e le loro prestazioni di lavoro seguono dei meccanismi ripetitivi che li porta a incrementare la quantità delle loro prestazioni per ottenere un miglior giudizio di produttività ed accedere a fasce di orario migliori. Un meccanismo assillante di competizione al ribasso che ricorda molto quanto ci diceva Gaber in uno dei suoi brani:

“Questo ingranaggio così assurdo e complicato/ così perfetto e

travolgente/ quest’ingranaggio fatto di ruote misteriose/ così spietato e massacrante/quest’ingranaggio come un mostro sempre in moto/

che macina le cose che macina la gente”.

Dopo la recente presa di posizione da parte della Suprema Corte Tedesca che ha esteso la disciplina del lavoro subordinato ai riders della multinazionale “Foodora”, la giurisprudenza italiana ha segnato un passo in avanti nel percorso interpretativo riguardante il rapporto di lavoro tra le aziende di food delivery e i fattorini: il Tribunale di Palermo in una recente pronuncia (sezione lavorosentenza 20 novembre 2020n3570),dove il lavoratore ricorrente, in sede di impugnazione del licenziamento chiedeva una diversa qualificazione del rapporto di lavoro, ha statuito che in relazione alle concrete modalità di prestazione dell’attività lavorativa, emerge chiaramente che il lavoro svolto dal rider è da considerarsi fittiziamente autonomo, dal momento che l’organizzazione e la gestione produttiva è unicamente effettuata dalla parte datoriale nell’interesse esclusivo dell’azienda: risulta decisivo, alla luce di quanto esposto dal giudice di primo grado, il fatto che, è proprio la piattaforma, sulla scorta dell’algoritmo, a determinare le assegnazioni delle consegne in modo del tutto indipendente dalla volontà del lavoratore, e sulla base della geolocalizzazione del rider che, per poter essere selezionato, dovrà trovarsi nei pressi dei luoghi di ritiro della merce. Inoltre, in base a suddetto orientamento giurisprudenziale, poiché il punteggio può subire delle riduzioni nelle ipotesi di rifiuto di turni lavorativi, l’eventuale riduzione può essere annoverata come una sanzione atipica che sottoporrebbe il rider al potere latamente disciplinare del datore di lavoro. Alla luce di ciò e sulla scorta del carattere continuativo del rapporto di lavoro e dell’intento punitivo col quale la società ha disposto disattivazione dell’account in seguito alle rivendicazioni sindacali da parte del lavoratore riguardanti precedenti blocchi dell’account e la mancata fornitura dei DPI (dispositivi di protezione individuale), il giudice, ha riconosciuto la presenza del vincolo di subordinazione ai sensi dell’art. 2094 c.c., e ha stabilito l’inefficacia del licenziamento essendo del tutto assimilabile a un licenziamento orale, condannando la società alla reintegrazione del rider e al pagamento delle differenze retributive.

Una pronuncia che permetta al lavoratore di tornare al lavoro a tempo pieno e indeterminato e con il riconoscimento della retribuzione prevista per la mansione di ciclofattorino di cui al VI livello del CCLN Terziario.

Una sentenza, dunque, che può essere un apripista interessante per un settore segnato dalla precarietà esistenziale, ma che ci offre la cifra di come la digitalizzazione del lavoro possa avere effetti alienanti per i lavoratori e per una società che ha bisogno di un urgente recupero del principio lavorista della nostra Costituzione.

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Costituzione

IL MODELLO NEOLIBERISTA: OLIGOPOLIZZARE IL PRIVATO E PRIVATIZZARE IL PUBBLICO

Articolo scritto da Giuseppe Matranga, socio fondatore di ESC e coordinatore del gruppo tematico Economia

“A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca” era solito dire una vecchia volpe democristiana come Giulio Andreotti. Noi siamo qui per pensar male, raccogliere gli indizi e supporre nefandezze, commettiamo peccato, ma spesso ci azzecchiamo. Se due indizi fanno un sospetto e tre fanno una prova, qui stiamo proprio a esagerare, perché essi sono infiniti e reiterati nel tempo e portano tutti alla medesima conclusione: “Oligopolizzare il privato e privatizzare il pubblico”, questa sembra la linea guida di fondo della nostra classe dirigente a tutti i livelli e da qualsiasi schieramento di appartenenza. I recenti avvenimenti susseguitisi negli ultimi mesi, ovvero dalla scoppio della crisi da coronavirus, hanno comportato forti modifiche e mutazioni, veri e propri shock alla nostra economia nazionale, che ha visto paralizzati per lunghe settimane interi comparti industriali e commerciali; il processo ahinoi è ancora in corso e non fa presagire alcun ottimismo nella ristabilizzazione delle normali condizioni di mercato. Non essendo di nostra competenza la materia virologica, epidemiologica e scientifica in questi ambiti, non ci pronunceremo sulla valutazione della esigenza e sulla necessarietà di tali misure ma ci limitiamo a commentarne gli effetti.

Il lockdown, nelle sue varie forme e misure, ha prodotto e continua a produrre forti shock simmetrici (sia dal lato dell’offerta che della domanda), causando gravi problemi economici e finanziari per svariate categorie d’impresa e lanciando l’intero paese in una profonda recessione economica ad oggi stimata in un intorno di -10% PIL annuo rispetto al 2019. Le misure intraprese dal governo nel corso degli scorsi mesi, in origine minimizzando ottusamente l’entità del problema e successivamente attraverso la cattiva gestione dell’ingente quantità di fondi reperiti nei mercati finanziari, ha di fatto solo minimamente ammortizzato l’effetto del lockdown, portando specialmente a soffrire tutto il segmento della piccola e media impresa, ovvero quella fascia composta dalla singola partita iva (il cosiddetto imprenditore di se stesso), fino a tutte le attività che coinvolgono meno di 250 occupati; a tal proposito ci duole ricordare che l’Italia è per eccellenza, e tutta la letteratura lo conferma, il paese maggiormente caratterizzato dalla frammentazione aziendale tra tutti i paesi sviluppati. Volendo fare cenno più nel dettaglio l’entità di tale frammentazione possiamo menzionare alcuni dati: – il valore aggiunto del comparto PMI (piccole e medie imprese) contribuisce per il 12,5 del PIL;- le microimprese (meno di 10 addetti) contribuiscono per il 30,4 % della produzione di valore complessiva;- le piccole e medie imprese contribuiscono per il 38,7% della produzione,- le grandi imprese (più di 250 dipendenti o più di 50 mln di euro di fatturato) producono solo il 30,9% del valore aggiunto totale.*rapporto Cerved 2018

A totale differenza della realtà italiana negli altri paesi economicamente sviluppati, con cui ha senso confrontarci, le proporzioni sono del tutto inverse in favore delle grandi aziende, che coinvolgono la grande maggioranza della popolazione attiva, suddividendola principalmente in macro-classi composte da impiegati ed operai che si contrappongono nettamente per dimensioni a quelle dei liberi professionisti e degli imprenditori. L’oligopolizzazione del mercato può facilmente definirsi come il processo di assottigliamento e distruzione del substrato composto dalle piccole aziende, tra le quali vanno intese anche la panetteria, la piccola bottega o il negozio di abbigliamento, le stesse che hanno permesso al nostro paese di svilupparsi nei decenni passati, nonché quelle che coinvolgono la maggioranza dei lavoratori italiani.

Annientando una larga fetta di piccole imprese si genererà una forte e diffusa disoccupazione, già prevista dagli istituti di statistica tra 2,8 e 4 milioni nell’arco dei prossimi mesi , ovvero all’incirca un raddoppio della quota di disoccupazione pre-covid19; ciò nell’arco del breve e medio periodo produrrà un aumento dell’emigrazione in uscita, coinvolgendo specialmente le fasce più specializzate della popolazione (fuga dei cervelli), inoltre abbasserà notevolmente il potere contrattuale dei lavoratori rendendoli più propensi e disponibili ad accettare offerte sottoretribuite sul piano economico e perciò accelerando il già in corso fenomeno della “diminuzione del saggio di salario”; come se non bastasse il problema interno, le attuali politiche sull’immigrazione non fanno altro che sollecitare ancor più l’ingresso di potenziale manodopera a basso costo, indi premere maggiormente su una ferita già aperta come quella del mercato del lavoro.

Se non vuol credersi alla versione delle strane coincidenze difficilmente prevedibili, balza all’occhio l’idea che tale processo possa essere un vero e proprio obiettivo da parte della nostra classe dirigente, obiettivo descrivibile in pochi semplici passaggi, uno conseguente all’altro: tra i prossimi mesi e i prossimi due anni si genererà un “deserto economico” fatti di milioni di disoccupati, saracinesche abbassate, edifici abbandonati; ciò comporterà la deflazione salariale, l’abbassamento del valore immobiliare degli edifici residenziali ma anche di quelli industriali, a cui si aggiungono quelli dei grandi uffici largamente abbandonati a seguito dell’implementazione dello smart working, il nostro Paese si renderà perciò facilmente depredabile da parte di grandi investitori internazionali, gruppi finanziari che avranno l’opportunità di acquisire i nostri asset strategici a basso costo.

Se vi sembra uno scenario pessimistico, sappiate che tale processo era già in corso da prima in Italia seppur a velocità meno sostenuta, e se volete invece un esempio drastico di una realtà a noi vicina e amica eccovi presentata “la Grecia” , che forse sarebbe il caso di appellare nuovamente Magna Grecia, non tanto per la sua grandezza quanto per il fatto che, proprio come la Grecia, “ se la sono magnata nel giro di pochi mesi”.

Privatizzazione del Pubblico significa andare ad estraniare il ruolo dello Stato quale fornitore di servizi pubblici in favore di aziende private, il tutto in virtù di una becera quanto falsa narrativa liberista quale quella che “ il libero mercato favorisce la concorrenza e perciò va a vantaggio dei consumatori”. Vi siete mai posti la questione di quanto ciò potesse essere vero? Come è possibile che le forniture energetiche siano sempre costantemente rincarate nonostante la loro liberalizzazione, non ha funzionato la concorrenza nonostante ci siano ormai svariate aziende fornitrici?

Forse poche volte in merito si considera che proprio riguardo all’energia, qualsiasi sia il nostro fornitore di energia, il cavo elettrico che essa porta nelle nostre case è sempre e solo uno, così come tutta la rete dalla quale essa viene trasportata, ma come se non bastasse, vi siete chiesti chi ha costruito tale rete elettrica? Non sarà forse stata l’Enel grazie a ingenti investimenti pubblici nel corso di svariati decenni?

È così che stiamo definendo i cosiddetti monopoli naturali, categoria alla quale possiamo aggiungere la rete stradale e autostradale, quella ferroviaria, la rete idrica e del gas, internet e altri svariati esempi. Viene meno così la logica di Stato quale prestatore di servizi, che può chiederci un contributo monetario sotto forma di recupero dei costi sostenuti per l’erogazione, e viene sostituita da quella che prevede il dispensamento di remunerazioni e perciò di guadagni tra aziende private le quali approfittano di infrastrutture pubbliche e non garantiscono neppure una fornitura egualitaria tra i cittadini, che divengono così esclusivamente consumatori/clienti.

Per decenni tali processi sono stati portati avanti da ideologi di stampo liberale a cominciare dall’economista austriaco Friedrich von Hayek, passando poi a una versione più moderna quale quella della cosiddetta scuola di Boston che istituisce di fatto il pensiero neoliberista. Tali ideologie sembra vengano accolte tout Court indistintamente da tutti gli schieramenti politici italiani e conseguentemente dall’intera classe dirigente senza che alcuna alternativa venga presa in considerazione, e così nonostante esso sia un paradosso da destra a sinistra si parla di “rivoluzione liberale”.Dimostrazioni di tali processi sono ormai annosi e cominciano sin dalla privatizzazione del settore bancario, dalla privatizzazione dell’ENI, la dismissione dell’IRI, la privatizzazione della compagnia telefonica, delle autostrade, etc., resta ancora da chiarire quali siano stati i vantaggi finora apportati, o forse la domanda andrebbe posta diversamente e dovremmo bensì chiederci “a chi abbia portato vantaggi”.Problemi analoghi si verificano quando alcune di tali aziende monopolistiche o oligopolistiche presentino dei problemi finanziari, e sia lo Stato, in questo caso in veste paternalistica, ad elargire fondi di danaro pubblico per risollevarne le sorti, andando a fomentare quel pensiero controcorrente che si riassume in “privatizzare gli utili e socializzare le perdite”.Sembra che si vada sempre più verso un proseguo accelerato di tale percorso privatistico, in settori fondamentali quali la sanità, l’istruzione, i beni demaniali, i siti monumentali e i beni artistici.Tutti gli avvenimenti sopramenzionati, nonché quelli ipotizzati e non ancora del tutto verificatisi in Italia, ci riportano anch’essi alle vicende della vicina magna grecia: in merito, basta poco per scoprire quanto nel paese ellenico, il luogo in cui nacque la nostra civiltà, nonché la democrazia, a seguito della crisi finanziaria – indotta a nostro parere – siano stati ceduti a multinazionali private gran parte del patrimonio artistico, degli assets strategici quali porti e aeroporti, intere spiagge; molti servizi pubblici essenziali siano divenuti in gran parte a gestione privata, quali l’università, l’acqua, la sanità; i prezzi di tali servizi siano lievitati notevolmente e di contro si siano assottigliati grandemente gli stipendi e le pensioni, oltre a questo, resta da sottolineare l’emigrazione di circa 500.000 abitanti, pari al 4% dell’intera popolazione ellenica di cui la metà giovani laureati, negli anni successivi alla crisi finanziaria. Un film purtroppo già visto.Ci aspettiamo adesso nel prossimo futuro una prosecuzione accelerativa di tali processi autodistruttivi, contornata da una narrativa a reti unificate che descrive lo Stato come un ente sempre più indebitato, corrotto, sprecone, spendaccione, incapace di allocare correttamente le risorse, al fine di giustificarne la totale dismissione e la successiva trasformazione del suo popolo in meri consumatori inerti/operai sottopagati simil-servi.Di fatto sta per restaurarsi una sorta di rivisitato ancien regime in stile finanziario, in cui non saranno i nobili ad ergersi al di sopra della società bensì una classe di borghesi miliardari, rentiers, uomini di potere che conteranno diritti di gran lunga superiori alla gente comune; una realtà in cui tutti saranno egualmente diseguali dai pochi che reggono le fila del gioco, ma non saranno minimamente in gradi di giudicarne ne i protagonisti ne le azioni.“per la libertà e affinché siamo popolo pensante e non gregge inerme”

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Geopolitica

Il caso dei 18 pescatori italiani prigionieri in Libia

Articolo scritto il 27 novembre 2020, da Vincenzo Randazzo e Andrea Casabona, soci fondatori ESC

88. È il numero dei giorni dal quale sono detenuti in Libia i diciotto pescatori italiani che, giorno 1 settembre 2020, sono stati fermati in acque libiche dalla Marina del generale Haftar durante una battuta di pesca. Stando alla versione del governo di Bengasi, i pescatori italiani sarebbero sconfinati in acque libiche. Va ricordate che la Libia ha rivendicato in passato una zona di pesca di 62 miglia, a differenza dell’Italia, che non ha dichiarato una vera e propria zona di pesca ma con una legge del 2006 ha previsto l’istituzione di zone di protezione ecologica. Tale spartizione fu confermata da un accordo fra il governo italiano ed il governo libico nel 2008 ma non venne mai ufficializzata da accordi comunitari. Il nodo principale resta quindi la pesca, a parte la delimitazione della piattaforma continentale, compreso il punto dove si incontrano le piattaforme di Italia, Libia e Malta, che la Corte internazionale di giustizia, nella sentenza del 1985, ha lasciato indeterminato. Tornando al sequestro del peschereccio, a parte le vacue rassicurazioni del governo alle famiglie dei prigionieri, le istituzioni italiane hanno dimostrato il loro totale immobilismo e la loro irrilevanza geopolitica. Le ragioni di tale stasi sono ascrivibili alla perdita del ruolo chiave che l’Italia aveva svolto in Libia sino al 2011, anno in cui con un vile golpe USA e Francia destituirono e uccisero il colonnello Gheddafi. Da quel momento in poi, i governi italiani che si sono avvicendati nel corso di questi anni (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni e Conte) hanno seguito la via di una sterile alleanza con l’anello debole della catena, Fayez Al-Serraj, capo del governo riconosciuto di Tobruk. Nel frattempo, dunque, si è lasciato che Francia e Turchia divenissero protagoniste sulla scena libica dopo aver stretto una alleanza con chi esercita maggior controllo nel paese nordafricano, ovvero il generale Khalifa Haftar, che presiede il governo non riconosciuto di Bengasi. Allo stato attuale, dunque, risulta assai complesso per le autorità italiane agire per la liberazione dei propri cittadini in mancanza di accordi chiari e strategici con quest’ultimo. Nel corso della storia repubblicana, la diplomazia italiana si è resa protagonista di successi geopolitici all’interno dell’area nordafricana (nonostante il nostro paese fosse stretto nelle morse del patto atlantico). Questa classe dirigente ha mortificato anche quei pochi ma importanti risultati e ad oggi si dimostra totalmente incapace di tutelare diciotto cittadini, la cui unica colpa era quella di svolgere il proprio lavoro. Nell’ambito del recupero della nostra sovranità nazionale, riteniamo come ESC, che sia necessario prendere a modello le azioni di statisti quali Mattei, Moro e Craxi, superando l’irrilevanza cui ci ha condannato l’UE anche in materia di politica estera. Vale la pena ricordare in conclusione che grazie alla strategia geopolitica di Enrico Mattei nel 1957 furono installate le piattaforme energetiche dell’ENI in Libia e venne battuta sul tempo la concorrenza angloamericana. L’Italia, inoltre, concluse un importantissimo accordo commerciale in ambito petrolifero con l’URRS sotto la sua presidenza dell’ENI. Insomma questa strategia ad ampio raggio mirava ad una indipendenza energetica che, dapprima fu sabotata dalla NATO, e poi definitivamente accantonata dall’avvento dell’Unione Europea.
Ora l’insostenibile leggerezza geopolitica dell’Italia costa la libertà a 18 concittadini: a loro e alle loro famiglia va la nostra solidarietà, auspicando che la diplomazia italiana possa attivarsi efficacemente, garantendo un loro immediato rientro a casa.

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Economia

37 miliardi di tagli alla sanità: non siamo stati noi

Articolo scritto il 22 novembre 2020, da Vincenzo Randazzo e Andrea Casabona, soci fondatori ESC

“Tutti dobbiamo fare dei sacrifici”, “Siamo in emergenza sanitaria”. Questi sono solo due esempi delle frasi che il popolo italiano si sente ripetere quotidianamente a reti unificate da mesi. Sì, un nuovo virus è entrato nelle nostre vite e ci ha colti impreparati. Anche se, evidentemente, la colpa non è nostra. Non siamo stati noi italiani a tagliare 37 miliardi di euro alla sanità pubblica negli ultimi 10 anni in nome del “Ce lo chiede l’Europa” e “Ce lo impone lo spread”.

I tagli alla sanità operati dai governi in carica dal 2012 al 2019.

Non siamo stati noi a dire, il 27 gennaio 2020, in un’intervista, che eravamo pronti all’eventuale arrivo del Coronavirus in Italia.

Non siamo stati noi, dopo la “prima ondata”, quando la situazione era più gestibile e non si registravano affollamenti negli ospedali (5 mesi di tempo), a stare con le mani in mano ed elargire bonus monopattino e bonus vacanza, invece di attuare un serio piano di potenziamento della sanità pubblica, dalla rete ospedaliera, assumendo nuovo personale sanitario e ampliando i posti letto nelle terapie intensive e nei reparti ordinari, ai servizi di medicina territoriale.

A quanto pare, però, siamo stati noi. A detta del Governo e dei suoi lacchè, la colpa del nuovo aumento dei casi è solamente ascrivibile all’irresponsabilità dei cittadini, quegli stessi cittadini che, dopo quasi tre mesi di reclusione forzata in casa, naturalmente avevano voglia di tornare a vivere, di tornare alle millenarie abitudini umane, quelle per cui ci è stata affibbiata la definizione di “animali sociali”.

Quello stesso governo che, proprio lunedì scorso, ha reso disponibile un altro bonus: quello per l’acquisto di nuovi pc.

Tutto ciò farebbe ridere se non facesse piangere.

Tuttavia non basta. Continuano le minacce di una nuova chiusura totale del Paese, giusto per dare il colpo di grazia al tessuto socio-economico italiano, e la caccia agli “untori”, ai “colpevoli” di voler essere umani.

È evidente che la colpa non è nostra, almeno non questa. L’unica colpa, probabilmente, è aver permesso a certi individui di andare al governo e prendere decisioni di tale importanza per il Paese.

Una cosa, però, la vogliamo dire.

Non siete Stato voi, che chiudete in casa i vostri concittadini innocenti a causa della vostra incompetenza.

Non siete Stato voi, che permettete che i vostri figli si tolgano la vita perché non siete in grado di garantire loro il giusto sostegno.

Non siete Stato voi, che cancellate tutte le libertà raccontando di voler tutelare il diritto alla salute, di cui, negli ultimi anni, quando chiudevate reparti o interi ospedali su tutto il territorio nazionale e annunciavate che si poteva tagliare ancora in nome della “spending review”, non vi è mai importato nulla.

A ciò si aggiunga poi il fatto che, mai come in questo periodo, in cui l’emergenza sanitaria sta aggravando ulteriormente la situazione economica del Paese, l’Unione Europea ha mostrato la sua natura matrigna. A parte l’elemosina (si fa per dire, sono sempre prestiti) del SURE, la più volte offerta mela avvelenata del MES e il tanto paventato Recovery Fund, che non si sa se e quando arriverà, nient’altro. Su gentile concessione, ci è stato permesso di sforare il vincolo del 3% del rapporto deficit/PIL, aumentando così il nostro debito pubblico ulteriormente.

Un incremento di debito che la BCE, finalmente facendo davvero la banca centrale, sta monetizzando procedendo all’acquisto dei nostri titoli di Stato. Purtroppo, però, questo non accadrà per molto e, come abbiamo visto in passato, alla fine dell’emergenza torneranno a chiederci di tagliare, tagliare e tagliare e a dirci che il debito non può essere monetizzato.

Le ultime dichiarazioni del 19 novembre di Christine Lagarde (“La BCE non può finire in bancarotta né rimanere senza denaro. In qualità di unico emittente di euro, l’Eurosistema sarà sempre in grado di generare liquidità supplementare”) non lasciano più spazio a dubbi sul fatto che questa sia solo una scelta politica, figlia dell’ideologia neoliberista alla base dell’Unione Europea.

Un Governo che non fosse diretta espressione di questa ideologia e che avesse veramente a cuore l’interesse nazionale e la tutela della salute pubblica, dovrebbe immediatamente rompere i vincoli della gabbia europea, destinando ingenti risorse alla sanità e ai settori colpiti dai provvedimenti restrittivi. Solo così il Paese potrebbe tornare a respirare. Solo così si rispetterebbero davvero i diritti sanciti dalla Costituzione. Solo così si ridarebbe dignità e sovranità a un popolo, ormai stanco di essere additato come colpevole e di rinunciare alle proprie libertà.

Ci dispiace constatare, però, che probabilmente nulla o quasi di quanto proposto sarà fatto. Hanno scelto di stare dalla parte sbagliata della storia.

Noi continueremo a stare dalla parte giusta.

Per la nostra dignità di popolo.

Per la sovranità, che solo al popolo appartiene.

Per la Costituzione.

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Ambiente e Beni Comuni

L’esproprio di oggi: il caso Mondello Italo-belga

Articolo scritto il 14 luglio 2020, da Pietro Salemi, Vice-presidente di ESC

Questo è ciò che resta ai palermitani delle proprie coste.

Su sollecitazione dell’amico Guido Bonfardeci, faccio un piccolo punto su quello che è da ritenersi un insopportabile saccheggio ai nostri danni. La società Italo-belga già dal 1910 ha messo le tende, anzi le capanne, sul magnifico litorale di Mondello. Sono 39mila i metri quadri di costa dati in concessione alla Italo-belga per un canone annuo pari a 42.000€, a fronte di un fatturato che (secondo dati 2013, gli ultimi che ho avuto modo di trovare) ammonta a 7 milioni di euro annui.Per dare un’idea dello scandalo ai nostri danni, proprio 7 milioni di Euro l’anno è ciò che percepisce la Sicilia come concessioni totali per i suoi 920 km di demanio marittimo dati in concessione. A conti fatti, qualora si passasse ad un gestione diretta da parte dell’ente pubblico, solo la litoranea di Mondello garantirebbe gli stessi introiti per le casse pubbliche. La speculazione privata ai danni dei cittadini non è certo peculiarità solo siciliana, ma qui raggiunge livelli intollerabili, se è vero, com’è vero che la Toscana realizza 16 milioni di € (più del doppio della Sicilia) per concessioni su un totale in km di poco più di un terzo rispetto alle coste siciliane. L’ingiustizia è almeno tripla:- la privatizzazione selvaggia della costa che toglie al cittadino la godibilitá della spiaggia, condannandolo a stiparsi a strati nei pochi cm lasciati liberi;- la fuga con un bottino milionario da parte di una multinazionale privata che paga concessioni di fatto irrisorie;- la mancata percezione di tali utili da parte dell’ente pubblico.

Ps: la concessione è stata rinnovata proprio il 20 maggio scorso da Totò Cordaro, l’assessore regionale al Territorio e ambiente, fino al 31 dicembre 2033. 🤙🏽

Pps: Ecco una petizione da sottoscrivere per chi è interessato a mettere almeno un po’ di pressione su questo tema al decisore pubblico. Non servirà a niente ma almeno contiamo quanti siamo a non accettare più quest’ingiustizia ai nostri danni e a proporre fattivamente soluzioni alternative e rispettose dei principi costituzionali: http://chng.it/CvTq4rMX47#giùlemanidallenostrecoste#cosepubbliche

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Economia

Critica socio-economica alla teoria AVO, fondamento dell’Unione Monetaria Europea

Articolo scritto da Giuseppe Matranga, membro di ESC e coordinatore del gruppo di lavoro su Economia e Finanza

Nel corso degli anni Sessanta del secolo scorso venne prodotta e perfezionata la cosiddetta teoria AVO (Aree Valutarie Ottimali); iniziata da Mundell nel 1961 e completata da McKinnon e Kenen tra il 1963 e il 1969, essa rappresentò la prima vera base scientifica all’istaurazione dell’Eurozona e al conseguente abbandono delle monete nazionali dei singoli paesi per sostituirli con la nuova moneta unica, l’Euro. 

Lo stesso relatore Mundell per più di dieci anni interpretò la sua teoria in modo critico riguardo alla sua realizzabilità tra i paesi europei, concentrandosi più sui costi che esse avrebbe potuto gravare sulle singole economie nazionali che non sui potenziali benefici, e solo nel 1973 all’interno del suoi celebri articoli  (“Uncommon arguments for common currencies” e “A plan for a European currency”) egli mostrò  un’inversione di tendenza dimostrando il suo nuovo ottimismo sulla realizzabilità delle stessa. 

La teoria AVO valse all’economista Mundell il premio Nobel nel 1999, lo stesso anno in cui di fatto si determinò l’introduzione definitiva dell’Euro come valuta unica europea.  

Entrando nel merito soltanto parziale dei fondamenti mundelliani sull’efficienza degli aggiustamenti automatici in relazione ai potenziali shock asimmetrici che possono verificarsi all’interno delle economie nazionali è di fondamentale importanza considerare il movimento dei fattori produttivi all’interno dell’AVO, segnatamente lo spostamento del fattore lavoro. 

La teoria AVO, come mostrato nella figura 1, analizza all’interno di un sistema a due paesi (casualmente scelti Francia e Germania), nei quali è sottintesa la libera mobilità delle merci,  gli effetti di un casuale shock di domanda verificatosi nel Paese Francia dettato da un mutamento di preferenze dei consumatori nazionali (i consumatori francesi preferiscono maggiormente i prodotti tedeschi a quelli nazionali), detto shock asimmetrico – in quanto colpisce al ribasso la domanda di beni francesi ma non quelli tedeschi – esso provoca un immediato spostamento verso sinistra della curva di domanda aggregata nel paese Francia e un opposto spostamento verso destra della medesima curva di domanda nel paese Germania, i suddetti spostamenti provocano il contestuale disallineamento dei punti di equilibrio nei relativi mercati nazionali, generando di fatto un abbassamento del livello dei prezzi in Francia (deflazione) e un aumento del livello dei prezzi in Germania (inflazione), contestualmente la minor domanda di prodotti francesi genererà una minor necessità di forza lavoro per le industrie nazionali e il conseguente aumento della disoccupazione, effetti del tutto opposti si verificano invece nel paese Germania, in cui la crescente domanda spingerà le industrie tedesche ad aumentare il livello di produzione e perciò ad assumere nuovi lavoratori.  

Come espresso nella figura 2, in una logica di monete nazionali il disequilibrio può essere facilmente risolto nel breve periodo grazie ad una svalutazione della moneta francese in relazione alla moneta tedesca, essa provoca un’immediato aumento di appetibilità dei prodotti francesi in Germania, i quali grazie alla svalutazione monetaria diventano meno costosi e conseguentemente più convenienti per i consumatori tedeschi; questa semplice scelta riporta le curve di domanda aggregata dei due paesi in una situazione analoga all’origine, riportando i rispettivi punti di equilibrio di mercato alla situazione antecedente lo shock e riassestando immediatamente gli squilibri venutisi a creare nei mercati del lavoro e riportando l’inflazione al suo valore iniziale. 

La teoria AVO applicata alle unioni monetarie, getta le basi dell’efficientamento dei mercati comuni considerando come pilastri fondamentali due caratteristiche imprescindibili: la libera circolazione dei capitali e la libera circolazione delle persone, presupposta al libero movimento dei lavoratori . 

Se il primo pilastro sia realmente stato eretto all’interno dell’Eurozona, e probabilmente il suo funzionamento resta tutt’ora imperfetto e soggetto ad una molteplicità di fattori scatenanti svariati problemi, l’interesse della trattazione ricade sul secondo, concentrandosi sui reali presupposti venutisi a creare nel corso degli anni affinché ci sia una reale libertà di movimento dei lavoratori all’interno del mercato unico europeo. 

Ritornando alla logica mundelliana, una totale libertà di movimento dei lavoratori unita ad una forte flessibilità dei salari, permetterebbe di raggiungere gli stessi effetti auspicati a una svalutazione monetaria all’interno di un’unione valutaria grazie al semplice spostamento dei soggetti lavoratori tra un paese e l’altro.  

Gettando nuovamente lo sguardo alla figura 1 possiamo facilmente immaginare come: in risposta ad una caduta di domanda aggregata in Francia e ad un conseguente aumento di domanda in Germania, i lavoratori francesi potrebbero facilmente scegliere di spostarsi in Germania per andare ad arricchire la forza lavoro tedesca, riequilibrando automaticamente il mercato del lavoro e contemporaneamente le curve relative a domanda e offerta aggregate. 

Affinché la mobilità dei lavoratori si verifichi con tale condizioni di automatismo sono necessari però alcuni presupposti non propriamente trascurabili, in quanto il solo diritto di trasferire liberamente la propria residenza da un paese all’altro (concetto di <<cittadinanza europea>> “Trattato di Maastricht”) non sembra di per se affatto sufficiente. 

Anzitutto, come lo stesso McKinnon (1963) sostiene, è necessario che i disoccupati provenienti dai settori colpiti da shock negativi siano disposti e capaci di spostarsi nei settori colpiti da shock positivi, in quanto in virtù della legge dello sfruttamento dei vantaggi competitivi, col passare del tempo i settori produttivi dei diversi paesi hanno sempre più optato per la specializzazione piuttosto che per la diversificazione. 

Le difficoltà che possono incontrarsi all’interno del suddetto processo sono però da considerarsi in funzione della sempre più marcata formazione e specializzazione di cui i lavoratori necessitano per approcciarsi ai sempre più moderni e integrati processi produttivi; a tal proposito è facile immaginare come sia improbabile se non addirittura impossibile che un metalmeccanico possa in breve tempo inserirsi nel settore tessile così come in quello chimico. 

Eppure esiste un limite ancor più grande alla mobilità dei lavoratori, e risiede tutto nelle profonde differenze culturali e storiche che separano i 512 milioni di abitanti che risiedono nei 27 paesi dell’Unione europea: la lingua, quelle ufficiali all’interno della UE sono addirittura 24 a cui si aggiungono più di 60 lingue autoctone regionali parlate da circa 40 milioni di abitanti, tra cui il catalano il basco, il frisone, il gallese e lo yiddish.  

Quella linguistica di certo rappresenta la barriera più difficile da superare affinché un lavoratore possa decidere di spostarsi dal suo paese di origine verso un altro paese dell’Unione europea, soprattutto considerando che proprio le classi sociali più basse, quelle meno preparate dal punto di vista istruttivo, sono solite conoscere e utilizzare uno sola lingua; e quand’anche la seconda lingua fosse più o meno conosciuta, essa nella stragrande maggioranza dei casi è l’inglese, ovvero una lingua ampiamente conosciuta, ma pur sempre  una lingua secondaria in 25 dei 27 paesi che compongono l’intera comunità, ovvero tutti ad esclusione di Irlanda e la piccola Malta. 

È facile immaginare quindi come di fatto siano pesantemente svantaggiate alla possibilità di spostamento ampie fette di popolazione, segnatamente la popolazione meno istruita e specializzata, che rappresenta invece la popolazione atta a ricoprire il ruolo di classe operaia; al contrario risulta meno svantaggiata da potenziali problemi linguistici la fetta di popolazione con preparazione accademica, che di fatto nel corso degli ultimi anni ha rivestito la maggioranza delle migrazioni, seppur andando a ricoprire esclusivamente ruoli professionali di maggior rilievo. 

Possiamo quindi concludere che la barriera linguistica di certo rappresenta la più ardua da superare per la forza lavoro semplice e non specializzata, che risulta pertanto la più sofferente in caso di shock asimmetrici e conseguentemente non in grado di soddisfare i presupposti richiesti dalla teoria AVO.  

Alle sopra elencate possiamo aggiungere inoltre altre due importanti caducità del sistema (dis)integrato europeo: la marcata difformità del livello dei salari e degli stipendi nelle diverse regioni intraeuropee e la totale mancanza di un sistema integrato pensionistico e di previdenza sociale. 

La differenza tra la retribuzione del lavoro in Europa è forse il dato più marcato in assoluto (come riporta Eurostat 2019), esso varia dai minimi di Bulgaria e Romania, in cui la retribuzione lorda è rispettivamente di 1,67 €/h e 2,03 €/h, fino ai massimi di Danimarca e Irlanda, rispettivamente di 25,5 €/h e 20,16 €/h.  

Questo è un dato fortemente scoraggiante perfino per le visioni più ottimistiche della mobilità intrauropea, in quanto è praticamente ovvio comprendere come un cittadino abbia ben poco interesse a trasferirsi da un paese all’altro dal momento in cui la sua speranza di retribuzione rischia di decrescere fino a 15 volte (se sceglie il posto sbagliato), ciò dimostra due cose fondamentali:  

 – indipendentemente dal livello di disoccupazione e quindi dalla reale possibilità di trovare più o meno facilmente un’occupazione, difficilmente un lavoratore sceglierà di trasferirsi in una regione europea in cui la sua retribuzione rischia di diminuire;  

– lo shock asimmetrico che può verificarsi aumentando la domanda aggregata di un paese dai bassi livelli salariali, purché possa influire sul livello interno dei prezzi e aumentare il livello dei salari medi, inverosimilmente potrà mai raggiungere un aumento tanto marcato da recuperare le circa 15 distanze che differenziano la paga oraria bulgara da quella danese; perciò risulta chiaro che anche osservata da un punto di vista ottimistico la reale relazione auspicata da Mundell sia realizzabile solo tra paesi con un livello di salario similare, cosa ben lontana dalla realtà europea. 

In ultimo, la mancanza di un sistema previdenziale comune o comunque integrato non permette ai lavoratori che nel corso della loro vita svolgono professioni e attività in diversi paesi europei di attendersi e perciò sperare in una pensione congrua alle retribuzioni accumulate nel corso del tempo. 

Di fatto tale grave mancanza impedisce al lavoratore qualsiasi calcolo e previsione sull’importo pensionistico che otterrà una volta smesso di lavorare, per di più essendo ogni sistema previdenziale nazionale profondamente diverso dall’altro sia per limiti di età che per modalità di calcolo contributivo, ed essendo tra l’altro tutti continuamente suscettibili di profonde mutazioni nel corso del tempo, il lavoratore corre il rischio di iniziare ad avere il diritto di ricevere una prima indennità previdenziale da un paese nella quale ha svolto attività lavorativa in passato, nello stesso momento in cui egli svolge ancora attività lavorativa. Per esempio un lavoratore francese che all’età di 62 anni svolge un attività in Italia, ha già diritto alla pensione francese quando in Italia lo acquisisce solo 5 anni più tardi. 

Allo stesso tempo la mancanza di una “previdenza europea” esponendo i lavoratori dell’impossibilità di previsioni future, spinge essi stessi verso forme di previdenza aggiuntiva privata, che dal suo canto però mostra almeno due importanti criticità:  

  • La previdenza privata sempre più spesso viene affidata a fondi di investimento, i quali non sono in alcun modo garantiti dallo Stato e quindi sono suscettibili dell’aleatorietà degli investimenti speculativi e perciò esposti a rischio di insolvenza; 
  • Essendo essa stessa aggiuntiva alla previdenza obbligatoria perciò volontaria, richiede al lavoratore di dover rinunciare oggi ad una parte della propria retribuzione per avere in futuro una indennità maggiorata al momento della pensione, ma questa volontarietà espone maggiormente le classi lavoratrici meno abbienti , che con maggiori difficoltà possono permettersi di privarsi di parte dello stipendio, a non poter di fatto scegliere liberamente se rivolgersi o meno a detti enti previdenziali e conseguentemente li espone maggiormente all’incertezza del futuro nell’età della vecchiaia. 

“Quello con gli Stati Uniti d’America è forse il paragone che viene citato maggiormente dai fautori e dai sostenitori del processo di integrazione europea, ma esistono differenze ben marcate tra le due realtà che di fatto le pongono su due piani del tutto diversi e rendono lo stesso paragone del tutto inappropriato. 

Gli Stati Uniti esistono dal 1776 ovvero dal giorno della Dichiarazione di Indipendenza, sono passati quasi 250 anni da quando essi hanno deciso di racchiudersi dentro ad un’unica bandiera, e da allora quello che era un agglomerato di immigrati provenienti da ogni parte del mondo ha maturato una storia comune di Popolo “americano”. Per contro i nostri nonni più anziani ancora hanno ben impresso nella loro memoria il fragore delle bombe e dei proiettili del nemico che veniva da oltre confine. 

È vero, negli Stati Uniti si parlano più di otto lingue ma l’inglese è lingua ufficiale parlata, o almeno compresa, dalla quasi totalità della popolazione statunitense.  

Il loro sistema pensionistico pubblico è quasi del tutto inesistente da decenni, ciò comporta che in ogni caso i cittadini americani sono ben coscienti di dover destinare parte del loro reddito ad una assicurazione previdenziale privata indipendentemente da dove si trovino a vivere entro il territorio nazionale. 

La frammentazione del livello medio di retribuzione negli Stati Uniti nonostante sia presente non è affatto paragonabile alle misure di grandezza che si riscontrano tra i paesi europei nei quali abbiamo già citato la differenza di 15 volte tra gli estremi di dette retribuzioni. Per un approfondimento sulle differenze Stato per Stato nei salari medi orari statunitensi, si veda al seguente link: https://www.governing.com/gov-data/wage-average-median-pay-data-for-states.html. 

In ultimo, è importante considerare come a livello sociale, e ciò riguarda la maggioranza delle famiglie statunitensi, è socialmente accettato e del tutto normale che i componenti delle famiglie debbano spostarsi da un luogo all’altro della nazione, si comincia sin da giovani nella ricerca delle università più prestigiose e si continua durante gli sviluppi della carriera; in Europa invece per motivi prettamente culturali e sociologici le famiglie tendono molto di più a rimanere nei pressi dei luoghi di nascita, tutt’al più a migrare all’interno delle proprie aree regionali e nazionali. 

Per tutte queste ragioni, le realtà statunitense ed europea sono profondamente dissimili e del tutto inadatte ad essere rapportate e prese in considerazione per paragoni riguardanti il mercato del lavoro e la relativa mobilità dei lavoratori. 

Conclusioni 

Considerate le sopra elencate criticità del mercato del lavoro intraeuropeo possiamo definire quindi la “mobilità dei lavoratori” come il pilastro maggiormente caduco della struttura portante del mercato unico dell’Eurozona, definendosi del tutto inappropriata la considerazione del territorio dell’odierna UE come Area Valutaria Ottimale e perciò come esperimento del tutto fallito nel corso degli ultimi decenni del processo di integrazione europea, che di fatto non lascia alcuna speranza e prospettiva futura verso un ipotesi di maggiore diffusione del benessere economico e perciò sociale tra i paesi facenti parte dell’Unione. 

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Economia

Quale futuro per la piccola impresa agroalimentare in tempi di covid-19?

Articolo scritto da Giuseppe Matranga, membro di ESC e Coordinatore Gruppo di lavoro su Economia e Finanza

La crisi creatasi dell’epidemia covid-19 ha interessato l’argomento della salute pubblica ma oltre ad aver scosso la nazione nell’ambito della santità ha colpito l’intera economia e creato alcune profonde distorsioni perfino in quei settori che all’apparenza non sono stati toccati dalle misure restrittive e appaiono ancora produttivi e pienamente attivi, stiamo parlando del settore agroalimentare.

L’agroalimentare è chiaramente ritenuto un settore strategico sul piano nazionale , e come è chiaro che sia, di primaria importanza per l’autosostentamento del paese, questo è il motivo per il quale il governo, all’interno dei decreti che si sono succeduti, non ha mai impedito la produzione e la commercializzazione dei prodotti che ne fanno parte; si sono però venute a creare alcune situazioni di difficoltà all’interno del settore che da un lato hanno colpito la domanda, segnatamente di alcuni segmenti di prodotto, e dall’altro l’offerta, costituendo di fatto uno shock simmetrico che sta creando non pochi problemi ad intere filiere.

– Lo shock di domanda

(Spostamento dei consumi)

Nonostante i supermercati e i negozi al dettaglio di generi alimentari siano sempre rimasti aperti col passare delle settimane è reso sempre più chiaro che i consumi delle famiglie si vadano spostando da un segmento all’altro di prodotto in funzione dei redditi disponibili che si abbassano di giorno in giorno fino ad arrivare a zero nelle situazioni più disperate, è ovvio quindi che i consumi si spostino via via più sugli alimenti di prima necessità piuttosto che su quelli superflui e che la scelta stessa tra un negozio e l’altro si sposti più verso il discount che non sulla bottega a chilometro zero, che per antonomasia ha i prodotti migliori ma anche i più costosi. Questo calo di reddito disponibile ha fatto si che molti piccoli negozi così come anche le catene di supermercati che trattano prodotti di prima fascia abbiano subìto un forte calo di domanda, in alcuni casi tanto profondo che alcuni esercenti hanno già scelto di abbassare autonomamente la saracinesca in quanto le entrate di cassa non arrivano a coprire le stesse spese d’esercizio.

Chi ne fa le spese sono tutte le piccole aziende che producono prodotti di nicchia e le cosiddette eccellenze del territorio, in quanto i loro articoli sono in gran parte fuoriusciti dal paniere d’acquisto di molti consumatori.

Come se non bastasse molti degli articoli alimentari di base ( frutta e verdura freschi, farina, pasta, etc.) hanno subìto un forte aumento dei prezzi al dettaglio generati da diverse concause tra cui principalmente la difficoltà di approvvigionamento e l’aumento di markup del venditore finale, cosa che ovviamente come normale effetto di mercato provoca un’ennesima diminuzione di domanda.

– Lo shock di offerta

Ben più grosso è il problema sul lato dell’offerta in quanto se da una parte manca la manodopera nei campi per la raccolta dei prodotti agricoli, gli stessi stanno accusando un’impennata di prezzo in media di circa il 45%.

L’aumento di prezzo delle materie prime, essendo probabilmente di natura puramente momentanea e destinata a ristabilirsi nell’arco di poche settimane non permette alle piccole aziende di trasformazione di riversare sui prezzi dei prodotti finiti il maggior costo sostenuto per l’approvvigionamento della materia prima.

Le piccole imprese di trasformazione, per dimensione e capacità produttiva, usano trasformare le materie prime soltanto in certi periodi dell’anno, prediligendo i prodotti locali e chiaramente non sempre disponibili sul mercato, inoltre usualmente essi operano la trasformazione proprio durante il momento immediatamente successivo alla raccolta, essendo esso anche il momento in cui il prodotto ha il miglior prezzo di mercato; al contempo questa stessa produzione difficilmente viene

immediatamente piazzata sul mercato andando in gran parte a costituire scorte di magazzino che vengono vendute via via nel corso dei mesi a seguire. La pesante distorsione del normale prezzo di mercato dei prodotti agricoli di stagione provoca nelle piccole industrie una difficile scelta cui ottemperare:

-acquistare oggi a un prezzo esorbitante le materie prime, pur sapendo che nei mesi a seguire i prezzi degli alimentari torneranno ad essersi normalizzati e rischiando di proporre un prodotto finito dal prezzo troppo alto rispetto al mercato futuro, con conseguenti alti rischi di mancate vendite o mancati margini di profitto;

-attendere che il mercato delle materie prime torni a normalizzarsi prima che sia troppo tardi per andare a produrre quegli articoli che saranno richiesti nei mesi a venire al solito prezzo dello scorso anno, correndo così anche il rischio di restare senza prodotto se la crisi di prezzo dovesse perdurare oltre le loro aspettative.

Lo stesso problema invece non riguarda la maggior parte delle grandi aziende di trasformazione, che si rivolgono alla grande distribuzione, le quali sono già abituate a lavorare prodotti provenienti dall’estero, gran parte dei quali disponibili lungo più archi dell’anno.

Nei prossimi mesi, a causa della distorsione odierna, potrebbe venire a crearsi un problema di competitività delle piccole aziende, in quanto potrebbe diminuire sensibilmente la quantità della loro offerta e vederle ancora più distanziate nel prezzo rispetto ai prodotti di massa, senza che ci sia un contestuale aumento di markup; i prodotti di nicchia destinati alla piccola distribuzione di eccellenza potrebbero vedersi identificati dai consumatori sempre più come “prodotti di lusso” e perciò difficilmente accessibili, e ciò potrebbe causare a sua volta un forte crollo di domanda degli stessi.

Praticamente come se non bastasse il lockdown a danneggiare la nostra piccola impresa, a cui lo Stato centrale sta destinando ben poche risorse (se non nessuna), affinché essa non sprofondi nel baratro del fallimento, ci stanno mettendo lo zampino anche delle naturali distorsioni di mercato dettate dell’epidemia del coronavirus.

La piccola e spesso la micro-impresa rappresentano un fiore all’occhiello della manifattura italiana, specialmente quella del settore agroalimentare, e tutto al momento non fa ben sperare per la sua (r)esistenza in un prossimo futuro alquanto vicino.

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Costituzione

Libertà è partecipazione: il partito e lo Stato sociale

Articolo di Valerio Macagnone, segretario ESC (2020-2021)

La società neoliberale è strutturata mediaticamente in modo da far credere che la libertà sia una sorta di prodotto assicurativo preconfezionato contro gli aleatori rischi di fascismo e che il securitarismo sia l’unica ambizione popolare possibile in un contesto dove gli squilibri nella distribuzione del reddito non vengono tenuti in minima considerazione se non come arma retorica priva di contenuto. La realtà storica, invece, ci dice che la libertà per i ceti più deboli è stata una conquista ottenuta dai partiti socialisti e popolari con una lotta intelligente che alla base aveva disciplina, conoscenza, divulgazione e difesa della coesione organizzativa. Il partito in ambito socialistico, durante il corso della Prima Repubblica, rappresentava il necessario mezzo di integrazione delle masse popolari nelle istituzioni politiche, dacché il passaggio dallo Stato monoclasse/liberale, a base sociale ristretta, allo Stato pluriclasse/sociale, richiedeva appunto la presenza di corpi intermedi che con un apparato organizzativo solido mantenevano la coesione di azione e intenti tra elettori ed eletti. La creazione di una identità collettiva di classe è stato, quindi, l’obiettivo a cui miravano i partiti a vocazione popolare che, dopo la fase di transizione totalitaria rappresentata dal fascismo, introdussero un nuovo quadro istituzionale/normativo democratico e nuovi istituti atti a garantire il progresso sociale e un benessere diffuso. La convergenza di ambizioni ha avuto la sua consacrazione nella Costituzione che prefigura una nuova forma di Stato il cui scopo era quello di superare definitivamente le criticità emerse nel corso dell’età liberale. Lo Stato sociale, dunque, conosciuto anche come Welfare state ovvero Stato del benessere, si distingue dallo Stato liberale, basato sul principio della libertà negativa, per l’enunciazione di una nuova formula di equilibrio in cui spetta proprio agli organi pubblici l’intervento nel campo economico. Tale intervento si manifesta principalmente in due modi: 1) governo del ciclo economico attraverso politiche di stampo keynesiano volte a contrastare gli effetti negativi del ciclo economico con incremento della spesa pubblica al fine di supportare la domanda interna ed evitare la disoccupazione; 2) adozione di norme giuridiche finalizzate a ottenere da una parte, sul piano regolativo, una sostanziale riduzione delle disuguaglianze di reddito tra individui e tra gruppi con una disciplina del rapporto di lavoro subordinato volta a tutelare il soggetto con minore potere contrattuale, ovvero il lavoratore, ad esempio con la limitazione della libertà di licenziamento o ancora con il diritto a un’equa retribuzione, e, d’altra parte, sul piano redistributivo, un sostanziale trasferimento di risorse finanziarie da determinate categorie ad altre attraverso il prelievo fiscale onde poter attuare politiche assistenziali e previdenziali in favore di inabili al lavoro, disoccupati e dei lavoratori infortunati o malati. La Costituzione, quindi, nella sua vocazione umanistica, mette proprio in evidenza la necessità di tutelare non soltanto le “libertà negative” (libertà dallo Stato) ovvero tutte quelle libertà per le quali è dovere da parte dello Stato omettere qualsiasi forma di intervento che crei ostacolo alla libertà individuale (ad esempio, l’art. 21 Cost: Libertà di espressione, o ancora, art. 33 Cost.: libertà di arte/scienza/insegnamento) ma, nell’intenzione di superare i limiti del liberalismo e di tutelare i diritti positivi, pone il principio fondamentale dell’eguaglianza sostanziale previsto dal secondo comma dell’art. 3 della Costituzione: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Tale principio, introdotto per volontà del socialista Lelio Basso, trasferisce sul piano sostanziale l’enunciazione formale di eguaglianza di cui al primo comma dello stesso articolo, ed esplicita il carattere interventista dello Stato sociale. L’esistenza dello Stato del benessere diventa quindi la condizione preliminare per la rivendicazione di entrambe le posizioni giuridiche attive: libertà e diritti positivi. Ma se da una parte le libertà negative, retaggio del costituzionalismo liberale, richiedono un’astensione dello Stato dalle scelte dell’individuo, i diritti positivi si caratterizzano per la pretesa di soddisfazione nei confronti dello Stato il quale si impegna a porre in essere tutti gli interventi opportuni a che sia garantiti i diritti sociali (lavoro, istruzione, casa, assistenza e salute). Si può dunque parlare, in quest’ultimo caso, di libertà mediante lo Stato, e come osserva Piero Calamandrei “Se si guarda alla loro finalità, è legittimo l’allineamento di questi nuovi diritti sociali accanto ai tradizionali diritti politici del cittadino in un’unica categoria di diritti di libertà; perché la loro proclamazione deriva, come si è visto, dall’aver riconosciuto che l’ostacolo alla libera esplicazione della persona morale nella vita della comunità può derivare non solo dalla tirannia politica, ma anche da quella economica: sicché i diritti che mirano ad affrancare l’uomo da queste due tirannie si pongono ugualmente come rivendicazioni di libertà”.

Piero Calamandrei

Dunque, appare evidente che mediante gli interventi correttivi del Welfare state vengono a realizzarsi delle compensazioni modificative dei risultati ottenuti dalle forze del mercato e di conseguenza l’individualismo liberale viene superato in favore di un sistema ad economia mista basato sulla solidarietà sociale. L’individuo e lo Stato non vengono più considerate come entità astratte in contrapposizione tra di loro, ma nel contesto della democrazia pluralista e sociale, l’individuo può definire la propria personalità pienamente partecipando alla vita sociale ed economica del Paese. Lo Stato interventista/keynesiano, pertanto, è stato il frutto di un compromesso politico dove accanto alle libertà liberali, si tengono in considerazione le disuguaglianze prodotte dalle dinamiche del mercato che vengono quindi corrette in funzione di un pieno equilibrio democratico tra le diverse istanze sociali e le diverse categorie presenti all’interno di una democrazia pluralista. Tuttavia, nonostante le nobili intenzioni dei costituenti abbiano trovato una valida ma parziale traduzione empirica nel trentennio postbellico, la narrazione attualmente dominante nel mondo mediatico, televisivo e letterario, tende a dare una rappresentazione erronea dello Stato e delle sue funzioni costituzionali, proiettando l’attenzione dell’opinione pubblica su dibattiti estremamente polarizzati e molto spesso irrazionali in cui lo sfondo comune, rappresentato dall’ordinamento giuridico sovranazionale, non viene messo minimamente in discussione se non attraverso proclami a cui non viene data alcuna parvenza di solidità. In questo scenario, dove i titoli inseguono la piazza (i social network) e si ha una prevalenza delle forze regressive (già profetizzate dal costituente socialista Gustavo Ghidini) il vero progressismo, ovvero quello che mira a ottenere l’avanzamento dei ceti più deboli della società in una cornice di dirigismo statale, è tuttora neutralizzato da una “sfilata cinematografica” di retoriche opposte e divisive ma solidamente unite dalla volontà di non mettere in discussione i capisaldi dell’ideologia neoliberale (Stato minimo, concorrenza e individualismo). Il concetto di libertà viene distorto e assolutizzato in maniera impropria, e d’altra parte prende campo la deriva punitivista della destra securitaria che, pur rivolgendo “prosaicamente” la propria offerta politica alla fasce sociali che più sono state colpite dalla crisi, continua ad adottare politiche regressive sotto il profilo economico. In questo contesto storico fortemente contrassegnato dalla crisi economica, culturale e sociale, la Costituzione può tornare ad essere la bussola con la quale orientarsi in futuro e rappresentare la base necessaria per un orizzonte di progresso materiale e spirituale, in cui può tornare in auge il concetto di democrazia progressiva in forza del quale l’antinomia tra individualismo e collettivismo viene definitivamente risolta in favore di un sistema in cui un regime giuridico di giustizia sociale è condizione preliminare e arricchimento della libertà individuale: come sosteneva il filosofo Bontadini “Il personalismo perciò deve evitare, se non vuole corrompersi speculativamente, di opporsi al “socialismo”, deve accettare l’eliminazione dell’antinomia”, e in tal senso, occorre necessariamente tornare a marciare nella direzione tracciata dalla nostra carta costituzionale.