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Critica socio-economica alla teoria AVO, fondamento dell’Unione Monetaria Europea

Articolo scritto da Giuseppe Matranga, membro di ESC e coordinatore del gruppo di lavoro su Economia e Finanza

Nel corso degli anni Sessanta del secolo scorso venne prodotta e perfezionata la cosiddetta teoria AVO (Aree Valutarie Ottimali); iniziata da Mundell nel 1961 e completata da McKinnon e Kenen tra il 1963 e il 1969, essa rappresentò la prima vera base scientifica all’istaurazione dell’Eurozona e al conseguente abbandono delle monete nazionali dei singoli paesi per sostituirli con la nuova moneta unica, l’Euro. 

Lo stesso relatore Mundell per più di dieci anni interpretò la sua teoria in modo critico riguardo alla sua realizzabilità tra i paesi europei, concentrandosi più sui costi che esse avrebbe potuto gravare sulle singole economie nazionali che non sui potenziali benefici, e solo nel 1973 all’interno del suoi celebri articoli  (“Uncommon arguments for common currencies” e “A plan for a European currency”) egli mostrò  un’inversione di tendenza dimostrando il suo nuovo ottimismo sulla realizzabilità delle stessa. 

La teoria AVO valse all’economista Mundell il premio Nobel nel 1999, lo stesso anno in cui di fatto si determinò l’introduzione definitiva dell’Euro come valuta unica europea.  

Entrando nel merito soltanto parziale dei fondamenti mundelliani sull’efficienza degli aggiustamenti automatici in relazione ai potenziali shock asimmetrici che possono verificarsi all’interno delle economie nazionali è di fondamentale importanza considerare il movimento dei fattori produttivi all’interno dell’AVO, segnatamente lo spostamento del fattore lavoro. 

La teoria AVO, come mostrato nella figura 1, analizza all’interno di un sistema a due paesi (casualmente scelti Francia e Germania), nei quali è sottintesa la libera mobilità delle merci,  gli effetti di un casuale shock di domanda verificatosi nel Paese Francia dettato da un mutamento di preferenze dei consumatori nazionali (i consumatori francesi preferiscono maggiormente i prodotti tedeschi a quelli nazionali), detto shock asimmetrico – in quanto colpisce al ribasso la domanda di beni francesi ma non quelli tedeschi – esso provoca un immediato spostamento verso sinistra della curva di domanda aggregata nel paese Francia e un opposto spostamento verso destra della medesima curva di domanda nel paese Germania, i suddetti spostamenti provocano il contestuale disallineamento dei punti di equilibrio nei relativi mercati nazionali, generando di fatto un abbassamento del livello dei prezzi in Francia (deflazione) e un aumento del livello dei prezzi in Germania (inflazione), contestualmente la minor domanda di prodotti francesi genererà una minor necessità di forza lavoro per le industrie nazionali e il conseguente aumento della disoccupazione, effetti del tutto opposti si verificano invece nel paese Germania, in cui la crescente domanda spingerà le industrie tedesche ad aumentare il livello di produzione e perciò ad assumere nuovi lavoratori.  

Come espresso nella figura 2, in una logica di monete nazionali il disequilibrio può essere facilmente risolto nel breve periodo grazie ad una svalutazione della moneta francese in relazione alla moneta tedesca, essa provoca un’immediato aumento di appetibilità dei prodotti francesi in Germania, i quali grazie alla svalutazione monetaria diventano meno costosi e conseguentemente più convenienti per i consumatori tedeschi; questa semplice scelta riporta le curve di domanda aggregata dei due paesi in una situazione analoga all’origine, riportando i rispettivi punti di equilibrio di mercato alla situazione antecedente lo shock e riassestando immediatamente gli squilibri venutisi a creare nei mercati del lavoro e riportando l’inflazione al suo valore iniziale. 

La teoria AVO applicata alle unioni monetarie, getta le basi dell’efficientamento dei mercati comuni considerando come pilastri fondamentali due caratteristiche imprescindibili: la libera circolazione dei capitali e la libera circolazione delle persone, presupposta al libero movimento dei lavoratori . 

Se il primo pilastro sia realmente stato eretto all’interno dell’Eurozona, e probabilmente il suo funzionamento resta tutt’ora imperfetto e soggetto ad una molteplicità di fattori scatenanti svariati problemi, l’interesse della trattazione ricade sul secondo, concentrandosi sui reali presupposti venutisi a creare nel corso degli anni affinché ci sia una reale libertà di movimento dei lavoratori all’interno del mercato unico europeo. 

Ritornando alla logica mundelliana, una totale libertà di movimento dei lavoratori unita ad una forte flessibilità dei salari, permetterebbe di raggiungere gli stessi effetti auspicati a una svalutazione monetaria all’interno di un’unione valutaria grazie al semplice spostamento dei soggetti lavoratori tra un paese e l’altro.  

Gettando nuovamente lo sguardo alla figura 1 possiamo facilmente immaginare come: in risposta ad una caduta di domanda aggregata in Francia e ad un conseguente aumento di domanda in Germania, i lavoratori francesi potrebbero facilmente scegliere di spostarsi in Germania per andare ad arricchire la forza lavoro tedesca, riequilibrando automaticamente il mercato del lavoro e contemporaneamente le curve relative a domanda e offerta aggregate. 

Affinché la mobilità dei lavoratori si verifichi con tale condizioni di automatismo sono necessari però alcuni presupposti non propriamente trascurabili, in quanto il solo diritto di trasferire liberamente la propria residenza da un paese all’altro (concetto di <<cittadinanza europea>> “Trattato di Maastricht”) non sembra di per se affatto sufficiente. 

Anzitutto, come lo stesso McKinnon (1963) sostiene, è necessario che i disoccupati provenienti dai settori colpiti da shock negativi siano disposti e capaci di spostarsi nei settori colpiti da shock positivi, in quanto in virtù della legge dello sfruttamento dei vantaggi competitivi, col passare del tempo i settori produttivi dei diversi paesi hanno sempre più optato per la specializzazione piuttosto che per la diversificazione. 

Le difficoltà che possono incontrarsi all’interno del suddetto processo sono però da considerarsi in funzione della sempre più marcata formazione e specializzazione di cui i lavoratori necessitano per approcciarsi ai sempre più moderni e integrati processi produttivi; a tal proposito è facile immaginare come sia improbabile se non addirittura impossibile che un metalmeccanico possa in breve tempo inserirsi nel settore tessile così come in quello chimico. 

Eppure esiste un limite ancor più grande alla mobilità dei lavoratori, e risiede tutto nelle profonde differenze culturali e storiche che separano i 512 milioni di abitanti che risiedono nei 27 paesi dell’Unione europea: la lingua, quelle ufficiali all’interno della UE sono addirittura 24 a cui si aggiungono più di 60 lingue autoctone regionali parlate da circa 40 milioni di abitanti, tra cui il catalano il basco, il frisone, il gallese e lo yiddish.  

Quella linguistica di certo rappresenta la barriera più difficile da superare affinché un lavoratore possa decidere di spostarsi dal suo paese di origine verso un altro paese dell’Unione europea, soprattutto considerando che proprio le classi sociali più basse, quelle meno preparate dal punto di vista istruttivo, sono solite conoscere e utilizzare uno sola lingua; e quand’anche la seconda lingua fosse più o meno conosciuta, essa nella stragrande maggioranza dei casi è l’inglese, ovvero una lingua ampiamente conosciuta, ma pur sempre  una lingua secondaria in 25 dei 27 paesi che compongono l’intera comunità, ovvero tutti ad esclusione di Irlanda e la piccola Malta. 

È facile immaginare quindi come di fatto siano pesantemente svantaggiate alla possibilità di spostamento ampie fette di popolazione, segnatamente la popolazione meno istruita e specializzata, che rappresenta invece la popolazione atta a ricoprire il ruolo di classe operaia; al contrario risulta meno svantaggiata da potenziali problemi linguistici la fetta di popolazione con preparazione accademica, che di fatto nel corso degli ultimi anni ha rivestito la maggioranza delle migrazioni, seppur andando a ricoprire esclusivamente ruoli professionali di maggior rilievo. 

Possiamo quindi concludere che la barriera linguistica di certo rappresenta la più ardua da superare per la forza lavoro semplice e non specializzata, che risulta pertanto la più sofferente in caso di shock asimmetrici e conseguentemente non in grado di soddisfare i presupposti richiesti dalla teoria AVO.  

Alle sopra elencate possiamo aggiungere inoltre altre due importanti caducità del sistema (dis)integrato europeo: la marcata difformità del livello dei salari e degli stipendi nelle diverse regioni intraeuropee e la totale mancanza di un sistema integrato pensionistico e di previdenza sociale. 

La differenza tra la retribuzione del lavoro in Europa è forse il dato più marcato in assoluto (come riporta Eurostat 2019), esso varia dai minimi di Bulgaria e Romania, in cui la retribuzione lorda è rispettivamente di 1,67 €/h e 2,03 €/h, fino ai massimi di Danimarca e Irlanda, rispettivamente di 25,5 €/h e 20,16 €/h.  

Questo è un dato fortemente scoraggiante perfino per le visioni più ottimistiche della mobilità intrauropea, in quanto è praticamente ovvio comprendere come un cittadino abbia ben poco interesse a trasferirsi da un paese all’altro dal momento in cui la sua speranza di retribuzione rischia di decrescere fino a 15 volte (se sceglie il posto sbagliato), ciò dimostra due cose fondamentali:  

 – indipendentemente dal livello di disoccupazione e quindi dalla reale possibilità di trovare più o meno facilmente un’occupazione, difficilmente un lavoratore sceglierà di trasferirsi in una regione europea in cui la sua retribuzione rischia di diminuire;  

– lo shock asimmetrico che può verificarsi aumentando la domanda aggregata di un paese dai bassi livelli salariali, purché possa influire sul livello interno dei prezzi e aumentare il livello dei salari medi, inverosimilmente potrà mai raggiungere un aumento tanto marcato da recuperare le circa 15 distanze che differenziano la paga oraria bulgara da quella danese; perciò risulta chiaro che anche osservata da un punto di vista ottimistico la reale relazione auspicata da Mundell sia realizzabile solo tra paesi con un livello di salario similare, cosa ben lontana dalla realtà europea. 

In ultimo, la mancanza di un sistema previdenziale comune o comunque integrato non permette ai lavoratori che nel corso della loro vita svolgono professioni e attività in diversi paesi europei di attendersi e perciò sperare in una pensione congrua alle retribuzioni accumulate nel corso del tempo. 

Di fatto tale grave mancanza impedisce al lavoratore qualsiasi calcolo e previsione sull’importo pensionistico che otterrà una volta smesso di lavorare, per di più essendo ogni sistema previdenziale nazionale profondamente diverso dall’altro sia per limiti di età che per modalità di calcolo contributivo, ed essendo tra l’altro tutti continuamente suscettibili di profonde mutazioni nel corso del tempo, il lavoratore corre il rischio di iniziare ad avere il diritto di ricevere una prima indennità previdenziale da un paese nella quale ha svolto attività lavorativa in passato, nello stesso momento in cui egli svolge ancora attività lavorativa. Per esempio un lavoratore francese che all’età di 62 anni svolge un attività in Italia, ha già diritto alla pensione francese quando in Italia lo acquisisce solo 5 anni più tardi. 

Allo stesso tempo la mancanza di una “previdenza europea” esponendo i lavoratori dell’impossibilità di previsioni future, spinge essi stessi verso forme di previdenza aggiuntiva privata, che dal suo canto però mostra almeno due importanti criticità:  

  • La previdenza privata sempre più spesso viene affidata a fondi di investimento, i quali non sono in alcun modo garantiti dallo Stato e quindi sono suscettibili dell’aleatorietà degli investimenti speculativi e perciò esposti a rischio di insolvenza; 
  • Essendo essa stessa aggiuntiva alla previdenza obbligatoria perciò volontaria, richiede al lavoratore di dover rinunciare oggi ad una parte della propria retribuzione per avere in futuro una indennità maggiorata al momento della pensione, ma questa volontarietà espone maggiormente le classi lavoratrici meno abbienti , che con maggiori difficoltà possono permettersi di privarsi di parte dello stipendio, a non poter di fatto scegliere liberamente se rivolgersi o meno a detti enti previdenziali e conseguentemente li espone maggiormente all’incertezza del futuro nell’età della vecchiaia. 

“Quello con gli Stati Uniti d’America è forse il paragone che viene citato maggiormente dai fautori e dai sostenitori del processo di integrazione europea, ma esistono differenze ben marcate tra le due realtà che di fatto le pongono su due piani del tutto diversi e rendono lo stesso paragone del tutto inappropriato. 

Gli Stati Uniti esistono dal 1776 ovvero dal giorno della Dichiarazione di Indipendenza, sono passati quasi 250 anni da quando essi hanno deciso di racchiudersi dentro ad un’unica bandiera, e da allora quello che era un agglomerato di immigrati provenienti da ogni parte del mondo ha maturato una storia comune di Popolo “americano”. Per contro i nostri nonni più anziani ancora hanno ben impresso nella loro memoria il fragore delle bombe e dei proiettili del nemico che veniva da oltre confine. 

È vero, negli Stati Uniti si parlano più di otto lingue ma l’inglese è lingua ufficiale parlata, o almeno compresa, dalla quasi totalità della popolazione statunitense.  

Il loro sistema pensionistico pubblico è quasi del tutto inesistente da decenni, ciò comporta che in ogni caso i cittadini americani sono ben coscienti di dover destinare parte del loro reddito ad una assicurazione previdenziale privata indipendentemente da dove si trovino a vivere entro il territorio nazionale. 

La frammentazione del livello medio di retribuzione negli Stati Uniti nonostante sia presente non è affatto paragonabile alle misure di grandezza che si riscontrano tra i paesi europei nei quali abbiamo già citato la differenza di 15 volte tra gli estremi di dette retribuzioni. Per un approfondimento sulle differenze Stato per Stato nei salari medi orari statunitensi, si veda al seguente link: https://www.governing.com/gov-data/wage-average-median-pay-data-for-states.html. 

In ultimo, è importante considerare come a livello sociale, e ciò riguarda la maggioranza delle famiglie statunitensi, è socialmente accettato e del tutto normale che i componenti delle famiglie debbano spostarsi da un luogo all’altro della nazione, si comincia sin da giovani nella ricerca delle università più prestigiose e si continua durante gli sviluppi della carriera; in Europa invece per motivi prettamente culturali e sociologici le famiglie tendono molto di più a rimanere nei pressi dei luoghi di nascita, tutt’al più a migrare all’interno delle proprie aree regionali e nazionali. 

Per tutte queste ragioni, le realtà statunitense ed europea sono profondamente dissimili e del tutto inadatte ad essere rapportate e prese in considerazione per paragoni riguardanti il mercato del lavoro e la relativa mobilità dei lavoratori. 

Conclusioni 

Considerate le sopra elencate criticità del mercato del lavoro intraeuropeo possiamo definire quindi la “mobilità dei lavoratori” come il pilastro maggiormente caduco della struttura portante del mercato unico dell’Eurozona, definendosi del tutto inappropriata la considerazione del territorio dell’odierna UE come Area Valutaria Ottimale e perciò come esperimento del tutto fallito nel corso degli ultimi decenni del processo di integrazione europea, che di fatto non lascia alcuna speranza e prospettiva futura verso un ipotesi di maggiore diffusione del benessere economico e perciò sociale tra i paesi facenti parte dell’Unione.